Sullo spiazzo accanto al mare non c’è anima viva. Parcheggio in prossimità della spiaggia. In estate, quando è pieno di gente sembra un posto diverso. Invece oggi è una mattina umida di fine novembre, da ieri non cessa di piovere. Teresa sta mettendo via il telefono in una tasca profonda della sua borsa. Il mio è rimasto a casa in un cassetto.
«Oggi voglio stare spento…»
Nell’autoradio Vasco celebra la disconnessione con il mondo. A lato del parcheggio un chiosco delle grattachecche ha la serranda ingrigita, rovinata dalla salsedine. Alcune sedie di plastica sono abbandonate alla rinfusa, rovesciate dal vento, altre accatastate, legate tra loro, sotto un telone bianco squarciato. C’è un lucchetto nuovo ed un cartello invece sbiadito con su scritto “CHIUSO”, senza indicazione di date, forse per ora per dopo per sempre. La pioggia è fitta ma leggera. Usciamo dalla macchina per fare qualche passo sulla sabbia che è dura e respinge i nostri piedi; restano disegnate le sagome della suola di gomma delle scarpe prima che il vento le cominci a cancellare.
«Quando torna?»
«Domani, il volo atterra alle otto.»
«Ha terminato di fare la guerra» dico con lieve sarcasmo.
«Non è mica stata una passeggiata la missione in Siria…» obietta Teresa.
«Lo so, la Patria chiede il sacrificio agli eroi…»
«Per nessuno , non è stata una passeggiata per nessuno di noi» dice ad alta voce Teresa. Vicino al muretto che separa la spiaggia dal marciapiede ci sono delle assi di legno: alcune sono lunghe, altre più corte, bianche, altre ancora sono azzurro spento. Ciascuna è sovrapposta all’altra a formare tre pile che arrivano all’altezza della torretta d’avvistamento del bagnino. Montate una incrociata all’altra diventano cabine in estate; su ciascuna si è depositata la sabbia salmastra.
«Non voglio chiuderla qui.»
«Che vuoi dire?»
«Niente… Non ho voglia di finirla adesso, proprio adesso.»
Io non ne ero sicuro. C’erano state troppe telefonate frettolose, messaggi equivocati, incontri strappati e separazioni dolorose. Ma dentro tutto questo eravamo riusciti a vivere lo stesso.
«Sei certo di quello che dici? Non sai quello che dici…»
Teresa non si muove, con la bocca dischiusa respira profondamente e il viso tirato sembra smarrito. Muove le labbra per parlare ancora, ma non esce nessun suono. Passeggiamo fianco a fianco ancora qualche minuto senza parlare: la testa chinata, lo sguardo alla ricerca d’altrove…
«Roby, io penso che sia la cosa migliore. Chiudiamola qui.»
«Non fare così…»
«Corrado aspetta impaziente il ritorno di suo padre; lui ha bisogno delle certezza dalla famiglia.»
Teresa si ferma. Si gira verso di me e ora ci guardiamo in faccia.
«Mi dispiace tanto, non avrei voluto lo sai. Mi dispiace, tanto.»
Sulla spiaggia intanto l’aria si è fatta tagliente, la pioggia ancora più densa. Un lampo , un botto lontano, il mare ansima forte. Un cane dal pelo marrone si dirige verso di noi attraversando una spiaggia altrimenti deserta: si avvicina con molta prudenza e poi prima di compiere gli ultimi balzi alza il muso, ci odora e prende la direzione opposta da quella da cui è arrivato. Intravedo una sagoma scura sul ciglio della strada, sento un fischio, un richiamo, il cane si lancia in una corsa affannata verso il padrone. Si uniscono e si abbracciano perdendo l’equilibrio, e si lasciano andare ridendo. Si rialzano e vanno veloci verso il muretto che scavalcano entrambi con un salto; poi s’infilano in una macchina calda con il motore acceso dove una donna giovane li aspetta.
Un ciuffo di capelli neri esce dal cappuccio dell’impermeabile e si poggia sopra la sua fronte. Il viso mantiene alcune chiazze di asciutto che gli danno due tonalità di colore, una più lucida in prossimità degli occhi. Lo sguardo di prima ha lasciato il posto a un altro senza espressione. Poi una smorfia, una increspatura alle labbra, le sue parole sono trattenute dall’inutilità di dare una spiegazione. Alza la mano per accarezzarmi sul viso, dolcemente, poi ritrae la mano.
«Non è come pensi tu. Anche per me è necessario. Ho vissuto di nascosto questi mesi, non me ne pento, ma mi sono sentita sempre scissa in due, in ogni momento. Divisa a metà. Ho bisogno di tornare a essere una, intera. Capisci cosa voglio dire?»
Annuisco scuotendo il capo, anche se mi porto dentro un senso di incompiutezza, di qualcosa che si interrompe bruscamente senza preavviso.
«Oggi non puoi restare?»
«No, vado a casa. Devo prepararmi per domani.»
«Quindi ora…»
Teresa mi ferma, toccandomi il braccio, alza l’indice sulle labbra e mi chiude la bocca.
«Ora sono con te, godiamoci questi nostri momenti.»
Ho sempre saputo che Teresa aveva cominciato a vedermi per tirarsi un po’ su, per rompere la solitudine. Nonostante questo eravamo riusciti a costruire perfino una routine. Ci si vedeva alla mattina presto prima che mi recassi al lavoro, dopo aver accompagnato a scuola Corrado. Poi nel pomeriggio quando c’erano le attività sportive, le feste di compleanno, le gite scolastiche che occupavano suo figlio ogni occasione era buona per appartarci e stare insieme. Mai di sera. Il sabato e la domenica era più difficile. Qualche volta di estate, al mare. Due anni portati avanti in questo modo. Quando suo marito tornava in licenza da fuori prendevo le ferie dall’ufficio e andavo lontano. Non volevo incontrarli per strada, non lo avrei sopportato.
La pioggia è ora violenta e non permette di continuare il cammino. Il mare s’ingrossa, le onde si rompono continuamente e il vento ne porta gli spruzzi fino alla macchina posteggiata appena al di là del muretto. Siamo fradici e gocciolanti. Cerchiamo un riparo, un bar non è troppo distante da qui, l’unico aperto sul lungomare d’inverno. Il barista ci guarda in modo interrogativo. «Due caffè, uno ristretto.» Sull’uscio l’aroma invitante ci ha convinti ad entrare. «Due ristretti» mi corregge Teresa.
Il locale è riscaldato e confortevole. Un uomo e una donna sono seduti all’estremità della sala vicino a una vetrina: lui di mezza età con indosso un completo grigio molto elegante, lei più giovane vestita di nero con un cappotto pesante. Ci sono due bicchieri sul tavolo, uno pieno a metà. L’uomo ha il voto inclinato verso di lei, sta parlando muovendo la testa; stringe la sua mano con entrambe le sue. I suoi occhi però sono rivolti verso il basso. La donna è bella, appare concentrata sul discorso anche se il suo sguardo sembra lontano, oltre il vetro, verso il mare. Entrambi appaiono molto tristi; accanto a loro giace una piccola valigia scura.
L’espresso è fatto come si deve. È denso e corposo in superficie, senza residui sul fondo. Quello di Teresa è ancora tutto nella tazzina. Dopo aver versato lo zucchero mescola il caffè con un movimento continuo, inseguendo il suo pensiero. Il viso si illumina solo a tratti, riflesso dalla luce delle vetrine che giunge dal mare.
La mattina, mentre il profumo della moka spenta sul fuoco era diffuso per tutte le stanze, si faceva l’amore a lungo, appassionatamente. Poi con una seconda caffettiera a bollire, spesso si continuava una volta ancora in cucina. Alla fine davanti a una tazza fumante di caffè nero si discuteva delle persone che conoscevamo, di quanto era stato detto il giorno prima, degli orari del prossimo incontro. Poi ci si rivestiva, io per andare in ufficio e lei dalla sua amica tornando a casa prima di pranzo perché da lei c’era il collegamento Skype con la base militare.
Qualche sparuto pedone si riaffaccia sul marciapiede chiudendo l’ombrello. La tempesta ora sembra stia per scemare. La pioggia è molto più fine, inizia a smettere di dare fastidio. Il vento si placa decisamente; qualche soffio arriva comunque fino alla porta del bar.
Al tavolo l’uomo è rimasto da solo. La valigia è scomparsa. Beve dal bicchiere con studiata lentezza; non ha alcuna fretta d’andar via. Si sente un cicaleccio provenire dal suo cellulare: «Vengo, tra mezza ora sono laggiù. Aspettami prima di uscire, ti devo parlare». Si prende tutto il suo ultimo tempo. Si alza, beve l’ultimo sorso dal suo bicchiere, lascia una banconota sul tavolo ed esce senza nemmeno aspettare il resto. Il barista si avvicina al tavolo, si affretta a sparecchiare. Raccoglie il denaro, il piattino e il bicchiere; il tavolo è rapidamente pulito ed è pronto ad accogliere nuove persone.
Fuori l’aria fa un altro giro, molti fiocchi di spuma volano attraverso la strada portati dalla corrente. Torniamo verso la macchina, Teresa mi prende il braccio destro e lo infila sotto il suo. Cominciamo a parlare, più distesi. Appoggia la testa sulla mia spalla come fa abitualmente. Tra non molto deve tornare a casa, la scuola sta per finire e Corrado l’aspetta. Questo pomeriggio devono preparare le torte e organizzare la festa del ben tornato. Metteranno i palloncini colorati e gli striscioni con su scritto che sono felici; sulla tavola ci saranno i bicchieri di carta con i nomi e i calici – quelli del servizio pregiato – perché domani ci saranno tante persone, i parenti di entrambi, i suoi colleghi rimasti, le mogli i bambini e tanti alcolici e molta aranciata. Poi la sera lui la porterà fuori a cena per festeggiare.
La macchina si accende solo al terzo giro di chiave poi si avvia lentamente. Usciamo dal parcheggio. Sinistra. Stop. Poi a destra. Fari accesi. Imbocchiamo la strada. Il mare è di fianco, di fronte a noi chilometri di rettifilo spazzati dal vento; due ragazzi sulla battigia con la muta nera e il surf stanno preparando la sfida. Teresa mi chiede di accostare per poterli vedere. Uno a fianco all’altro sdraiati sulla tavola nuotano in sincronia, risalendo lentamente controcorrente con bracciate vigorose. Il mare ora sembra più calmo, il bianco della cresta delle onde perde di tono e si fa di momento in momento più scuro.
Si alzano ritti lanciandosi un grido di avviso e poi si danno il via, come indomiti cavalieri desiderosi di ammaestrare le onde. Due onde enormi si alzano di traverso rispetto alle altre. Scivolano sulla superficie di quella più grande, girando la tavola nella direzione della parete dell’onda perché la parte bassa è piatta e non spinge. Entrambi prendono velocità per diversi interminabili secondi ma poi non tengono più l’equilibrio, prima cade uno poi l’altro. Riemergono non senza fatica, la corrente li deposita a riva. Escono intirizziti buttandosi faccia giù sul bagnasciuga; qualche secondo per recuperare il respiro e scattano in piedi elettrizzati: l’impresa è riuscita. Le urla di gioia arrivano in strada, accennano un passo di danza, il freddo è un ostacolo ormai superato. Sorridiamo e battiamo le mani , l’entusiasmo dei loro vent’anni ci coinvolge. Teresa, commossa, non parla e si morde le labbra senza girare lo sguardo. Taccio. C’è stato un momento in cui ci abbiamo davvero creduto, ma non è stato abbastanza.
La riaccompagno alla sua macchina parcheggiata in fondo sul lungomare. Al momento del saluto mi bacia sulla guancia, gli occhi pieni di luce. Apre la portiera, scende dalla vettura poi risale. Si sporge dal sedile verso il mio. Un altro bacio ancora, stavolta sulla bocca. Lungo. Struggente. Poi si precipita fuori: «Allora ciao». Il telecomando illumina i fari; lei si volta una ultima volta verso di me, sussurra qualcosa, sale, mette in moto e scappa via.