Non riesco mai a lasciare lo studio prima di sera. Mi piacerebbe uscire al tramonto, almeno una volta ogni tanto. A quell’ora i platani hanno cortecce d’argento e foglie d’oro e i tavoli dei bar si colorano di arancio spritz e verde oliva.
«Domani ti vengo a prendere alle sei e ci ubriachiamo di Martini e noccioline. Coi tuoi clienti ci parlo io» me lo diceva spesso, fino a qualche mese fa. Quando ha smesso, non me ne sono neppure accorta.
Restare vigili è uno sforzo necessario. I colpi di sole da mantenere, le camicie da stirare, le scarpe da coordinare al tailleur. Io vado avanti, Pietro mio. Devo difendere il poco che resta. Il deodorante è da ricomprare, gli orecchini non sono inutili, il profumo non è un vezzo. Io non crollo, Pietro mio. Continuo a suddividere le pratiche in cartelle ordinate, so ancora sorridere ai clienti. Dove sei, perché non torni? I giorni scorrono in silenzio. Impietosi, diventano mesi. Di sera, quando apro la porta di casa, ci sono solo le stelle ad aspettarmi, in un quadratino di finestra. È allora che sento le gambe tremare più forte. Ma ho fatto una scoperta, Pietro mio. Se mi chino sui taglieri a tritare verdure, se mi avvicino ai fornelli per rimestare salse, intingoli o polente, allora le ginocchia si fanno più forti e io torno a respirare. È da un po’ che cucino, Pietro mio. E ti sembrerà incredibile, ma dello sporco non mi curo più. Cucino di notte e al mattino presto, cucino il sabato e anche la domenica. Cucino sempre, quando non sono in studio. Questa sera, polpette in umido.
«Avvocato! Oggi esce prima?»
«Un impegno. A domani, Giovanni.»
«A domani, avvocato.»
Le foglie d’oro dei platani mi accompagnano verso casa. Pietro mio, avevi ragione tu: il loro colore al tramonto vale una fuga dallo studio, almeno una volta ogni tanto. Ma perché non mi lasci andare? La gola. Ecco perché si annoda ancora. Guarda che cielo, stasera. Pietro. Stasera. Polpette. Io non crollo, Pietro. Polpette in umido. Il macinato da unire a uova e pancarré. Le gambe. Perché formicolano così tanto? Aglio, prezzemolo, parmigiano e latte quanto basta. Io resisto, Pietro. Passi lunghi, decisi. Pietro. Corro. Trito di cipolla sedano e carota. Sfrigola, odora, imbiondisce. Casa. La vedo. Il vino. Il cancello. Bianco che sfuma. Che odore, Pietro. Ecco. La porta. Apro, entro, chiudo. Silenzio. Mi appoggio per un istante alla parete e provo a respirare. Abbandono le scarpe e i collant in un angolo tra vecchie pagine di cronaca stropicciate, pubblicità di pizze tonde take away e liste della spesa. Due passi appena, un tailleur e biancheria corrono rapidi a terra, quasi non vedano l’ora di scappare anche loro verso quei pochi metri quadri di adorabile disordine. Stanchissima, mi avvicino al divano nei miei nudi quarant’anni. Con un sordo tonfo li lascio cadere tutti tra i cuscini. Chiudo gli occhi. Ecco. Respiro. Chissà cosa penserebbero i clienti se mi vedessero adesso? Cinque pomodori spellati e tagliati a pezzetti. Un bicchiere d’acqua calda per diluire. Respiro. Ascolto gli uccelli. Che belli, a pochi metri appena. Che pace. Il coperchio per stufare a fiamma media per mezz’ora. Ascolto gli uccelli fischiettare, svolazzare, affaccendarsi, picchiettare. Picchiettii rapidi i loro, che talvolta si arrestano, per poi riprendere. Piccoli becchi contro cortecce, contro rami già a terra, contro vetri di finestra. La mia finestra. La mia finestra? Affacciato al vetro trovo un uomo. Mi osserva. Di nuovo batte l’indice contro la finestra. «Sei un vicino?», vorrei chiedere. Non avevo mai pensato alla possibilità di averne uno. Lo osservo. Solo allora mi rendo conto di non avere alcun vestito addosso. Raduno freneticamente tutti i cuscini a portata di mano, me li stringo addosso: «Basteranno?», penso. «Avrà visto qualcosa?», penso. «Calma, respira. Di’ qualcosa», penso. Ci guardiamo per un momento attraverso il vetro.
«Le abito accanto, sa. Scusi se l’ho disturbata, ma credo che le tubature del suo bagno perdano… è apparsa una gran macchia sulla parete del mio soggiorno.» Sorride.
«Ah. Accidenti… Non me ne ero accorta. Chiamerò l’idraulico domattina, d’accordo?»
«Sarebbe magnifico, grazie.»
Ci guardiamo di nuovo, immobili. Io, stretta tra i cuscini e lui, stretto nel suo imbarazzo.
«Forse gradirebbe venire a vedere l’entità del danno prima di chiamare l’idraulico?»
«Certamente! Immagino sia il caso. Beh, sempre che…»
«Vivo solo.»
«D’accordo allora, verrò a breve. Il tempo di vestirmi…» Sorridiamo,
«Ah, senta… Ha già cenato, lei?»
«No.»
«Le vorrebbe mica due polpette in umido?»
«Lei intende… Avrei del buon vino, sa?»
«Mi basterebbe una mezz’ora.»
Lo osservo allontanarsi. Mi guardo attorno ed è come se lo facessi per la prima volta dopo moltissimo tempo. Scatoloni semivuoti tra le sedie, riviste accartocciate annidate in ogni angolo. Sul pavimento cerchi di tè, macchie di caffè, briciole di biscotti, briciole di pane, capelli, piatti sporchi e fazzoletti pieni di disperazione. Su un ripiano della libreria, tra forchette usate e cartoni per pizza vuoti, un vaso di fiori secchi e acqua marcescente. Mi alzo di scatto, disperdendo i cuscini nell’impietoso disordine che mi circonda. Mi faccio largo tra rifiuti, faldoni e tazze sporche e mi avvicino ai fornelli. Domani torneranno anche loro alla vita. Non ora. Ora ci sono polpette in umido da preparare. Cipolla, sedano e carota. Di tanto in tanto, mentre trito, sfugge qualche nota canticchiata. E se per caso alzo gli occhi dal fornello schizzato di grasso o dai coltelli arrugginiti, fuori le stelle rispondono, come un sorriso.