Alla luce della lampada

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Illustrazione di Agrin Amedì
Da ventitré anni lavoro alla luce di questa lampada. Amo il fascio freddo e indifferente delle sue particelle e il leggero pulviscolo che sembra emanare dopo ore di diligente attività.

Da ventitré anni lavoro alla luce di questa lampada. Amo il fascio freddo e indifferente delle sue particelle e il leggero pulviscolo che sembra emanare dopo ore di diligente attività. Amo la precisione con la quale illumina il segreto dei corpi spalancati sotto i miei occhi, guizzanti di vita e arresi alle mie mani.
Sono un chirurgo, uno di quelli che credono che non ci sia nulla di più vivo di un corpo addormentato su un tavolo operatorio. Sono convinto che i corpi parlino più di quanto non siano capaci di fare le persone. Parlano a me, parlano alle mie mani che pigiano, che palpano, che risanano. Imparo a conoscere le persone più toccando le loro carni che non ascoltando i loro discorsi. Un corpo non può mentire sotto gli occhi penetranti della lampada scialitica, non può farlo perché non ha più filtri, né la pelle a corazzarlo né il cervello a mascherarlo. I corpi ti raccontano la storia delle persone a cui appartengono, ti parlano di coraggio, di paura, di passione.
Ho operato persone che credevo non ce l’avrebbero fatta e le cui fibre, invece, hanno combattuto sotto le mie mani come soldati scelti. E solo in seguito mi sono reso conto che quelle persone volevano vivere più di quanto lo vogliano molte altre. E volevano vivere perché erano sostenute da una passione; e quella passione si era eretta come una dea salvatrice contro i fantasmi della morte. Ma da uomo di raziocinio sono anche convinto che non ci si salvi da soli; a volte dipende dalla tempestività con la quale si interviene, altre volte dalla fortuna e molto spesso dipende anche da me, dalla mia capacità di estirpare quel che si deve e di ricucire con maestria.
Ci sono corpi che invece parlano di paura. Sono corpi attraversati da movimenti sussultori impercettibili, ma costanti. Così attenti ai miei gesti che sembra abbiano occhi interni capaci di seguirmi, di valutare l’esattezza dell’incisione e la pressione dei polpastrelli. Questi corpi si muovono nervosi tra le mie mani, incerti se continuare a resistermi o abbandonarsi all’inevitabile intrusione delle mani.
Mi sono chiesto spesso che cosa sognino i pazienti sotto l’effetto dell’anestesia. A volte osservo le loro palpebre attraversate da piccole onde nervose e mi chiedo quali immagini stiano inseguendo mentre io manipolo le loro viscere, attento a intervenire con precisione millimetrica. Mi sono chiesto se percepiscono la fragilità dei loro corpi aperti come una finestra su un mondo sterile e ovattato. 
Tuttavia, il potere di influire sulle vite degli altri non mi rende particolarmente orgoglioso o sicuro di me. Non sono un uomo coraggioso. Non lo sono affatto. Non sono neanche sicuro che il coraggio sia una virtù e, comunque, se lo è non mi appartiene. Ho sempre lottato contro la paura e non ho mai iniziato un intervento che non sia stato preceduto da una crisi d’ansia. Prima di andare in sala operatoria sento le vertebre della spina dorsale che si tendono e si contraggono ripetutamente; a volte mi sembra che la pelle si increspi come se fosse stata sottoposta a un lavaggio sbagliato. Sento che le braccia si irrigidiscono e guardo le nocche delle mie mani per assicurarmi che non tremino e che non vogliano sottrarsi al loro compito. Poi torno vigile, entro in sala operatoria, mi avvicino al paziente e lo osservo nel cono di luce della lampada; osservo il volto della persona prima di conoscerne il corpo. Osservo le pieghe della sua pelle, i sussulti involontari delle ciglia, la linea delle labbra. Quando sono pronto mi passano il bisturi e incido con mani ferme, seguendo un protocollo ben preciso stampato nella mia mente. Come i motociclisti che prima di una gara ripassano a occhi chiusi la pista e memorizzano ogni singola curva, così io seguo un percorso preciso e definito che prevede una sequenza di mosse e un tempo stabilito per ogni mossa. Tutto avviene sotto la guida luminosa della lampada che, come un piccolo sole, intercetta il male che si annida tra le pieghe della carne, lo scova tra gli anfratti e lo consegna al tocco delle mie mani che afferrano, tagliano, estirpano, suturano. Penso che un chirurgo abbia un’anima dotata di occhi con i quali intercettare anomalie e difformità, perché non tutti i corpi sono uguali e non tutte le cavità palpitano allo stesso modo. Penso che non siamo puri esecutori e che dobbiamo sempre osservare con attenzione la vita che vive al buio perché talvolta può rivelarci segreti inaspettati. In certi momenti mi sembra di cogliere sui volti dei pazienti addormentati un piccolo sorriso di soddisfazione o una smorfia di sollievo, come se percepissero di essere stati liberati dal rischio di una pericolosa aggressione. Ma forse è solo la mia fantasia.
Il mio cercapersone gracchia e la voce dell’infermiera mi informa che c’è un’emergenza: maschio, tra i quindici e i diciotto anni, politraumatizzato, vittima di un incidente di moto. Rilevati trauma commotivo e trauma toracico. Chiamo per allertare la mia equipe, chiedo di preparare la sala operatoria e di avviare tutte le procedure di sterilizzazione. Il paziente è in stato di shock emorragico, è incosciente, le pareti addominali appaiono ipercontratte e l’addome disteso per l’accumulo di sangue. Non c’è tempo da perdere, anche le mie crisi d’ansia possono aspettare.
Mi avvicino al tavolo operatorio mentre impercettibili brividi fanno a gara per accavallarsi lungo la spina dorsale. Per un attimo temo che le braccia si paralizzino, sento qualcosa di duro che mi attraversa la schiena e si ferma proprio sotto le clavicole, la pelle formicola e d’un tratto sembra bruciare di fiamma viva. So che è solo paura. Paura di non farcela, lo so bene, ma è ugualmente terrorizzante. Tengo gli occhi bassi come se stessi cercando una qualche ispirazione all’azione, mentre sto solo aspettando di regolarizzare il battito del cuore. Non morirò, lo so, ma sarò in grado di guidare le mie mani?
Entro nel cono di luce della lampada e guardo il ragazzino disteso sul tavolo. Ha il volto esangue, tumefatto, incorniciato da una corona di riccioli scomposti e rappresi di sangue. Lo guardo con tenerezza, mi hanno detto che si chiama Lorenzo. Mi aggrappo a un pensiero, che per Lorenzo oggi non sia il giorno giusto per morire.
La luce della lampada ci avvolge in un unico abbraccio. Il suo corpo devastato, il volto giovane, i brividi che si sono congelati lungo la schiena, le mie mani ora ferme… Incido il quadrante superiore sinistro dell’addome e sono dentro di lui, appena sotto il diaframma, dove la milza ha subìto un trauma violento. Le mani scorrono nella carne e sento le sue fibre lottare con tutta la forza che la voglia di vivere sa trasmettere a un corpo. Questo ragazzino sta combattendo la sua battaglia ed io sto combattendo la mia. Siamo io e lui, e il tempo che ci è nemico. Sento i suoi muscoli, i nervi, tutte le sue fibre che mi incalzano, mi spingono, mi incoraggiano ad agire, ad osare, a fare presto. Non ho mai visto nessuno combattere per la vita come questo ragazzino che lotta per diventare un uomo.
Nella sala operatoria nessuno parla, nessuno ha voglia di scherzare in situazioni come questa, gli unici rumori che si avvertono sono quelli degli strumenti che passano tra le mie mani e che sembrano trasformarsi in bacchette magiche sotto il sole della lampada. Uso le bacchette magiche senza risparmiare le mie energie e quelle dell’equipe che mi sostiene; lavoriamo da ore ma il ragazzino non è ancora stabilizzato, non possiamo ancora essere certi che vivrà. Sento le braccia indolenzite, le spalle rigide ma non voglio mollare, non ora. Mi sembra di aver attraversato insieme a Lorenzo il tunnel della morte carponi, sotto la luce incessante della lampada che ci ha fatto da stella cometa. Abbiamo lottato insieme mescolando i nostri respiri, i sogni, le speranze. In queste ore ho osservato con attenzione il volto del ragazzino e l’ho visto trasformarsi, cedere all’abbandono e alla fiducia: la pelle raggrinzita intorno agli occhi si è distesa, la bocca contratta ha riacquistato la sua forma piena. Sono molto stanco. Chiudo. Suturo.Risano. Ho fatto tutto quello che era possibile fare perché questo ragazzino mi ha passato il suo coraggio: il suo corpo mi ha urlato che voleva vivere, senza se senza ma e senza forse.
L’applauso dell’equipe mi riporta alla realtà. Mi guardo intorno stranito, come se uscissi da un sogno, un sogno lungo un intervento. Il paziente è stato stabilizzato, Lorenzo è vivo.

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