Avete mai provato a chiudere gli occhi e ascoltare i rumori delle pietanze?
Io lo faccio continuamente. Ogni tanto, lo ammetto, taglio uno scalogno con diligente pazienza e lo faccio scivolare dal tagliere sul letto d’olio intiepidito del padellino di rame laccato, solo per bearmi del sottile sfrigolìo che emana.
Non è stato sempre così.
Per anni ho cucinato per nutrire il mio corpo e riempire i vuoti. Un cucchiaio di legno, la padella della dimensione sbagliata, un uovo di troppo e una frittata cotta a metà, ‘ché sia mai che mi mettessi d’impegno per eseguire il corretto movimento del polso e girarla come nonna comanda.
Ci sono voluti una lezione prova di flamenco e 60 minuti di “para dentro, para fuera” e crampi alle braccia per imparare a spadellare quel composto giallognolo sfama fantasmi.
Nonna me l’ha sempre detto: «Cucinare è come danzare. Chiudi gli occhi, ascolta i silenzi dei tuoi strumenti, asseconda gli impulsi che il cervello manda al tuo corpo. È una questione di equilibrio, Vic».
A volte mi prendeva in braccio e sudando sette grembiuli mi adagiava con amore sul tavolo di marmo scuro della sua cucina.
«Adesso visualizza»
Tu-tum. Tu-tum.
In poco meno di un’adolescenza ero diventata la Baby dei fornelli. Solo che mia nonna non era Patrick Swayze e nell’acqua non facevamo il volo d’angelo, ma buttavamo la pasta.
Ci ripenso mettendo su una playlist di musica jazz anni ’40.
Put ‘Em In a Box risuona tra le pareti mogano degli elettrodomestici a incasso mentre faccio il doppio nodo al grembiule quadrettato e tiro su i capelli con una matita senza punta.
Un ciuffo mi ricade sugli occhi e lo caccio via tra un sospiro e uno sbuffo di farina.
Due ore dovrebbero bastare per l’arrosto e la focaccia. Il dolce no, quello lo lascio alla pasticciera all’angolo ‘ché ai matrimoni tra zucchero e uova non sono mai andata volentieri.
Prima di tutto il fagotto di carne di maiale.
Tutt’intorno la pancetta che ho accarezzato con i rametti di rosmarino.
Infine lo spago a formare una calza a rete perfetta per un tacco a spillo.
Nella distanza tra il piano di lavoro e il frigo mi verso un bicchiere di vino, poi tiro fuori ondeggiando il panetto di burro.
E poi l’olio dalla latta, il burro sgusciante, l’arrosto nella casseruola.
Fiamma alta a far dorare, lo screpitìo del vino a sfumare.
Mi viene da ridere mentre mi osservo compiere quei gesti in modo così naturale, senza nessun canovaccio di quantità da seguire.
«Nonna, ma quanti grammi ne devo mettere?»
«Un po’ Vic, vai ad occhio.»
Che frustrazione.
Muovo i fianchi a occhi chiusi, a tempo di note sbiadite sussurrate dalla puntina di un giradischi trovato in un angolo impolverato di un mercatino vintage. Una mano cinge appunti di una sua ricetta unti dall’olio raffermo dei pomeriggi di cucina a casa sua, con l’altra dirigo un’orchestra immaginaria sventolando il panno di lino. Compagno fedele, ha già svolto il suo compito con la delicatezza di una vecchia signora, ad assopire il composto di acqua, farina e lievito che adesso mi guarda impaziente dalla spianatoia.
«Dal basso verso l’alto, Vic. Devi lasciare che le tue mani seguano il flusso di energia che hai dentro. Come quando non hai altra alternativa che andare al lavatoio per scrostare dalla tovaglia le macchie di cinque bambini. Braccia a fisarmonica e olio di gomito.»
E allora giù fino a sfiorare la tendinite. Le nocche della mano affondano con un tonfo sordo nel panetto morbido lasciandosi dietro una scia di impasto sbiadito, come monito per la seconda mandata; più forte, più decisa.
Mi alzo in punta di piedi per raggiungere il barattolo dello zucchero abbandonato nell’ultimo scaffale dell’angoliera in alto a destra. Più in là, dove riposa la vanillina scaduta.
Uno spruzzo di grumi biancastri per celare l’acidità prepotente del lievito di birra.
Per l’occasione sfoggio il mio mattarello migliore.
Stendo, tiro. Il sale grosso che scivola sinuoso nei buchetti lasciati dalla forchetta.
Ci siamo.
Ancora un attimo prima di infornare. Pizzico la pasta e me ne porto ridendo un tocchetto alla bocca.
«Nonna, ma come fai a dire che verrà buonissima? Non l’hai neanche assaggiata!»
«Vittoria, via quelle mani dalla focaccia cruda che ti lievita nello stomaco. E poi chi la sente tua madre! Ogni volta la stessa storia…»
La puntina gracchia qualcosa e tossisce dal disco The very thought of you e le parole nitide di Al Bowlly.
I don’t need your photograph to keep by my bed
Your picture is always in my head
I don’t need you portrait, dear, to call you to mind
For sleeping or waking, dear, I find The very thought of you
Guardo l’orologio, il tempo è volato.
La focaccia è nel forno ancora intorpidito, con la sua crosticina croccante a proteggerla dal grill.
L’arrosto paziente al caldo del suo sughetto.
Mi sfilo il grembiule innaffiato di grasso e farina.
Via le pantofole con quell’alone di Barolo sull’alluce.
Lui arriva accompagnato dalla scatola di cartone rosa della pasticceria all’angolo.
Mi sfila la matita dai capelli e se la porta al naso.
«Mmmh, stasera arrosto?»
Annuisco con convinzione e l’animo palpitante.
Il forno mi avvisa che siamo pronti ad andare in scena, il termometro a sonda affonda con sicurezza tra i quadratini scolpiti nella carne, schizzando un po’ di succo qua e là.
Settantacinque gradi e due. Perfetta.
«Tra i settanta e gli ottanta Vic, non di più. E lo capisci sempre da dentro. Quando basterà guardarlo per riempire i vuoti, sarà quello giusto. Con tuo nonno è stato così.»
Lo sorprendo a guardare una foto poggiata sulla libreria, tra una grattugia arrugginita e un plico di ricette.
«È tua nonna?»
Sposto lo sguardo sulla foto e penso a lei.
Sento il suo sorriso caldo arrivarmi dritto al cuore.
Sorrido, scuoto la testa e guardo fuori dalla finestra. Le stelle risplendono felici.