#Instalove

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Illustrazione di Agrin Amedì
La amo. La amo immensamente e devo proteggerla. La prima volta che la vidi era il cinque marzo duemiladiciassette, ero seduto su una  panchina al parco. Ricordo che c’era molto sole e io avevo scelto di fermarmi all’ombra per riuscire a vedere meglio lo schermo del cellulare.

La amo. La amo immensamente e devo proteggerla. La prima volta che la vidi era il cinque marzo duemiladiciassette, ero seduto su una  panchina al parco. Ricordo che c’era molto sole e io avevo scelto di fermarmi all’ombra per riuscire a vedere meglio lo schermo del cellulare. Quando aprii Instagram la vidi come un’apparizione: indossava un abito bianco che lasciava le spalle e le gambe nude, aveva in mano un bicchiere da cocktail appannato dal ghiaccio che teneva sollevato come fosse un trofeo, i piedi erano scalzi e affondati nella sabbia, la luce del tramonto baciava i suoi capelli color miele e rendeva la sua pelle ancor più dorata di quanto non avesse già fatto l’estate. Non vidi il colore degli occhi perché erano chiusi e tutto il suo volto era leggermente reclinato all’indietro, con un pezzetto di lingua che spuntava tra denti bianchissimi. Era bellissima. Controllai immediatamente chi avesse pubblicato la foto. Era stata Amanda. Aveva aggiunto la didascalia ‘Chillin at the beach with bf!’ e un tag: ‘Sunny_LaMi’. Aprii di corsa quel profilo: Laura Mirante. L’ultima fotografia pubblicata era la stessa che mi aveva portato da lei. Scoprii che il colore dei suoi occhi era di uno splendito verde scuro, che il mese precedente era stata in Spagna con degli amici, che viveva sicuramente a Bologna come me, perché la maggior parte delle foto avevano come sfondo luoghi familiari, che aveva due cani, un barboncino bianco e uno color champagne di nome Neve e Stella, che amava circondarsi di suppellettili rosa e beige e che praticava lo yoga presso una palestra in centro tutte le sere dopo essere uscita da lavoro (informazione sintetizzata in ‘every night after work!’ seguita dalla emoticon di un braccino muscoloso). Cliccando sulle geolocalizzazioni accuratamente poste sopra ogni foto, scoprii che era una junior designer presso un grosso studio in centro. Cercai fotografie ricorrenti che la ritraessero con un uomo, scorsi il suo profilo fino a ritrovarmi a guardare foto del duemila quindici. Niente. Cominci a seguire il suo profilo. Il suo primo post veniva pubblicato tra le otto e le otto e trenta, io mi svegliavo alle sette e cinquanta per essere il primo poterle lasciare un cuoricino. Poi controllavo le sue storie, generalmente inerenti la colazione che stava facendo. Avevo capito le sue abitudini alimentari dopo un paio di post, quindi riuscivo ad avere in casa più o meno le stesse cose che avrebbe mangiato lei, così avremmo potuto fare colazione insieme. La storia successiva di solito era una foto scattata nello specchio dell’ascensore in cui mostrava i suoi abiti e chiedeva un parere su come le stessero, opinione che era possibile dare facendo scorrere un cuore su un’asticella del gradimento virtuale. La mia valutazione era sempre il massimo. La terza storia la guardavo mentre mi recavo al lavoro, mostrava un primo piano di lei seduta in tram con le cuffie nelle orecchie e come sottofondo musicale si poteva sentire la stessa canzone che stava ascoltando lei in quel momento e guardarla muovere la testa a tempo. La quarta storia la pubblicava dal lavoro e per me sarebbe stata quella la storia più speciale di tutte. La sera prima avevo ordinato online un mazzo di rose rosa e panna da farle consegnare non appena avesse aperto il suo ufficio, per fargliele trovare sulla scrivania una volta arrivata a lavoro. Avevo fatto allegare un bigliettino con una sola frase: «Dal tuo ammiratore segreto. #instasecret». Non rimasi deluso. Nella quarta storia campeggiava a tutto schermo una foto dei miei fiori con un’animazione lampeggiante della parola ‘wow!’ e la scritta ‘Thank you! #instasecret’. Mi emozionai talmente tanto che dimenticai di scendere dal tram e superai di cinque fermate il mio ufficio. Lei mi aveva ringraziato! Ero nella sua vita, tutti avevano potuto vedere che ero entrato a far parte della sua giornata! Passai buona parte della mattinata ad aggiornare il mio feed ma non ci furono altre sorprese. Ero nervoso, non avere sue notizie per così tante ore mi rendeva irascibile e distratto. Lavorai poco e male, mi riebbi soltanto verso l’ora di pranzo quando finalmente comparve la quinta storia. Era un boomerang che andava dal suo viso con gli occhi sgranati a una tartare di salmone e avocado; in piccolo erano riportati un paio di tag che rimandavano, probabilmente, ai profili dei suoi colleghi e un ashtag ‘#mantellicafè’. Era a circa dieci minuti a piedi dal mio ufficio. Uscii di corsa. Non sapevo bene cosa avrei fatto ma avevo assolutamente bisogno di trovarmi vicino a lei, di vederla e di toccarla. Per accorciare la distanza che ci separava mi misi a correre, arrivai alla meta trafelato, ero sudato e completamente in disordine, mi fermai a riprendere fiato fuori dalla grande vetrata che dava all’interno del caffè. La riconobbi subito, dopotutto sapevo perfettamente com’era vestita grazie alla seconda storia del mattino: indossava un morbido abito beige che le arrivava all’altezza del ginocchio, una giacca di jeans azzurro chiaro e dei sandali infradito rosa cipria. I capelli erano sciolti e il viso era incorniciato da degli orecchini e da una lunga collana in tinta con le scarpe. Ero estasiato. Entrai e chiesi alla cameriera di poter avere il tavolo accanto al suo. Sedetti a pochi centimetri da lei, condividevamo lo stesso divanetto, se avessi anche solo allungato una mano avrei potuto toccarla. Ogni volta che muoveva la testa il suo profumo mi arrivava a zaffate, profumava di paradiso e promesse d’amore. Ordinai lo stesso piatto che avevo visto tra le sue storie e mi misi ad ascoltare la sua conversazione con i colleghi. Una di loro la stuzzicava riguardo al mio mazzo di fiori, lei si schermiva e sorrideva, rispondeva che non erano niente, che non significavano nulla e non bisognava ricamarci troppo su. La collega insistette senza pietà finché lei, ridendo, disse che era inutile montarsi la testa poiché un gesto del genere non significava di certo che Diego avrebbe lasciato la moglie, si era solo spaventato perché lei gli aveva detto che era stufa. Mi crollò il mondo addosso. Chi era Diego? Sentii che il sangue abbandonava il mio viso per dirigersi a irrorare la morsa che mi aveva attanagliato lo stomaco. Sbiancai e mi caddero le posate di mano sbattendo rumorosamente nel piatto. Dal suo tavolo mi lanciarono un’occhiata. «Si sente bene?», mi sentii chiedere da qualcuno. Mi girai verso la voce e fissai i miei occhi nei suoi. Deglutii, non riuscivo a parlare, avevo la gola incollata e la bocca secca. Laura appuntò su di me uno sguardo interrogativo e aggrottò la fronte, la stessa espressione comparve sul viso dei suoi colleghi. «Sì…» risposi. E istintivamente, senza pensare, le presi l’avambraccio con la mano. Era calda e morbida, sembrava di toccare della seta lasciata sotto al sole. Lei sussultò e ritirò immediatamente il braccio, si spostò sul divanetto e si alzò passando dal lato opposto al mio, frapponendo tra noi il suo tavolo. «Vado a chiedere il conto», disse rivolgendosi ai suoi commensali. «Se ha bisogno posso mandarle la cameriera» aggiunse guardando me. «No grazie, no. Sarà stato un colpo di calore, davvero…» risposi io accennando un sorriso. La guardai allontanarsi come inebetito, continuavo a sentire il suo calore sotto le dita, mi annusai la mano sperando avesse catturato un po’ del suo profumo: c’era, odoravo di gelsomino e spezie. Sorrisi. Fu allora che incontrai lo sguardo dei suoi colleghi che mi fissavano perplessi e che si affrettarono ad alzarsi non appena ricambiai l’occhiata. Che ne sapevano loro dell’amore che ci legava? Non potevano sapere che io ero suo e lei era mia. Questo Diego doveva essere una cotta passeggera, un nemico da poco. Anzi, probabilmente nemmeno esisteva. Doveva essere una scusa che lei utilizzava per non essere importunata. Dopotutto non aveva nemmeno una foto con lui sul suo profilo, anche se questo poteva essere perché era sposato. Forse la loro storia era un segreto… Ma no, ero io il suo unico segreto. Io il suo e lei il mio. Presto l’avremmo detto a tutti che ci amavamo.
Tornai in ufficio contento. Appena mi sedetti alla scrivania Laura aggiornò le sue storie: c’era la foto di un lungo tavolo ancora vuoto con bicchieri di vetro a ogni posto e la scritta “Meeting afternoon”, poco dopo comparve sulla sua pagina un post con una foto di lei e una donna con la didascalia ‘Woman boss!’. Mi affrettai a mandare il mio cuoricino di gradimento. In breve tempo la sua foto superò i quattrocento like. Non capivo perché tutta quella gente dovesse trascorrere il proprio tempo a occuparsi delle giornate della mia ragazza… La prima cosa che avremmo fatto appena la nostra relazione fosse stata resa pubblica sarebbe stata chiudere ogni suo account social. Avrebbe potuto conservare l’email solo per lavorare. Anche se probabilmente non le sarebbe nemmeno servito lavorare, ma di questo ne avremmo discusso in seguito. Decisi che quel giorno l’avrei riaccompagnata a casa dalla palestra, mi sarei fatto trovare lì fuori alle dieci, non appena avesse finito il corso, e avremmo fatto la strada insieme. Mi appostai all’esterno dall’edificio alle otto e trenta, lei doveva essere entrata almeno da mezz’ora, mi appoggiai ad un muro nascosto sotto la pensilina di un giornalaio chiuso ed iniziai ad aspettare. All’ora concordata la vidi uscire e mi misi dietro di lei, tenendomi a qualche passo di distanza. Aveva le cuffie, i leggings e una giacca leggera buttata sopra le spalle; la borsa da palestra a tracolla le si appoggiava sullo sterno dividendole i seni. Era incredibilmente bella anche vestita così. Dopo qualche passo salì su un autobus, salii anch’io. Lei si sedette nell’unico posto libero e io rimasi in piedi a un metro da lei. La vidi scattarsi una foto e le sue storie si aggiornarono. Seppi che stava ascoltando “Creep” dei Radiohead e, tirando fuori i miei auricolari, feci lo stesso anch’io. Non mi guardò mai. Scesi con lei e la seguii fino a casa, mi fermai a guardarla aprire il portone dall’altro lato della strada, attesi qualche minuto che si accendesse la finestra di casa sua e me ne andai. La mia routine fu la stessa per circa un mese: seguivo le sue storie, le mandavo cuori virtuali, le facevo recapitare fiori almeno una volta ogni dieci giorni, la raggiungevo non appena possibile a pranzo e l’accompagnavo a casa ogni sera. La nostra storia era diventata stabile. Un paio di volte i nostri sguardi si erano addirittura incrociati e sono sicuro lei mi avesse mandato un sorriso complice. Solo una volta non ci eravamo capiti e mi aveva fatto aspettare fuori dalla sua palestra invano: era andata a una cena di lavoro e solo alle nove e mezza di sera aveva pubblicato una storia che la ritraeva in abito da cocktail in uno dei locali più esclusivi della riviera. La perdonai subito, dopo tutto il lavoro era lavoro.
Una sera, all’inizio del nostro secondo mese, la stavo aspettando come sempre fuori dalla palestra ma fui sorpreso di vederla uscire allacciata a un tizio. Era alto, di corporatura media e con i capelli corti. Non riuscii a vedere altro. Mi venne un colpo. Sentivo le gambe molli ma iniziai a seguirli. Chi cazzo era quello che la toccava? Ma poi lei che razza di puttana era se si faceva mettere le mani addosso dal primo venuto? Dio mio, non ci potevo credere. Doveva essere un qualche genere di maniaco che si divertiva a importunare le estranee. Gliel’avrei fatta vedere io! Girarono in una traversa che lei non aveva mai preso, affrettai il passo ma li raggiunsi giusto in tempo per vederli salire su un’auto parcheggiata e partire. Cazzo, dovevo andare immediatamente sotto casa sua per capire se aveva bisogno d’aiuto. Arrivai dopo mezz’ora d’autobus sotto il suo palazzo. Le luci erano spente. Attesi. Controllavo ossessivamente il suo profilo ma tutto taceva. Rimasi sveglio ad aspettarla fino alle tre del mattino, poi non ricordo più nulla. So che mi svegliò l’alba e che mi ero addormentato seduto sul marciapiede. Controllai immediatamente Instagram ma non c’era nessuna sua notizia. Cristo, era sicuramente come credevo, era stata rapita. Controllai le news di Bologna e la lista delle persone scomparse. Niente. Avrei dovuto chiamare gli ospedali per maggior sicurezza. Proprio mentre mi apprestavo a fare la prima telefonata vidi salire in cima a tutte le storie l’icona del suo profilo. C’era la foto di due tazze di cappuccino e due brioche e a corredo di tutto appariva la scritta ‘breakfast with…’ seguita da un cuoricino. La situazione era grave. Probabilmente doveva averla colta una forma grave di sindrome di Stoccolma. Dovevo assolutamente vederla, salvarla, fare in modo di ripristinare lo status quo ante del nostro mese insieme. Corsi a casa, mi feci una doccia e mi cambiai i vestiti, comparve un’altra storia, il suo look del giorno in un ascensore che non era il suo. Andai a lavoro con il più grande magone che la storia umana potrà mai conoscere. Nessuno, dico nessuno, aveva indubbiamente mai sofferto una tale agitazione quanta ne soffrivo io in quel preciso istante. Il tempo quella mattina non trascorse mai, non passava un attimo. Attendevo il suo post del pranzo per capire dove fosse, ma non pubblicò nulla. Comparve qualche storia dall’ufficio nel pomeriggio, ma non c’erano notizie rilevanti. La sera, come al solito, andai ad aspettarla fuori dalla palestra. Dovevamo chiarirci, dovevo vederla e parlarle sinceramente a cuore aperto. Avevo diritto di sapere chi fosse quell’uomo che sembrava avesse passato la notte con lei. Attesi vanamente. Stavo male, mi sentivo la febbre. Rincasai tremante, avevo freddo ed effettivamente il termometro segnalava la mia temperatura a trentotto. Mi raggomitolai sotto le coperte. Avevo dolori ovunque e mi veniva da piangere. Lo smartphone era a letto con me e aggiornavo freneticamente il feed sperando di veder apparire qualche sua notizia ma niente; più aggiornavo, più tremavo, più piangevo. Credo che mi addormentai singhiozzando.
La mattina dopo ero ridotto uno straccio. Non andai a lavoro, trascorsi la giornata in una specie di delirio. Non mangiai, bevvi una mezza dozzina di tazze di caffè e mi accertai convulsamente che sul telefono ci fosse segnale e che la batteria fosse carica. Le storie di Laura erano le stesse del giorno precedente, colazione per due, nessuna notizia sul pranzo e qualche foto dal lavoro. La sera non resistetti più e mi presentai di nuovo fuori dalla sua palestra. Dal giorno precedente non mi ero nemmeno cambiato, indossavo gli stessi vestiti con cui ero andato a lavoro e avevo dormito, mi ero buttato addosso un giaccone pesante e avevo tirato su il cappuccio della felpa. Tenevo le mani affondate nelle tasche e, anche senza essermi guardato allo specchio, ero moderatamente certo che i miei occhi fossero cerchiati di viola. Dopo oltre due ore di attesa la vidi uscire: erano le dieci e trenta e lei se ne stava ferma in piedi davanti alla porta della palestra con il vetro scorrevole chiuso alle sue spalle. La vedevo trafficare cercando qualcosa nella borsa, decisi di avvicinarmi. Proprio quando ero a pochi passi da lei la porta si aprì e la raggiunse un uomo, lo stesso uomo. Rimasi impietrito. Nessuno dei due mi aveva notato e si erano messi a camminare nella direzione opposta alla mia. Attesi qualche secondo che mi passassero i crampi all’addome e mi buttai dietro di loro. «Ehi!» Sentii qualcuno gridare in modo aggressivo. Ero stato io. I due non si fermarono e non si girarono. «Ehi!», ripetei di nuovo con lo stesso tono. A questo punto vidi entrambi fermarsi e voltarsi verso di me. Accelerai il passo per raggiungerli. Mi fermai sotto la luce di un lampione esattamente dove erano loro. «Si sente bene?» mi sentii chiedere da Laura con lo stesso tono e con la stessa voce di quel primo incontro al bar. Mi si sciolse il cuore. Dopo nemmeno due secondi vidi il braccio dell’uomo frapporsi tra me e lei e lo sentii dire: «Ma non lo vedi che è un tossico? Andiamocene per favore». Lui la stava già spingendo a girarsi quando la sentii sussurrare: «Diego, forse ha bisogno d’aiuto». Era quel maledetto. Allora esisteva veramente! Esisteva e si era preso la mia donna e probabilmente anche il merito dei miei fiori, si era preso tutto e lei glielo aveva lasciato fare! Eppure doveva sapere che ero stato io a curarla, coccolarla, ad accertarmi che arrivasse a casa sana e salva ogni sera! Era lei che voleva farmi sapere dove avrebbe pranzato ogni giorno e con chi era! Sentii il sangue salirmi al cervello, avevo caldo e sentivo le pulsazioni del cuore nelle orecchie. Non potevo credere che un essere umano tanto bello, tanto angelico, potesse arrivare a ordire un livello di tradimento così alto. Era stata meschina, miserabile, mi aveva sfruttato! Mi scagliai contro entrambi gridando, era un grido gutturale e profondo. Diego si frappose tra me e Laura ma io riuscii comunque a raggiungerla con un braccio e a spingerla fino a farla scivolare e cadere per terra. Quando la vidi stesa sul marciapiede mi spaventai. Improvvisamente mi venne il timore di averle fatto male; io l’amavo. Mi fermai e provai ad avvicinarmi a lei, volevo aiutarla a rialzarsi. Durò tutto non più di tre secondi: sentii la mano di Diego afferrarmi e sentii un dolore atroce partirmi dal naso. Caddi a terra e istintivamente portai le mani al viso. Sentivo qualcosa di bagnato inondarmi le dita, ma non ebbi il tempo di controllare cosa fosse, fui colpito da un calcio e poi da un altro e poi da un altro ancora. In fine fui colpito da un altro pugno. Ebbi solo il tempo di sentire Laura gridare: «Oddio Diego, cosa hai fatto?» e lui rispondere «Dai, dobbiamo andarcene! Chiameremo un ambulanza dalla macchina!». Poi il buio.
Ero in ospedale da dieci giorni. Il profilo di Laura era stato aggiornato tre sere dopo il nostro incontro, aveva fotografato la sua mano sinistra con un bell’anello all’anulare, un diamante di discrete dimensioni. La foto era guarnita dall’ashtag ‘#promise’ e da un tag al profilo di Diego. Poi solo silenzio. Intuii che lo stronzo dovesse aver lasciato la moglie e che la puttana si fosse buttata su di lui a volo d’angelo. Cristo, che delusione. Mesi di speranze, sacrifici e sentimenti buttati al vento. Ci avevo quasi rimesso la milza per lei ed è così che mi ripagava! Nessun riguardo per i miei sentimenti! Era stata un errore di valutazione, la peggior delusione della mia vita.
Scorrevo il feed almeno ogni dieci minuti, non sapevo se sperando di avere sue notizie o per la sola forza dell’abitudine, finché, un giorno, aprii Instagram e la vidi comparire nella mia home come un’apparizione: aveva capelli castano chiaro, occhi di uno strano color marrone, tendente al giallo, indossava una maglia rossa piena di rouge che le lasciava scoperte le clavicole, al collo aveva una catenina dorata, teneva tra le mani una tazza di caffè. Cliccai sul suo profilo. Si chiamava Marta Sampieri. La amo. La amo immensamente e devo proteggerla.

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