Tortellini

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Illustrazione di Agrin Amedì
Il supermercato è freddo e ha le luci al neon come quelle dell’ospedale. Si trova al piano interrato di un grosso edificio all’inizio della Boccea. Sono le sei e mezza di sera. Incrocio diverse persone che fanno rumore con i carrelli trascinati sulle piastrelle del pavimento.

Il supermercato è freddo e ha le luci al neon come quelle dell’ospedale. Si trova al piano interrato di un grosso edificio all’inizio della Boccea. Sono le sei e mezza di sera. Incrocio diverse persone che fanno rumore con i carrelli trascinati sulle piastrelle del pavimento.
A forza di stare vicino al reparto dei latticini, che emana gelo verso l’esterno, mi è venuta la pelle d’oca sulle braccia. Fra le mozzarelle e i cubetti di pancetta, c’è l’angolo dei tortellini. Tante marche, tanti prezzi, tortellini più piccoli, più grandi, di carne, di ricotta e spinaci. Quei tortellini mi dicono qualcosa.
Ilaria e Giulio sono dai nonni, Daniele è all’ospedale in terapia intensiva. Ha avuto un ictus cerebrale, che significa che le cellule del suo cervello sono rimaste senza ossigeno all’improvviso e si sono danneggiate. Tre giorni fa, di notte, si è sentito male. Era steso per terra vicino al nostro letto, sul tappetino dell’Ikea azzurro. Aveva la schiena poggiata sulle sue ciabatte rovesciate al contrario. Si lamentava, a bassa voce perché non voleva svegliare i bambini nella camera a fianco. Diceva che non riusciva a muovere le gambe. Gli ho sussurrato di stare tranquillo, ho chiamato il 118, avvisato i miei genitori e da lì non ricordo più la sequenza dei fatti. In ambulanza ho provato ad abbracciarlo ma il medico mi ha allontanata. Poi lo hanno scaricato fuori e trasportato da un macchinario all’altro. Non l’ho visto più. Un dottore poi mi ha detto la diagnosi e mi ha spiegato cosa fosse un ictus cerebrale. Non che non lo sapessi, si intende. Il papà di Daniele lo aveva avuto a cinquant’anni mentre era in vacanza a Perugia con la famiglia, quando Daniele andava alle scuole medie, e si era salvato per poco.

Per timore dell’ictus e per soddisfare le premure del suo medico, da qualche anno Daniele cercava di fare una vita sana. La domenica mattina presto andavamo a correre sotto i pini del parco vicino casa. Lui era molto veloce, ma io cercavo di tenergli il passo perché mi piaceva correre vicino a lui. E lui a volte rallentava e mi indicava il terreno quando c’era una radice su cui potevo inciampare. A cena preparavamo spesso verdure crude: finocchi oppure l’insalata. Soprattutto da quando era arrivata Ilaria ed entrambi avevamo paura di ingrassare con la nuova vita di genitori. Sapevamo bene anche le conseguenze di questa malattia. Il papà di Daniele era rimasto disabile, aveva dovuto lasciare il lavoro di vigile urbano e cominciare una riabilitazione eterna. L’eventualità che potesse succedere anche a Daniele era uno dei nostri fantasmi. Ma avevamo passato talmente tante difficoltà insieme che non avevamo avuto il tempo di pensare anche a questa.

Le scatole di tortellini hanno un effetto rassicurante. Tutta quella plastica delle confezioni mi dà fastidio. In casa abbiamo sempre cercato di evitare la plastica, ma per quei pezzi di pasta è inevitabile utilizzarla. Li perdono.
Adesso Ilaria e Giulio sono dai miei genitori, Daniele è in ospedale e io sono in questo supermercato da tre ore esatte. 

Questo che sale dallo stomaco alle spalle è un brivido. Daniele è vivo, ma non sappiamo ancora come starà. È probabile che non riprenderà a usare le gambe. Davanti al banco del pane del supermercato si è creata la fila, adesso devono chiamare i numeretti. Ho voglia di scappare. Prendere un autobus a caso dalla stazione Tiburtina. Dovrei spegnere il telefono. La parte più difficile. Poi me la caverei. Anni fa un amico di famiglia impazzì a causa della schizofrenia, riuscì a prendere un treno e poi un altro e lo ritrovarono dopo un mese ad Hannover, in Germania. Viveva fra i poveri. Sarebbe una liberazione. Ritirarsi lontano. Preferirei un paesino dell’Abruzzo rispetto ad Hannover. Anche se farebbe troppo freddo, e in un piccolo borgo mi riconoscerebbero subito e mi riporterebbero a Roma.

Sono tutte colorate queste confezioni di tortellini. Le sfioro con le mani. Ne afferro una per metà trasparente e la agito. Dentro i tortellini sono piccoli e contorti e si muovono quasi appiccicati. 

Undici anni fa, erano gli inizi di settembre, ero a Milano. Daniele abitava ancora lì, viveva in una casa al Corvetto insieme al suo coinquilino. Ci frequentavamo da un anno, un anno in cui vivevo con la paura continua di perderlo. «Sei l’avvenimento più bello che mi sia capitato da troppo tempo», mi aveva detto un giorno. Ma me lo ripeteva troppe poche volte perché io stessi tranquilla. Quei 570 chilometri di distanza che ci separavano mi pesavano tutti sotto gli occhi ogni mattina. Non credevo che avremmo mai potuto ravvicinarci, non riuscivo a pensare a una soluzione.

Scuoto di nuovo la scatola di tortellini. Sono undici anni fa e siamo in cucina. Verso l’ora di pranzo Daniele apre il frigorifero e mi chiede se preferisco i tortellini oppure il petto di pollo. «I tortellini», gli rispondo. Li facciamo con l’olio, decide lui. Il suo corpo si muove per la stanza e diffonde il suo odore ovunque, che poi è quello della saponetta gialla con cui si lava il corpo perché odia usare i flaconi di plastica che inquinano l’ambiente. Almeno a me sembra che ci sia nell’aria il suo odore fortissimo mentre prende la pentola per mettere a scaldare l’acqua. Mangiamo mentre ascoltiamo il telegiornale da lontano in sala. “Come sono i tortellini?”, mi chiede. Lo domanda con una certa ansia – che mi fa ridere perché è stupido essere agitati per un piatto già preconfezionato e condito con l’olio. Resto perplessa ma poi gli sorrido: «Buonissimi». Quel giorno voglio solo farlo felice.
Sono vestita con una gonna lunga di tela blu con gli spacchi ai lati. Non mi piaccio e ho paura di non piacere a lui ma forse non dovrei avere questo dubbio. Mando giù i tortellini cercando di mantenere il viso allegro. In realtà centellino quel pranzo ordinario come se fosse l’ultimo pasto prima di tornare al lavoro alla fine di una vacanza meravigliosa, come un ultimo paradiso. Allora non c’era un luogo fisico che condividevamo ma volevo trovare un luogo mentale nostro, in cui entrambi immaginavamo il futuro insieme. Daniele non era in quel luogo della mente, o forse non me lo dimostrava come avrei desiderato. Finiamo di mangiare i tortellini e lui sparecchia. Si alza e afferra il cesto della frutta che si trova sul mobile dietro alla sedia dove sto seduta. Lo sposta sul tavolo. Ma ci ripensa, si riavvicina a me e mi tira in piedi. Mi spinge contro il muro e dice che lui non mi mollerà mai.

Adesso non potremo più viaggiare. Non siamo mai andati fuori dall’Europa. Le nostre vacanze preferite erano nella natura o nei piccoli borghi. Le ultime ferie da soli, senza i bambini, le avevamo trascorse in Abruzzo. Abbiamo visitato i paesi fra L’Aquila e il Gran Sasso. Erano tutti uguali, con l’odore di caminetto nell’aria, i rumori delle gru in movimento che ricostruivano le case dopo il terremoto. Leggevamo la guida, entravamo nelle chiese, facendo finta che non ci fossero le crepe e le impalcature. A volte lui mi prendeva per mano per un po’. In uno dei paesi un manifesto ricordava che lì era stato girato un film di Bud Spencer. In un altro scoprimmo una chiesetta con alcuni affreschi che parevano quelli della cappella degli Scrovegni di Padova ed eravamo entusiasti. Non potremo passare la pensione a esplorare i posti che non abbiamo mai visto. È da quando ho trent’anni che sogno la pensione insieme a lui. Sarà perché non abbiamo mai avuto una tregua dal lavoro finora o perché credo che invecchiare con lui sia la parte più romantica di tutto. Credevo.

Non ho idea di come si possa vivere con una persona che non muove le gambe. Non ho nessuna competenza medica e mi sentirò incapace di farmi carico di lui come vorrei. Come potrò sollevarlo? Dovrò ricordargli le pasticche, se dovrà mandare giù delle pasticche. Lui borbotterà ancora più di quanto non lo faccia ora. Bisognerà portarlo in ospedale per i controlli e dovrò chiedere dei giorni liberi al lavoro. Dovrò accompagnarlo in bagno e aiutarlo a lavarsi, se nessun altro ci aiuterà. Abbasso il mento verso il collo e distendo la fronte. È una mossa che faccio per sentirmi più presente a me stessa e recuperare le forze. Ricomincerò a vivere tutti i giorni con il peso di poterlo perdere. Farlo felice diventerà quasi impossibile.

Prendo tutte le confezioni che ci sono al supermercato di quei tortellini piccoli e aggrovigliati. Le sistemo tutte fra le braccia e mi viene un sorriso. Daniele neanche si ricorderà di quel pranzo. Ma dovremo pur mangiare qualcosa quando tornerà a casa. E adesso che l’ictus lo ha avuto, potremmo anche smetterla di seguire sempre una dieta sana.

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