Pena e contrappasso

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Illustrazione di Agrin Amedì
Sono morta tre giorni fa, a casa mia, alle 19.45 del 9 novembre 2018 il giorno prima del grande trasloco. Avevo messo da parte parecchi soldi chiesto la cessione del quinto, e comprato un appartamentino al Pigneto.

Sono morta tre giorni fa, a casa mia, alle 19.45 del 9 novembre 2018 il giorno prima del grande trasloco. Avevo messo da parte parecchi soldi chiesto la cessione del quinto, e comprato un appartamentino al Pigneto. Finalmente mi farò una doccia in un bagno vero ! Al diavolo la tendina di plastica ammuffita…pensavo fiduciosa.
Le cose in verità non sono andate per il verso giusto, e ora che mi trovo in un campo gravitazionale inesplorato, mi torna in mente il fatto in modo lucido, a conferma della mia dipartita dallo spazio tempo originario.
Quella sera tornai a casa dopo il mio turno in ospedale. Ero stanca, la signora del letto numero otto forse non sarebbe sopravvissuta all’operazione del Dott. Mastropieri. Appena messo piede nella stanza notai che c’era qualcosa di strano.  Sentivo l’odore buono di candela aromatica che accendevo con Giorgio qualche volta la sera.

«Dove credi di andare tu?»  disse l’oggetto di cera.
«Chi parla»
«La tua candela preferita.»
Guardai sopra la libreria, la candela parlava, sprigionava luce e calore dalla sua consistente materia. Elegante, bianca e austera.
«Che cosa vuoi da me?»
«Farti delle domande.»
Si avvicinò al tavolo soffiando da due fori una fragranza di limone e basilico.
«Che buon odore…» dissi, inspirando profondamente.
«Il buon odore non copre le male azioni, però!»
Buttai giù il fiato rimasto.
«Ma di che parli?»
«Dove eri oggi alle 16.45?»
«Al lavoro, in ospedale.»
«E che cosa stavi facendo?»
«Le solite cose di routine…»
«E quali sono le  cose di routine?»
Mi arrivò una  fitta allo stomaco.
«Le cose che fanno le infermiere… — dissi a bassa voce — accudire gli ammalati e fornire i farmaci  prescritti dai dottori.»
«E poi? — continuò con un tono beffardo — hai parlato con qualcuno?»
«Che  cosa stai insinuando?»

Mi stava addosso come un poliziotto, ma l’odore che emanava era talmente inebriante da rendermi inerte a ogni forma di obiezione. In quei pochi istanti pensai alle azioni svolte nel pomeriggio nel reparto di chirurgia.
In effetti, avevo attaccato alle due, mi ero andata a prendere il caffè alla macchinetta con il dott. Mastropieri e la Briganti, poi ero rientrata nella sala degli infermieri. È di prassi chiudere la porta alle tre, quando entrano i familiari dei pazienti e cominciano a fare mille domande: Pensa che ce la farà? Ma il dott. Mastropieri è bravo? Quanto deve restare ancora in ospedale?; insomma, le solite domande fastidiose.
Cercavo di sforzarmi ma avevo un vuoto. Che cosa era accaduto in quell’arco di tempo?
La candela fece scivolare il fiocco nero che la stringeva ai fianchi insieme a qualche goccia di cera.

«Nooo, sul tavolo no, maledetta!»
«Ripeto: hai parlato con qualcuno? Hai visto qualcosa?» chiese con tono più austero.
«Non lo so, non mi ricordo…»
«Sicura?»
«Sicura.»
Si posizionò sulla libreria, aumentando l’intensità della fiammella.
«Guarda che è un attimo!» disse.
«Che cosa vuoi fare?»
«Bruciare passato presente e futuro.»
«Falla finita e dimmi cosa vuoi» dissi col cuore che mi batteva a tremila.
«Vederti tornare umana… un po’ come quando c’è Giorgio la sera.»

Abbassai il capo consapevole che mi stava mettendo alle strette. Poi a mano a mano che si avvicinava ai libri con l’intento di bruciarli, mi venne in mente che la vecchia paziente del letto numero otto prima di andare in sala operatoria mi aveva chiamato esprimendo il desiderio di  fare una doccia. Sì, il gesto di tutti i giorni: spostamento con le mani della tendina di plastica ammuffita, sapone sul corpo e pressione dell’acqua che batte leggera sulla pelle e cancella il dolore del tempo che passa.
«Infermiera — sussurrò la paziente — voglio fare una doccia, sono tutta sudata!»
«Ve la siete fatta ieri, Maria!» dissi seccata.
Si fece rossa come un pomodoro, cominciò a balbettare e a battere le mani sul letto dicendo che era disumano negare la gioia di una semplice doccia a un pezzo di carne in decomposizione, a una povera vecchia in fin di vita. Le risposi che avrei chiesto alla caposala ma in realtà non mi andava di compiere quell’operazione fuori orario e non retribuita. Sorrisi dolcemente e le diedi una falsa speranza per farla tacere.
«Dio vi benedica!»  finì per dire, rilassando la mascella cadente.
Mi fissò, i suoi occhi azzurri non ancora spenti cercavano una risposta che non arrivava. Allora mi mise venti euro nella tasca del camice. Sotto le ciglia, una lacrima asciutta reclamava speranza.
Nel frattempo tornai nella stanza degli infermieri, il dott. Mastropieri mi disse di somministrare antibiotici al numero sei e rifare il letto della paziente dimessa. E poi chiese alla Briganti di portare in sala operatoria la signora Maria. Meno male, avrei evitato di vederla e di sentire i suoi lamenti. Mi sarei tenuta in tasca i venti euro e chi se ne frega. Sarebbe morta come tutti i vecchi. Non era un mio problema, come non lo è la fame nel mondo.
La candela ardeva accennava un sorriso ma aveva cessato di emettere suoni. Probabilmente aveva letto nei miei pensieri. Si era convinta anche lei che bisogna mantenere una certa  distanza dai pazienti. Probabilmente mi dava ragione: i pazienti ti succhiano l’anima.
Guardai l’orologio. Giorgio sarebbe arrivato a momenti, non restava che darmi una rinfrescata. L’ultima doccia nella vecchia casa: spostamento con le mani della tendina di plastica ammuffita, sapone sul corpo e pressione dell’acqua che batte leggera sulla pelle e cancella il dolore del tempo che passa
Invece, tutto si è  fermato.

Sono morta sotto la doccia tre giorni fa, alle 19,45. Sono caduta a terra e ho sbattuto forte la testa. 
I medici dicono a causa di un episodio di lipotimia, un leggero mancamento dovuto a uno sbalzo di pressione. Ma io l’ho visto il ghigno Maria, avvolta in una luce tremolante e che sapeva di limone basilico.

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