Senti l’odore del tempo

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Illustrazione di Agrin Amedì
Questa era la frase che suo padre gli aveva detto in punto di morte. Il parcheggio dell’ospedale era quasi vuoto. C’erano solo poche macchine ad aspettare Paolo. E la sua era là, nello sterrato, dove nella fretta l’aveva parcheggiata.

Questa era la frase che suo padre gli aveva detto in punto di morte. Il parcheggio dell’ospedale era quasi vuoto. C’erano solo poche macchine ad aspettare Paolo. E la sua era là, nello sterrato, dove nella fretta l’aveva parcheggiata. Adesso era lontana dalle altre e illuminata solo dalla luna. Non c’erano rombi di motore in lontananza. Nemmeno un gatto passava quella notte. Paolo ne fu infastidito, era tormentato dal pensiero che la città stesse osservando un rigoroso silenzio, come per un eroe caduto. Lui avrebbe preferito il casino, il rumore, gli schiamazzi e le urla; l’indifferenza di una città in tumulto. Avrebbe voluto sentire il clacson, le bestemmie ai semafori e i cani con il loro abbaiare notturno. Avrebbe voluto sentire la musica assordante che proveniva dai locali e che spesso non lo faceva dormire fino a notte fonda. Oppure gli sarebbero bastati i gridolini fastidiosi dei ragazzi che la notte si dirigono al panificio sotto casa sua. Ma anche i suoi passi, quella sera, a Paolo sembravano non emettere rumore. E fu allora che decise di lasciare lì la macchina e iniziare a camminare per far chiarezza tra i suoi pensieri, lasciandosi trasportare dalla strada e ritrovandosi in poco tempo perso tra strade conosciute.
«L’odore del tempo» aveva pensato «che stronzata! Il tempo non ha profumo, o forma. Non si mangia, non si tocca, al massimo si vive, ed è già abbastanza quello». Paolo non aveva mai sentito l’odore del tempo e in quella notte diversa non percepì nulla. Nemmeno l’odore pungente dell’umido che aveva quella stradina stretta che stava percorrendo, perché il suo naso era assuefatto dall’odore forte del lungo corridoio verde dell’ospedale.
Paolo si era lasciato trasportare dalla città e dalle sue strade, in quella che gli era sembrata la notte più sincera di sempre, e adesso era davanti alla ringhiera di ferro di un piccolo molo dimenticato. Ormeggiate c’erano poche barche, la maggior parte erano dissestate e si trovavano fuori dall’acqua. Quello era il porto dove andavano ancora i vecchi pescatori per prendere qualche pesce per casa o da vendere a qualche ristorante chic vicino al molo. Paolo aveva la bocca asciutta ed era stanco. E dopo aver camminato ancora un po’ si era seduto sul molo e con le mani aveva toccato la superficie bagnata e porosa della pietra, mentre con i piedi a penzoloni si era messo a fissare il mare nero.
«L’odore del tempo», aveva sospirato. Suo padre aveva detto quella frase guardandolo fisso, come se proprio lui fosse stato in grado di capire. Paolo non poteva non pensarci, ma nella sua testa c’erano milioni di pensieri, forse troppi per pensarli tutti insieme. Così decise di incrociare le braccia e di chiudere gli occhi per annichilire ogni cosa intorno e dentro di sé. Adesso non vedeva e non sentiva più nulla, e questo lo tranquillizzava. Con gli occhi chiusi ricordava la sua vita, la sua infanzia, le cazzate, la città. «La mia città», aveva detto tra sé e sé con aria sospirante. E pensando a questa si era concentrato sui suoi odori. «L’odore della mia città, da piccolo…» Aveva accennato un sorriso malinconico. «Era l’odore della fabbrica. L’aria sapeva di ferro e di combustione, di uova marce e, in alcuni vicoli poco trafficati, di piscio di gatto. E questi puzzi rimanevano in città fino all’arrivo dello Scirocco, che caldo e dolce era come il latte e il miele e che, insieme al timo, la nonna mi preparava quando stavo male. Era l’odore dello Scirocco che saliva direttamente dal mare e che con il sale lavava l’aria della mia città.»
Paolo si era fermato. Ripensava alle parole che aveva detto e a ciò che aveva provato. «L’odore del tempo» aveva continuato a ripetersi. «L’odore del tempo…»
E dopo alcuni momenti di silenzio: «Il bombolone fritto» aveva pensato «il suo profumo, e il sapore dolce della sua crema calda; lo mangiavo sempre prima di andare a scuola». Si era messo a leccarsi le labbra. «L’odore della legna del camino della casa di zio, e il fuoco che mi bruciava le guance» aveva continuato. «Il sapore del mio primo bacio e l’odore di sciampo all’albicocca di Martina. Il caffè…» E dicendolo aveva tirato forte su con il naso, come se avesse avuto proprio il quel momento una tazzina di caffè bollente tra le sue mani. «La mia prima sigaretta. Cavolo quanto bruciava! E i baci della nonna e il suo profumo.»  E sul ricordo di quel profumo Paolo per un po’ si era fermato. Per anni, dopo la morte di sua nonna, lo aveva inseguito in un vecchio autobus affollato o vicino ad alcune signore in fila al supermercato. E nel buio della sua anima, improvvisamente riempita di profumi e emozioni, Paolo si era reso conto che il tempo che tanto aveva segnato e scandito la sua vita non era vuoto, ma era pieno di colori, suoni, sapori e soprattutto di odori. E fu così che Paolo ripensò anche all’odore della colonia del suo vecchio, e nonostante per lui non lo meritasse, nel freddo dei suoi pensieri, una lacrima gli scese.

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