Ho una mutazione genetica. Mia sorella Francesca dice che sono come gli X men, io dico che lei è completamente fuori. I miei geni mutano e, quando succede, si trasformano in qualcosa di brutto. Quando l’ho scoperto avevo sette anni e stavo giocando a pallone, stavo per tirare in porta e segnare quando il mio avversario mi ha colpito al polpaccio sinistro. Il dolore non passava e così mamma e papà mi portarono dall’ortopedico e lui, tastandomi, fece una faccia strana e mi spedì al Rizzoli di Bologna. Mi diagnosticarono così la “Sindrome di Li Fraumeni”; e questo vuol dire che finché non si ammala una parte del mio corpo posso fare tutto. Se succede, invece, mi devono operare, devo fare la terapia e aspettare di stare di nuovo bene.
Francesca dice che sta rileggendo tutti i fumetti per cercare di capire che potere ho. A volte mi fa paura perché penso che ci crede davvero e che le fa male leggerli.
Domani devo partire per Milano perché devo operarmi di nuovo. Mamma e papà dormono da un pezzo, io fisso le costellazione che Francesca mi ha regalato e attaccato sul soffitto. Ripasso a bassa voce tutti i nomi e penso che anche loro cambiano posizione come i miei geni e penso che mi piacerebbe andare nello spazio.
Quando bussa alla porta penso che sia venuta a salutarmi, a dirmi in bocca al lupo, e invece no.
«Andiamo a farci un giro» dice.
«Ma io non posso uscire, se mi ammalo non mi operano.»
«È estate. Ti copri con una sciarpa e una felpa, prendiamo la vespa.»
«Ma io non sono autorizzato a venire in vespa con te.»
«Queste sono le fissazioni di mamma che è troppo ansiosa.»
«Ma io non posso uscire la sera.»
«Senti facciamo solo un giretto, vuoi capire o no che potere hai?»
«Francesca, io non ho nessun potere.»
«Senti, io dico di sì. Possiamo almeno provare?»
«Va bene.»
È inutile contraddire Francesca, tanto non ascolta e fa sempre quello che dice lei. Lo dice sempre anche la mamma quando litigano. Così mi alzo, mi infilo gli occhiali e vado a prendere la mia felpa rossa con gli Xmen, quella che mi ha regalato per il mio compleanno, “calza poco, perciò ti ho preso la misura 14 anni”. In realtà è enorme, sono magro e ci scompaio dentro, ma mi piace da matti e la metto sempre.
Francesca aspetta che io mi vesto, seduta sul bordo del mio letto, canticchiando una canzone dei R.E.M. che parla di un uomo sulla luna.
«Bella felpa» mi dice sorridendo. «E ora andiamo. Scusa cosa stai facendo?»
«Sto scrivendo un biglietto perché se mamma e papà si svegliano e non ci trovano gli prende un colpo.»
«Andiamo e smettila con quel biglietto.»
Dice così, ma mi fa finire di scrivere. Poi usciamo facendo attenzione a non sbattere la porta e ci precipitiamo giù in strada. Francesca mi allaccia il casco con cura, poi si infila il suo cercando di farci entrare dentro tutti i capelli e parte rischiando di mettere sotto un gatto che si era addormentato accanto alla ruota.
«Allora? Senti che aria fresca che tira? Niente di meglio di un giro per Rometta d’estate.»
«Dove stiamo andando?»
«Da Sora Rosa a Lungotevere a prendere una grattachecca, così vediamo se riesci a sciogliere il ghiaccio.»
Lei canta Shiny happy people, io invece non parlo, mi guardo intorno e basta. Non sono uno che esce spesso e certo non a quest’ora di notte. Percorriamo la stessa strada del tram 8 e io guardo dentro i vagoni per osservare le persone e non mi rendo nemmeno conto che siamo già arrivati a un chiosco verde che si trova proprio di fronte al fiume.
«Su, scendi pigrone. E dimmi senza pensarci a che gusto vuoi la tua prima grattachecca.»
«Limone e fragola.»
Si avvia fischiettando a fare la fila, lasciandomi il suo casco. La osservo mentre ordina le nostre granite. Torna verso di me dopo una decina di minuti sorridendomi.
«E ora prova a scioglierla con gli occhi» dice prima che io metta il cucchiaino in bocca.
«Fra è una cosa stupida.»
«E tu falla lo stesso.»
«Niente, non ci riesco» dico fissandola «però è buonissima, le scagliette di ghiaccio si sciolgono sulla lingua. Fra?»
«Sì? Anche io sto mangiando la mia granita.»
«Daresti due euro a quel vecchietto in fila?»
«Scusa?»
«Quello con la camicia verde con le maniche corte.»
«Ma perché gli devo dare due euro?»
«Perché vuole comprarsi la granita, ma mi sa che non sa se ce la fa.»
«E tu come lo sai?»
«Beh, si tocca sempre la tasca sinistra. Non ha il coraggio di tirare fuori le monete davanti a tutti, si vergogna.»
«E che faccio, vado lì e gli dico “Senta posso offrirle una granita?”.»
«Ma no scema, vai lì e gli dici che gli sono caduti prima dalla tasca.»
«Ovviamente devo andare io?»
«Ovvio.»
Francesca si avvia, lo sapevo che alla fine mi avrebbe accontentato. È questo il vantaggio di avere una sorella come lei, le cose strane le sembrano quasi normali. La osservo andare di nuovo verso la fila, ma dalla vespa non vedo granché, chissà se ci riesce.»
«Fatto.»
«E?»
«E mi sa che avevi ragione tu perché era tutto contento e non sapeva che dire. E ora mi farai finire la mia granita, spero.»
«Poi torniamo a casa?»
«Scherzi? Il giro è appena cominciato, appena finisco metti il casco e monta su.»
Finita la sua grattachecca, sale sulla vespa.
«Allacciati bene il casco che poi parto.»
«Dove andiamo?»
«Direzione Gianicolo.»
«Ma è lontano da qui?»
«Ma di cosa ti preoccupi? Tanto ci pensa la vespa a portaci. E comunque no, siamo a Lungotevere e da qui è un attimo.»
«D’accordo, però vai piano.»
Ma tanto lo so che non lo farà, le piace accelerare quando uno meno se lo aspetta, non tanto, solo un pochino per divertirsi. Mentre andiamo in giro continuo a guardarmi attorno. La gente d’estate sembra più contenta, forse perché il caldo riscalda anche dentro. Sarà così, questo caldo, che ti si appiccica addosso, poi entra dentro e scioglie quei ghiaccioli che abbiamo lasciato crescere durante l’inverno. Anche io ho tanti ghiaccioli dentro, ma non si sciolgono mai.
«Dai, scendi che siamo arrivati. Eccoti il Gianicolo; di là c’è il cannone, scendendo a destra c’è la quercia del Tasso, un poeta triste.»
«Tutti i poeti sono tristi, come quei due lì che mi sa che hanno appena litigato.»
«E tu che ne sai?»
«Beh si vede dalle facce, mi sa pure che è lui che ha cominciato.»
«Allora adesso smetti di guardarli e preparati. Risali sulla vespa, prendi questa e legati a me.»
«Una cintura, per fare cosa?»
«Fallo e basta. Li vogliamo verificare questi poteri oppure no?»
«Mah, va bene. Ecco l’ho stretta bene a te.»
«Adesso ci facciamo tutta la discesa e tu alzi le braccia mentre la facciamo.»
«Scherzi? E se cado?»
«Ma che cadi. Andrò pianissimo e poi così vediamo se hai qualche potere.»
«Ma tu sei matta, io non ho nessun potere.»
«Senti, mica ti ho chiesto di buttarti giù dal muretto del Gianicolo, ti ho solo detto di alzare le braccia.»
«Va bene.»
«Pronto? Via.»
Ho una paura incredibile, però lo faccio. Non voglio sembrare un fifone. Ecco le ho alzate. Ora Francesca sta accelerando un po’, di nuovo. Sì, sto proprio volando, se chiudo gli occhi è così.
«E ora urla qualcosa.»
«No.»
«Fifone cagasotto.»
Comincio a urlare il mio nome, sempre tenendo le braccia alzate e gli occhi chiusi. Poi sento un rumore: mi sa che il caldo e la velocità hanno sciolto uno dei miei ghiaccioli. Quando riapro gli occhi siamo arrivati a Monteverde Vecchio. E tra le mura e l’ingresso di Villa Sciarra mi accorgo che c’è un bar.
«Questo è lo “zozzo”» dice Francesca sorridendo. Scende dalla vespa ancora con il casco in testa, entra di corsa e poi riesce con due brioches piene di panna.
«Reggile finché non arriviamo, senza far cadere la panna e senza mangiarla, per favore.»
Vorrei infilarci un dito dentro, ma resisto; gli dò soltanto una leccatina. Francesca sta tornando verso casa, questa strada la conosco perché è quella che da Viale dei Quattro Venti dove abitavano i nonni e che porta a casa nostra. Invece all’ultimo momento gira per via del Casaletto e mi trovo di fronte alla nostra vecchia scuola.
«Ma questa è la nostra vecchia scuola!» dico, mentre parcheggia il suo bolide.
«Esatto! Ora fai piano, lascio la vespa qui, passiamo da dietro e andiamo alla casetta accanto alla scuola materna; lì ci sono delle scalette, le facciamo tutte e arriviamo alla terrazza.»
«E tu che ne sai che lì c’è una terrazza?»
«Lo so e basta. Muoviti e stai zitto.»
La seguo senza dire una parola, faccio attenzione a salire i gradini e, visto che sono tanti, decido di contarli, perché se conti le cose poi puoi metterle in ordine e se le metti in ordine non ti possono schiacciare.
«Caspita, si vede tutto il quartiere. E pure il nostro palazzo! Non è quel puntino marroncino dietro gli alberi?»
«Esatto. E ora tira fuori le brioches che io ho preso anche il latte al cioccolato.»
«Che bello.»
Mangio la mia brioches e ogni tanto bevo un sorso di latte al cioccolato. Credo che una colazione così buona non la facevo da un sacco di tempo.»
«Ci stiamo anticipando sulla colazione, così domattina prima di partire non dovrai rifarla. Ci stiamo avvantaggiando, capito?» Lo dice ridendo Francesca e fa ridere anche me, perché è una cosa senza senso e lo sa pure lei.
«Visto che non ho nessun potere?»
«Nessuno? Scherzi? Tu sei un telepate come il professore X, vedi nella mente degli altri. Forse non puoi controllarle, ma sicuramente puoi vederle. E ti sembra poco? Certo avrei preferito che tu potessi sciogliere il ghiaccio oppure volare, però non è mica male il tuo potere. E ora che lo abbiamo, dobbiamo trovarti un nome. Vediamo… Caliban, Colossus, Ciclope, Magneto, Fenice. Trovato! Tiresia, come l’indovino. Così poi facciamo il diminutivo “Tir” che suona anche bene, che dici?»
«Mi piace.» La guardo ed è tutta soddisfatta, però ora glielo dico lo stesso. «Fra?»
«Che c’è Tir?»
«Non voglio che spendi i soldi che stai mettendo da parte da una anno per andare a sentire i R.E.M. a Bologna l’11 luglio per venire a Milano a farmi una sorpresa, tanto ci sono già mamma e papà e io ti posso chiamare appena mi riprendo» le dico senza respirare.
«Ma come cavolo hai fatto.»
«L’hai appena detto tu che sono Tiresia. Voglio che vai al concerto e che ti fai fare un autografo da Michel Stripes e che mi porti una maglietta, così appena torno me la metto e sembro fico anche io.»
«Tu sei più fico di Michael Stipe.»