Per acquistare il biglietto avevo impegnato tutti i miei risparmi, venduta la mia uovocasa a prezzo di ribasso e preparata l’esovaligia quantica ereditata da nonna. Destinazione del viaggio: il Pianeta delle Occasioni Perdute.
Il settimo pianeta della Nuova Galassia, visto dallo spazio, era nero. Zebrato da strisce parallele di un viola polveroso. Mentre girava, agile come un danzatore, inviava bagliori di luce dorata.
Su quel Pianeta mi aspettava Omissis, l’altra metà della mia fantaanima, il mio amore perduto mille anni prima. Mi sarei riunita con lui dopo tre mesi di viaggio, avrei sentito le sue braccia stringermi forte. L’esistenza era perfetta, tutto ciò che contava mi veniva restituito. Non c’era umana più felice di me in tutto il radiocosmo.
Io e altri otto viaggiatori arrivammo nello sferoporto in un’alba rosa.
Il capitano della nastronave, nel dare il benvenuto al gruppo dall’alto di una scala luminosa fermò lo sguardo su di me per un lungo istante; nascose un sorriso con difficoltà, forse divertito per la mia monelleria. Avevo commesso un’imprudenza, buttandomi sulle spalle una stola color vermiglio; il rosso non era compreso nella palette dei colori consigliata ai viaggiatori intergalattici per l’abbigliamento. Ma io ricordavo che a Omissis piaceva molto, che mi vestissi di quel colore.
Mi accorsi che eravamo stati selezionati anche in base all’età, che non superava i duemila anni.
A bordo c’era un’umana con riccioli biondi che arrivavano alle caviglie. Altre due mostravano un taglio rasato molto chic, ed erano tatuate sul cranio in modo superbo. Notai un umano, vestito color grigio erba, che portava con sé una magicartella cubica nera, che ogni tanto lanciava un sibilo.
Nessuno conosceva l’identità degli altri, e soprattutto doveva restare segreto il desiderio che ci aveva spinto a trasferirci lontano.
Io sono un tipo ciarliero, faccio facilmente amicizia; invece i miei compagni di viaggio non dicevano nulla; si limitavano a criotossire educatamente, e a sospirare spesso.
Il giovane capitano della nave se ne stava al centro esatto del cerchio formato dai nostri sedili e pilotava con tre delle sue cinque braccia una console minuscola costituita da un fascio impalpabile di tessiture leggere.
Solo tempo dopo avrei saputo che erano state filate dai ragni rossi e luminosi del suo pianeta, una specie che non aveva mai attecchito sulla Terra; solo dopo avrei appreso che il capitano si chiamava Magik e che veniva da Mokok, un pianeta della Galassia più lontana finora conosciuta.
Le regole della traversata vennero svelate da Magik man mano che passava il primo mese di navigazione.
Magik estrasse dal taschino della sua tuta bianco splendente una boccetta piena di un liquido incolore che, se assunto, portava al sonnomusica in pochi secondi. Ognuno di noi, ci disse, poteva chiedergli di farsi addormentare fino all’arrivo.
Ma io non volevo dormire. Avrei voluto gridarlo ai miei compagni di viaggio, toccandoli su una spalla per scuoterli dal torpore.
Non riuscivo a psicoimmaginarlo, mi stavo ricongiungendo con Omissis!
Non volevo perdermi neppure un nitroattimo di quell’avventura. Avevo portato con me betaframmenti di immagini. Quando battevo le mani, a un metro di distanza ecco apparire Omissis. Lo vedevo camminare, buttandosi con infinita eleganza una lunghissima sciarpa dietro le spalle. Strizzarmi l’occhio. Schermirsi per finta per essere betaripreso. Uscire dalla nostra stanza delle capsule con un asciugamano annodato sui fianchi stretti e mandarmi un bacio. Avrei voluto avere più betaframmenti di lui. Ma allora, chi poteva immaginare che non l’avrei più rivisto per mille interminabili anni?
Durante il primo mese di crociera, a uno a uno, i viaggiatori chiesero con un cenno della mano al capitano di farsi stendere nella propria capsula; gli altri, rimasti accasciati sui sedili della sala centrale continuarono a mostrare un’espressione assente.
Uno di loro fissava una metafotodinamica; dimenticò di battere le ciglia per un’ora intera; a me venne in mente che non potesse più distinguerla chiaramente.
Un signore distinto rileggeva di continuo, con un mormorio sommesso, una vecchia lettera arrugginita.
Man mano che passava il tempo, l’Occasione Perduta esercitava su di loro un fascino sempre più pressante, che li spinse più avanti nei giorni a piangere mestamente.
Ero stupita di sentirmi così distante da loro: dentro di me prevaleva un istinto di gioia, e pensare di rivedere Omissis mi portava un presagio di felicità.
Mi sentii davvero sollevata quando gli ultimi due del gruppo chiesero di essere sedati.
Mi venne naturale, a quel punto, impiegare il tempo della cosmonavigazione conversando con Magik.
Attaccai discorso dicendogli, dal momento che ero specializzata anche in mitostoria, forse per darmi delle arie, che erano trascorsi duecentoventisette anni esatti, quel giorno, dalla scoperta scientificomistica più importante della storia dell’uomo.
«Mi riferisco, esimio capitano, all’esistenza di una galassia contigua al nostro sistema solare, composta da dieci pianeti. Mondi incredibili perfettamente conformi e adatti, al contrario del pianeta Terra, a sopportare una popolazione di poeti, negromanti e visionari.»
Magik rispose: «Certo. La scoperta, come lei sa, fu seguita da un’altra rivoluzione scientificomistica: una coppia di psicofilosofi esperti in navigazione vibrazionale dell’universo costruirono una nastronave in grado di recarsi dovunque si volesse arrivare».
Mentre parlava, il capitano arricciava lievemente il suo quarto occhio, come se sorridesse costantemente, anche quando affrontava un discorso serio.
«Ovviamente fu da allora che voi umani scopriste nuovi sistemi planetari; è così che avete iniziato le relazioni intergalattiche con Mokok, la mia terra d’origine.»
A quel punto mi imbambolai. Affiorò nella memoria un frammento di ricordo, un brano di una conversazione sostenuta con il mio docente di Fenomenologia dell’Antropologia Isotropica durante gli studi sui popoli dei pianeti decentrati; ma non ne ricordavo i dettagli.
Era passato troppo tempo. Cominciavo a invecchiare, i miei neuronisintetici aggiunti, forse, avevano bisogno di una rinfrescata. Avevo saputo che, per fortuna, sul Pianeta delle Occasioni Perdute c’erano eccellenti Miocliniche a supporto della Longevità per gli innesti neurofotonici.
Qual era la particolarità dei maschi mokokiani che mi sfuggiva?
Il giorno dopo fu Magik a cominciare a parlare, nel mezzo della giornata, che avevo trascorso fino a quel momento rileggendo I giorni smarriti, il particellalibro preferito di Omissis.
«Signora mia, vi hanno comunicato, i governativi, cosa sia davvero il Pianeta delle Occasioni Perdute?»
«Dal suo tono deduco che lei possa avere informazioni molto interessanti, per me» risposi.
«Il suo potere su di voi è senza limiti. Entrando nella sua sofosfera incontrate la forma umana, animale o fisica con cui avete un debito in corso.»
Fece una pausa di qualche minuto, poi riprese:
«Una Teratopoli unica lo occupa per milioni e milioni di pentamiglia. È uno spettacolo di torri svettanti, giardini profumati da fiori metallici e striscianti, padiglioni composti da decine di lati. Creature bellissime di ogni sesso al chiaro delle sue lune, cantano per tutta la notte sinfonie celestiali».
Mi accorsi che il capitano sapeva esprimersi in modo poetico. Anche Omissis amava descrivermi i pianeti che non avevo ancora visitato. Adoravo quando lo faceva, potevo ascoltarlo per ore. Mi scoprii a fissare senza alcuna discrezione l’unica bocca morbida di Magik, che aveva scandito le ultime parole con un graziosissimo accento mokokiano.
Chiesi al capitano:
«Ma allora è vero, come dicono, che si possono incontrare anche i propri cari defunti?»
«Sì, è così» mi rispose.
«La morte, sul Pianeta delle Occasioni Perdute, è soltanto un aneddoto da raccontare agli amici, intorno al fuocofolletto, dopo aver bevuto un bicchiere. Potete trovare, ancora viventi, animali che sulla Terra si sono estinti da tempo. Un figlio può incontrare il padre trapassato da secoli per chiedergli dove ha nascosto una eredità. Si può recuperare un magmaoggetto smarrito. L’amica perduta per un’antica lite potrà riabbracciarvi, e aprirvi la porta per offrirvi un pantatè, come avete bramato, ogni giorno.
L’unica condizione perché accada è che si tratti di un’Occasione Perduta, di un sogno non realizzato, di un desiderio che provoca una grande sete.»
Nel pronunciare quelle ultime parole, “grande sete”, Magik fece sorridere finalmente tutti i quattro occhi insieme, guardandomi dalla testa ai piedi in un modo singolare, che mi fece provare un leggero brivido. Imbarazzata, per evitare il suo plurisguardo osservai i capelli lunghi e ondulati color bronzo. Mi ricordavano il dorso di una stralince selvatica.
I capelli di Omissis, invece, erano scuri come quelli di una creatura dell’Iperforesta, in contrasto con occhi color malachite, che splendevano di luce, e diventavano enormi quando si emozionava. E Omissis si emozionava spesso. Amore mio, mio smarrito amore. Scheggia scintillante della mia fantaanima.
Tornai con fatica a concentrarmi sulle parole di Magik:
«I primi tecnoesploratori umani, seguendo il programma multigovernativo “Testa la nuova Terra con la testa” sono partiti per il Pianeta e non sono più tornati.
Per mia fortuna, noi mokokiani siamo immuni dagli effetti del Pianeta delle Occasioni Perdute; ci godiamo solo la sua bellezza, quando camminiamo in libera uscita fra i giardini sorvegliati da api giganti e palazzi dai colori mutanti.»
Al principio del secondo mese di viaggio Magik aveva innestato il pilota automatico vibratile, e spento via via, mentre passavano i giorni, le lucenti principali della sala centrale.
Una sera mi invitò nella stanza dei narghilè festanti, accese i fumigatori di stufigocce ioniche. Dopo due fumatine, prese coraggio, e mi chiese quale fosse la mia Occasione Perduta.
Sebbene ben disposta, rilassata, mi sembrò davvero un’azione sconsiderata da parte sua, una violazione evidente del codice di cosmonavigazione, e in più compiuta da un capitano, da qualcuno appartenente alle più alte sfere dell’esercito di navigazione interstellare.
Ma eravamo solo io. Lui. E lo spazio dell’universo.
Anche se all’inizio negai, mi schermii, mi difesi dalla curiosità di Magik, non potei che cedere, alla lunga. E glielo raccontai.
«La mia Occasione Perduta si chiama Omissis. Il nostro amore ci ribaltò come due fili d’erba spazzati dalla tempesta.
È successo mille anni fa, eravamo zetagiovani. Tu non esistevi ancora, Magik. Omissis e io studiavamo insieme all’università delle Parole Interrotte; e lui era l’umano più affascinante della stazione di Studi Superiori della Luna centrale.
Quando si innamorò di me perdutamente, presi la via di fuga. Lo lasciai senza un motivo.»
Magik restò in silenzio accavallando a due e a tre le gambe, e solo dopo un po’ parlò:
«Hai avuto paura di un amore esclusivo. Omissis sapeva leggere nei tuoi pensieri. Tu eri giovane e non volevi legarti troppo presto. Nessuno, dopo di lui, è stato in grado di comprendere chi sei. E ora ti aspetta, sul Pianeta delle Occasioni perdute. Ti aspetta. Ed è sempre più impaziente – aggiunse – come parlando a sé stesso.»
I giorni passarono lenti e rotondi nella nastronave. Entrammo nel terzo e ultimo mese della traversata. Anche se non potevamo vedere veri tramonti, Magik ne proiettava per me uno diverso ogni giorno in superologramma. Alla fine di ogni calar di sole nel fragore di colori che non avevo mai visto, aggiungevo per lui un tassello al racconto della mia storia d’amore.
Rivelai al capitano che Omissis e io ci scambiammo il nostro primo bacio sotto l’albero più selvatico e florifluessuoso della serra lunare.
Gli dissi della gita interstellare nel paese delle sorgenti millecolori, dove Omissis mi illustrò la storia dell’ontocosmo indicandomi i nomi dei pianeti visibili nel cielo cangiante.
Descrissi con minuzia ogni espressione che poteva assumere il volto del mio amore perduto.
Gli raccontai della sua nobile postura da statua greca, del suo lussureggiante parlare per metafore. Non esisteva, dissi, un modo più intrigante del suo di guardare i mondi attraverso i simboli.
Omissis era stato un filosofo. Omissis era stato un poeta. Omissis era stato il traghettatore psicomedianico che mi aveva fatto conoscere profondamente me stessa.
L’ultimo giorno in cui raccontai a Magik di Omissis e me, narrai anche del suo sguardo verde e desolato quando gli avevo detto addio, gelida e scostante come un cristallo di titanio.
Il mio gesto, compiuto da mille anni senza rimedio. Il mio gesto milioni di volte rimpianto.
Per ultimo – e accadde mentre scorreva nella stanza centrale un’acquamusica speciale – gli narrai di come, il giorno dopo il mio addio, fui chiamata a rivedere il suo viso diventato di pietra. Gli raccontai di quando lo supplicavo di ritornare da me, dentro un silenzio di ghiaccio, perché la sua anima di filosofo e poeta era già volata via dalla luna.
Mentre raccontavo la mia storia d’amore, cominciai a essere attratta, contro ogni previsione da Magik.
Sospetto che fu per il modo che aveva di ascoltarmi, in piedi, assorto, mentre i suoi capelli fluivano liberi nell’aria, come spine sensibili a ogni mia parola pronunciata.
Quando la mia storia arrivò alla conclusione, Magik si ritirò nella sua capsula, scusandosi con grande deferenza per il suo momentaneo abbandono, terribilmente turbato.
L’avrei saputo dopo, che i mokokiani, quando soffrono in modo lancinante, hanno bisogno di restare da soli per recuperare le forze.
Il terzo giorno, non vedendolo arrivare, andai a cercarlo. Mi mancava. Mi abbassai sulla sua capsula e lo baciai con determinazione sulla bocca. Le sue cinque braccia, subito mi circondarono, i suoi capelli mi avvolsero come gammaserpenti.
Ebbene, ora so che l’amore mokokiano è un’esperienza che ogni umana dovrebbe provare. Una fusione fra terra e cielo, che avvenne persino a noi che fluttuavamo nello spazio.
L’unione fra un mokokiano e un’umana provoca a entrambi un piacere che perdura per ore. La sensazione di uscire dal proprio corpo, per reincontrarsi altrove, e rifare l’amore nei mondi sottili. Le stanze della nastrostronave si riempirono di musica e di risate.
Fu bellissimo. E terribile per me, al tempo stesso. I momenti di intimità con Magik erano diversi da quelli che ricordavo con Omissis. Il mio Omissis era piu dolce, delicato di Magik. Capitava che ci amassimo fra una dissertazione e l’altra, o dopo che Omissis aveva letto qualcosa per me: un’orapoesia, un mielopoema… Ah, la voce di Omissis. Una voce indimenticabile, bassa, profonda, che mi aveva incatenato fin dalle prime battute. Erano mille anni che risentivo quel suono, irresistibile come un canto di sirene. Ma fare sesso con un mokokiano è diverso. Un mokokiano conosce più di qualsiasi umano il punto d’unione fra corpo fisico e corpo spirituale. Un mokokiano è capace di portare all’estasi.
Dopo aver scoperto che i capelli di Magik si espandevano quando ascoltava le mie storie, verificai che si arricciavano quando era preoccupato e che diventavano lisci come l’acqua quando era contento.
Scoprii che durante il sonno le sue braccia tentacolari potevano stringermi tutto il corpo, ma senza farmi male.
Durante il giorno non poteva fare a meno di baciare il mio collo molto spesso, proprio all’altezza della giugulare, provocandomi un fremito atomico.
Arrivò un momento in cui mi sentii molto stanca. Mi rifugiai nella stanza dei narghilè festanti, per riguardare i betaframmenti di Omissis. Lasciavo scorrere le immagini, che mi sembrava avessero perso la qualità squillante dei colori. Le rifacevo andare, e andare ancora. Dissi ad alta voce: «Omissis ti vibroamo. Ti vibroamo. Ti vibroamo da mille anni. Non esiste nessuno come te. Non esiste nessuno che possa essere alla tua altezza».
Mi coprii il volto con le mani. Quella notte dormii nella mia capsula da sola.
Erano trascorsi novanta giorni esatti dalla partenza quando approdammo sul Pianeta delle Occasioni Perdute.
Magik svegliò gli otto viaggiatori che si alzarono subito dalle loro capsule e scesero in gran fretta, come se fuggissero da un incendio e fossero in pericolo di vita.
Finalmente udii la loro voce:
«Arrivo!»
«Arrivo.»
«Sono qui.»
Appena messo un piede fuori dalla zona di decompressione dell’astronave gli otto umani volarono via come folate di foglie secche. Magik mi avvolse tutta quanta con i suoi tentacoli mentre li guardavamo scomparire nel vento viola.
La loro Occasione Perduta li aveva presi con sé.
Magik e io ci guardammo.
Dicemmo in sincrono: «Omissis».
A quel punto, sapevo con certezza di voler rivedere il mio perduto amore, che vagava fra i grattacieli fluttuanti, nelle nebbie color ghiaccio, sotto stelle cadenti, aspettandomi da un migliaio di anni. Ma sapevo anche che non avevo nessun desiderio di districarmi dall’amore da brivido che provavo per il capitano, quel ragazzo adorabile dall’abbraccio tentacolare.
Non so bene quando accadde, ma sentimmo bussare alla protoporta. Si trattava di un tocco poco invadente, ma deciso. Un tocco da ragazzo gentile, da poeta filosofo. Il tocco di Omissis, che veniva a cercarmi, per restituirmi un’Occasione Perduta. Il cuore mi ricordò di esistere nel mio petto, amplificando il suo battito. Fra pochissimo avrei rivisto il viso di Omissis, la capigliatura nero carbone, la lunga sciarpa gettata dietro di sé con noncuranza.
Magik mi guardò con i suoi quattro occhi ridotti a una sottile fessura, una sintesi sensuale e pensosa di uno sguardo enigmatico. Io detti una svelta occhiata alla grande stanza centrale della nave spaziale, che era diventata la nostra dimora. Avevo aggiunto ai battenti degli oblò orbitali a forma di stella tendine di stoffa all’idrogeno. Sulla mutotavola c’erano ancora i resti del disco affumicato di sterlizia e dei nostri due calici di sopraffino della cena della sera prima. I miei particellalibro erano confusi con quelli di Magik, nella sala dei narghilè festanti.
In fondo, pensai, avevamo cibo, ossigeno e acqua sufficienti per vivere bene altri tremila anni.
Sì, avevamo cibo, ossigeno e acqua sufficienti per vivere bene anche in tre.