Non sto correndo per divertirmi, per tenermi in forma, o per preparare una gara. Non corro neanche perché sono una preda o un cacciatore, rispondendo a un istinto ancestrale. Sto correndo, come ogni volta che lo faccio, per essere me stessa nella maniera più completa. Per ritrovare il mio io filosofico, l’idea platonica di Yordanka. Tutto ciò che sono durante il resto della mia vita, donna, barista o bulgara di Gabrovo, scompare in questi momenti. Esiste solo la Yordanka più assoluta, e quindi più reale, quando corro come sto facendo adesso. A maggior ragione oggi, visto che sono tornata dopo tanto tempo qui, nei boschi vicino a Luino, la mia prima casa italiana.
Come sempre, la mia corsa non è cominciata quando ho iniziato a vedere il suolo sotto i miei piedi scivolare via sempre più veloce, e sentito il solletico del sudore che colava dal collo lungo la schiena, né quando le mie gambe hanno iniziato a mulinare staccandosi lievemente dal terreno, e neanche quando sono uscita di casa, a passo lento, incrociando le vie di questo piccolo paese in riva al Lago Maggiore, ancora buio e deserto, per uscirne.
È cominciata molto prima: quando mi sono svegliata, e ho percepito, più che visto, filtrare dalle persiane la prima luce del Sole, ancora nascosto sotto l’orizzonte, che si faceva annunciare mandando come messaggero il lento rischiararsi del cielo.
Mi sono alzata, lasciando Renato a dormire avvolto nelle coperte, e senza neanche lavarmi ho compiuto la metamorfosi da dormiente a runner uscendo fuori dalla felpa ancora calda di sonno e infilandomi, con meditata lentezza, nella vecchia tuta di cotone grigio, indossando alla fine di questa vestizione le mie scarpe da ginnastica. Poi, un bicchiere d’acqua e due biscotti al cioccolato. Un rito, questo, che è già corsa, la mia idea di corsa.
Sono poi uscita, e mi sono diretta con una camminata sempre più rapida verso il querceto appena fuori il paese. La nebbia avvolgeva tutto ciò che vedevo in spirali che si diradavano al mio avvicinarsi, come a lasciarmi il passo. Entrando nel folto dei roveri, sono rimasta nella penombra, visto che i primi raggi dell’aurora venivano nascosti dalla vegetazione.
Nonostante mancassi da anni, il bosco mi ha accolta con la benevolenza che si riserva a una vecchia amica, facendomi sentire come sempre parte della sua famiglia, mentre cominciavo ad accelerare il passo, prima con una marcia veloce e poi alla fine con la corsa vera e propria, fatta da falcate sempre più lunghe e frequenti fino a raggiungere il mio ritmo, mantenuto così regolare da far sembrare le mie gambe un metronomo. La primavera, quest’anno, è in forte ritardo, e pur essendo la fine di aprile le mattine sono ancora rigide. Un freddo che con l’umidità del bosco, dell’atmosfera e del terreno non rimane solo nell’aria, ma si fonde con il corpo, contrastando il riscaldamento dovuto allo sforzo fisico.
Il respiro, da regolare, sta cominciando adesso a farsi sempre più affannoso. Solo pochi flebili cinguettii mattutini stanno accompagnando, come piccoli assoli, la linea di basso suonata dal tempo battuto dalla corsa. Il resto è silenzio. Quel silenzio che solo qui è così forte poter essere percepito nella sua purezza, e non come semplice assenza di rumore.
Sono passati più di quaranta minuti da quando ho cominciato, e non mi sono fermata neanche per un istante. vedo il sudore che chiazza di scuro la mia tuta; il verde delle foglie ancora spento, vista la poca luce che l’alba nebbiosa fa filtrare tra i rami; il terreno che accompagna, morbido, i piedi, che lo toccano per un breve istante prima di ricominciare il loro mulinare. Inspiro dal naso ed espiro dalla bocca mentre continuo a officiare questa mia personalissima cerimonia, e sento quadricipiti e polpacci che cominciano piacevolmente a indolenzirsi.
Ho percorso una decina chilometri, forse di più, così, intenta a svuotarmi da tutto ciò che non è questo momento, e ora sto vivendo solo questo meraviglioso presente, senza memorie del passato o programmi del futuro a inquinare il cervello con pensieri di qualsiasi genere. Sono puro istinto. È quando non penso più come adesso che la Yordanka più intima, quella che conosco solo io, esce fuori senza paura.
Ma la parte migliore deve ancora arrivare. Non ho pianificato il percorso, ma le gambe mi stanno portando proprio lì, e comincio a vivere l’attesa del momento in cui lo incontrerò. Tra poco lo avrei raggiunto, e comincio a pregustarne la gioia. Come se, sin da quando mi sono svegliata stamattina, non avessi avuto in mente altro che vederlo. Già ne percepisco l’odore, inconfondibile anche nel folto del bosco, mentre mi preparo per un ultimo scatto in progressione.
Esco dal querceto con gli ultimi passi di corsa frenetica, da centometrista, con il respiro che prende un ritmo sempre più frequente, in sincrono con il rumore delle foglie schiacciate dalle mie scarpe. Ed eccolo comparire finalmente all’improvviso, bello e sorprendente come miracolo. Un Dio leggendario.
Il Verbano.
Il mio solo e unico obiettivo di oggi, ora lo so. Giro verso destra per seguirne la costa. Rallento la corsa fino a farla diventare una camminata, respirando profondamente mentre roteo le braccia per assorbire a pieni polmoni l’aria fredda e umida. Ormai il cielo è completamente chiaro, la notte si è definitivamente ritirata verso ovest per preparare una nuova invasione da oriente tra circa dodici ore.
Il sudore, ne sono madida ormai, si raffredda rapidamente, e sento le mie gote diventare rosse, mentre continuo la camminata defaticante. Il fiato condensato che esce dalla bocca sembra rallentare ancora di più il già pigro diradarsi della foschia mattutina. Un chilometro, forse poco meno, a quest’andatura, ed ecco il pontile, dove due piccole barche sono ormeggiate in attesa di qualcuno che le porti fuori per un piccolo viaggio sulla superficie di quello specchio d’acqua. Dopo anni, tutto è rimasto uguale e immobile. Mi appoggio a uno dei pali in legno e comincio a fare stretching. Guardo in alto: la giornata sarà piena di sole, ma per adesso è tutto ovattato dalla bruma creata dalla vegetazione e dal lago. Sembra di essere all’interno di un bozzolo che ti coccola, proteggendoti dal resto del mondo.
Terminati gli esercizi, con i muscoli che segnalano doloranti il termine dei loro sforzi, mi siedo su un tronco sdraiato lì da chissà quanto tempo, e bevo un sorso d’acqua dalla borraccia che ho con me.
Continuo a non pensare nulla, osservo il panorama e mi ci immergo dentro così in profondità da annullare la differenza tra ciò che è dentro e fuori di me. Non fossi laureata in chimica, affermerei con sicurezza che l’acqua del lago è un elemento completamente diverso dall’accadueo con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. Non aggredisce con il ruggito del mare, né fluisce con un perenne e sommesso sottofondo continuo, come quella del fiume che Eraclito aveva metaforicamente equiparato allo scorrere del tempo, e tantomeno ha il gorgoglio rinfrescante di quella fresca che ho appena bevuto, preziosa come la vita stessa.
No. Rimane lì questa strana acqua, livida e ferma, capace di in un silenzio assoluto, rotto solo da qualche lievissimo rumore di risacca sui ciottoli della micro spiaggia che ho appena percorso. È la gelida custode dei segreti che sono nascosti nelle piccole isole che emergono severe al centro del bacino, o nelle viscere delle sue profondità limacciose. Il tempo, nel lago, non si ferma. Semplicemente non è più lineare, e passato, presente e futuro si fondono in un unico istante universale.
Mi attraversa un brivido, stavolta però non di freddo. Parte dalla nuca e mi percorre attraversando tutte le ramificazioni del corpo: le braccia che vibrano, le gambe che attutiscono l’acido lattico, il pube che sembra prepararsi per il sesso. E capisco in maniera netta cosa sia la vera felicità, perché in questo momento la sto vivendo. Un attimo di nirvana che mi rende consapevole dell’universo intero e del suo immobile fluire, paradosso che si realizza nella stessa identica maniera dell’acqua del lago che ho davanti.
Ascolto la linfa dare vita agli alberi, protetta dalla corteccia; la linea di galleggiamento delle barche bagnarsi e asciugarsi con il ritmo delle piccole onde del lago; godo il pensiero di completezza che fa felici gli uccelli che portano il cibo ai loro piccoli nel nido. Mi sento lago, barca, quercia, isola, paese. Mi sento una con il tutto.
Devo fermare assolutamente questo momento. Tiro fuori dal marsupio il taccuino e la penna che porto sempre con me. E comincio velocemente a scrivere, nonostante le dita intirizzite e la difficoltà di dover appoggiare la carta sulle mie ginocchia: «Non sto correndo per divertirmi, per tenermi in forma, o per preparare una gara…».