Ti hanno insegnato che la mente deve essere sgombra da ogni pensiero, al punto che non devi nemmeno ricordarti di essere viva. Entri in una carcassa di trenta piani, tende squarciate, vetri rotti, cemento lacerato dai mortai. Ascensore piano morte. Funziona solo quello nel vecchio albergo. Al sesto piano esci e ti intrufoli in una stanza. Sarà il tuo riparo giusto, il tempo di sparare due colpi, poi dovrai fuggire. Tutti miliziani lì dentro, ma nessuno lo è davvero. Cercare il bersaglio. Individuarlo nel mirino. Sparare. Questo devi fare. È un articolo che non scriverai tu, sarà un inviato straniero a scrivere di te, infiltrata tra le macerie di una città dilaniata.
Non hai spazio per nessun altro pensiero. Tu non esisti. Sei solo un’arma di morte. Tu però non sei stata addestrata a farlo, non hai mai voluto entrare nell’esercito, anche se tuo padre era un poliziotto. Il superiore che è con te non ti mette fretta. E il tuo sguardo si perde sulle colline che si stendono all’orizzonte. Grbavica, il quartiere dove sei nata. C’è una scrivania nella stanza, la ribalti cercando di fare meno rumore possibile. Devi essere invisibile. Potresti essere anche tu nel mirino di qualcuno. Appoggi la canna del fucile sulla gamba di legno del tavolo, il calcio dell’arma sull’incavo della spalla. Siete diventati una cosa sola.
Ma quelle colline ti chiamano, in un modo in cui non dovrebbero adesso. In un modo che tu non vorresti, adesso. E rivedi il viso di tuo nonno, segnato dal vento. Ricordi di quel maggio in cui ti ha portato in giardino perché voleva farti vedere una sorpresa e tenendoti stretta la manina sussurrava come dovesse svelarti un segreto. Il cielo minacciava un acquazzone imminente, ma lui doveva farti vedere quel fiore prima che svanisse. Tuo nonno ti mette una mano sulla spalla e ti avvicina piano alla rosa. Tu metti le mani sulle ginocchia per non perdere l’equilibrio e chinandoti l’a guardi. Sembra avere un cuore morbido sotto quei petali. Intanto tu ti sistemi la posizione. Senti degli spari, guardi i lacerti di cielo tra vetri frantumati e persiane scomposte. Non ti avvicini troppo alla finestra, sai che potresti essere colpita. Ti assicuri di essere stabile e cominci a controllare il respiro. Due secondi inspiri, due secondi espiri. Pausa. Tuo nonno ti invita ad avvicinarti ancora, il fiore sa di buono, ti dice di annusarla. Profuma di mirra.
Ci sei quasi, adesso devi traguardare nell’ottica e centrare bene il tuo obiettivo. L’hai visto e ti fai convinta che stravolta tocchi a lui. Indossa una mimetica che lo fa sembrare un cespuglio e un’arma che prima o poi farà fuoco su una madre e un bambino in fila per il pane. Deve essere così. Sarà così.
Tu e il nonno sorridete felici, quel fiore è davvero bellissimo. Vuoi prendere un petalo per la tua collezione. Posizioni la croce del mirino; rivedi la tua manina che si allunga verso quella rosa quando insieme al vento cominciava la pioggia. Adesso rilassi i muscoli, trattieni il respiro e accarezzi il grilletto. In un attimo i petali si staccano ricoprendo il giardino di macchie cremisi; il colpo ti sorprende, quasi non fossi stata tu a sparare, ma la tua azione è stata lucida e fredda.
C’è silenzio tra gli edifici martoriati della città e una divisa accasciata a terra in una rosa di sangue.
Il respiro rianima adesso il tuo corpo sospeso che vibra silenzioso per il rinculo dell’arma. Rialzi lo sguardo verso le colline. Tuo nonno vede i tuoi occhi farsi umidi allora ti cinge la guancia con la sua mano grande: «Non piangere – ti sussurra – torneranno le rose».