Nano e Capoccione

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Illustrazione di Agrin Amedì
L’inverno e un pezzo di primavera erano passati così, senza vedere una goccia d’acqua e questa cosa a Marcolino proprio non andava giù. Trovava sempre una maniera per tirarla fuori in mezzo a qualche discussione tra di noi, quando alla fine del lavoro ce ne andavamo in giro per la borgata.

L’inverno e un pezzo di primavera erano passati così, senza vedere una goccia d’acqua e questa cosa a Marcolino proprio non andava giù. Trovava sempre una maniera per tirarla fuori in mezzo a qualche discussione tra di noi, quando alla fine del lavoro ce ne andavamo in giro per la borgata. Indicava i fossi secchi, le aiuole marroni delle case popolari, i campi incolti dove s’alzava la polvere a ogni filo di vento, le ringhiere dei balconi sporche; e s’infervorava, mulinando le braccia e imprecando al cielo. Quando gli chiedevo cosa ci trovasse di bello nella pioggia faceva un sorriso e rispondeva così: «Che ti devo dire, Fabiè? Forse perché le persone si affrettano ad andarsene a casa, le strade si puliscono e nessuno mi rompe i coglioni». Poi mi dava una pacca sulle spalle con quelle manone giganti che c’aveva e ci mettevamo seduti su una panchina a berci una birra o fumare una sigaretta, o tutt’e due le cose. Ma ultimamente era cambiato, lo vedevo sfuggente, rabbioso, e aveva iniziato a frequentare certi ragazzi che non avevano niente a che fare con lui, con noi, con quelli della piazzetta sotto il condominio. Ce l’aveva col mondo, e questo della pioggia poteva essere un pretesto per qualcosa che lo irrancidiva nel profondo facendogli ribollire quello che già covava dentro. Ma non era cattivo, anzi, non sapeva proprio fare del male alle persone. Per me Marcolino era una certezza, e così io per lui, e stavamo insieme tutti i giorni.
Prima le elementari, poi le medie, sempre nello stesso banco. Ma io rimanevo piccolo, magro, che il vento mi faceva volare via; la pelle bianca, le braccia ossute e delicate. Lui invece cresceva alto come il grano a primavera, gli venivano i peli della barba, le mani grandi, puzzava già da adolescente. In faccia però la simmetria non gli era riuscita bene: aveva un taglio d’occhi irregolare, una bocca piena di denti storti, orecchie piccole e una testa grossa – pure questa fatta male, quasi come una caricatura, quasi come se qualcuno si fosse ostinato a concentrare su di lui imperfezioni e sbagli di natura –. Insomma, Marcolino era brutto e nessuno voleva stargli vicino di banco. Così lo feci io, fin dall’inizio, e diventammo amici per sempre. Nel quartiere eravamo Nano e Capoccione, ma era scontato che nessuno s’azzardava a chiamarlo così. E quando lui non c’era, io ero Nano ma non appena all’orizzonte appariva la testa sgraziata e la mole massiccia di Marcolino, ritornavo Fabietto. Non volevo la sua protezione, pensavo di potercela fare da solo, ma lui era fatto così, era la sua maniera per dirmi che contavo, che mi voleva bene, che non si dimenticava di chi quel giorno aveva alzato quella mano pallida per dire alla maestra: sì, ci sto io vicino a Marcolino brutto, pure se non ci vuole stare nessuno, pure se sembra che abbia la peste.
Le scuole medie finirono in un attimo, e cominciammo subito a lavorare, visto che le nostre famiglie erano proprio modeste e servivano soldi in casa, specie in quella di Marcolino dove il padre se ne era andato quando lui aveva appena due anni. Io ero destinato all’officina di papà. Marcolino trovò un posto in uno sfasciacarrozze sulla Palmiro Togliatti. Per me fu un dramma: ci andavo malvolentieri; mi dava fastidio sporcarmi le mani di grasso, ferirmi le nocche svitando dadi e bulloni, annusare il puzzo della benzina. Avrei voluto lavorare dentro quel grattacielo dell’Eur, quello che si affacciava sul laghetto, con quelle luci sempre accese che vedevo la domenica sera passando con la macchina quando andavamo alle giostre con tutta la famiglia. Marcolino, invece, era felicissimo. Lo sfascio delle macchine era il suo regno. In poco tempo aveva riorganizzato tutto, dividendo i pezzi di ricambio meccanici da quelli per le carrozzerie, le marche italiane da quelle straniere, persino le annate e i modelli avevano un posto separato e in ordine. Quando mi serviva un carburatore usato, un semiasse, un giunto cardanico o la macchinetta alzacristalli papà mi spediva da Marcolino. Io arrivavo e lui, appena mi vedeva, strillava «Nano!», e buttava tutto quello che aveva in mano per venire a salutarmi. Poi, per farmi le feste, mi sollevava in aria manco fossi un bambinetto e mi guidava in un labirinto di sportelli arrugginiti, parabrezza, marmitte, semiassi, pistoni di motore, batterie e fanali. E si metteva a smontare il ricambio, mentre io lo guardavo affascinato. Brandiva chiavi spaccate e tenaglie, cric e piedi di porco, martelli, cacciaviti e se una lamiera lo feriva non se ne curava. Cacciava una bestemmia, sputava sul sangue che colava rosso sulle mani sporche di olio del cambio e grasso di scatola dello sterzo, poi faceva un giro di nastro isolante nero sul taglio e riprendeva a lavorare come se non fosse successo niente. Io, che svenivo quando appena mi spezzavo un’unghia, rimanevo a bocca aperta. 
Spesso la domenica andavo a pranzo a casa sua, che stava a cento metri dalla mia. C’era la madre, la signora Anna, che mi faceva le stesse feste del figlio quando andavo a trovarlo sul lavoro. Si capiva subito che la giovialità e le dimostrazioni di affetto Marcolino le aveva prese da lei. Non la testa e le altre brutture della faccia, visto che la signora Anna era minuta, dalle fattezze delicate e viso da cerbiatta. Mi dava un sacco di bacetti, mi prendeva le mani, mi diceva che era così contenta che Marcolino uscisse con un bravo ragazzo come me, e sentivo sempre nel suo alito un sentore dolciastro di vino bianco che beveva da un bicchiere tenuto pieno dentro l’acquaio, visto che si vergognava a farsi vedere. Ma io sentivo il rumore del vetro contro il coccio sbrecciato del lavandino mentre in cucina mangiavamo le penne all’arrabbiata, e certe volte l’abbacchio alla romana coi carciofi. Eppure, anche così, era un tempo felice, pieno di cose da fare, e noi due insieme potevamo sfidare il mondo, potevamo camminare per la città senza sentire la fatica dei nostri passi, senza girarci per vedere se qualcuno ci seguiva per prenderci per il culo, per ricordarci che eravamo solamente Nano e Capoccione.
Poi, quell’autunno, venne l’ultima giornata di pioggia prima che si chiudessero i rubinetti del cielo, e ce ne stavamo alla bisca a giocare al biliardo. Marcolino mi disse che si era rotto il cazzo, che voleva uscire un po’ su in strada a respirare aria pulita, visto che là dentro c’era tutto un velo grigio di fumo di sigaretta, tosse da catarro e confusione. Mi prese da parte e ci sedemmo al muretto sotto il portico del bar. Il marmo era bagnato e viscido, ma non ci facemmo caso. Io lo vedevo strano, ultimamente allo sfascio non sempre lo avevo trovato e mi era parso anche di scorgerlo pigiato stretto nelle 127 o le Golf insieme a certi tossici, ragazzi grandi del Quadraro o dell’Alessandrino. Li vedevo allontanarsi su una stradina bianca, sterrata, verso un casolare appena dietro l’officina di mio padre. Sapevo che era un posto per bucarsi, per andare con le puttane, e non capivo che c’entrava Marcolino con quelle cose là. O forse lo capivo, ma non avevo il coraggio di parlarci, di vedere cosa c’era per davvero dentro quella testa strana. Si accese una sigaretta e poi mi disse: «Fabiè, so’ un po’ stanco. Tu lo sai, a me questa storia di Capoccione non è che me ne è mai importato tanto».
Io lo guardavo timoroso, senza rispondere. Dove voleva andare a parare?
«Cioè, lo so che me chiamano tutti così, dietro. Come a Nano. Anzi, a te lo dicono pure in faccia.»
Sorrise, in una chiostra di denti accavallati. Io continuavo a fare scena muta.
«Però sai che te dico, adesso me so’ rotto. Mi piace Margherita, la figlia dell’idraulico. La conosci no?»
Risposi di sì, certo, chi non la conosceva. Era la ragazza più carina di Centocelle.
«Beh, l’altro giorno la volevo invitare a mangiare una pizza, lei stava con delle amiche proprio qui sotto. Così mi sono avvicinato, ma ho visto che iniziavano a ridere. E allora ho fatto finta di salutare e me sono andato, Fabiè. Mi sono rotto. Mi sono rotto le palle di farmi prendere in giro. Anche se non hanno coraggio di farmelo davanti. Mi sono rotto!»
Ci fu una pausa, lunga, mentre la pioggia cadeva piano fuori dai portici nascondendo i rumori della città, delle macchine, degli autobus, della gente che scappava di fretta sotto l’acqua. Marcolino, fumando nervoso, s’era messo sotto un’insegna al neon della pubblicità del bar e in faccia gli sbattevano certe luci rosse, verdi, blu, colorandogli il volto con geometrie ancora più bizzarre.
«Che vuoi dire, Marcolì? Non ti capisco.»
Uscì dal cono del neon, mi guardò serio, con quegli occhietti scomposti, scrollando la testa irregolare. Poi mi prese la faccia tra le mani enormi, coprendomi le orecchie, e quasi non sentii quando aggiunse: «Ma niente Fabiè, niente. Era così, per dire. Guarda che bella pioggia che viene. Prendiamoci una birra Nanetto, offro io». 
E così arrivarono giornate d’inverno tutte uguali, secche e calcinate, dove a terra ristagnavano gli scarichi delle automobili, le cartacce non volavano contro il cielo piatto, le foglie non cadevano dagli alberi e l’Aniene s’era abbassato così tanto che vedevo affiorare le carcasse delle auto rubate e buttate nelle marane. E la primavera era cominciata avara e arida allo stesso modo. Quella mattina d’aprile, però, m’ero svegliato che sentivo l’aria diversa. Già dall’alba il cielo s’era innervosito e fatto grigio, rancoroso, e me ne stavo a guardarlo fuori dall’officina mangiando un panino col salame quando arrivò la signora Anna. Aveva le spalle curve più del solito, camminava con i piedi che sembravano macigni ma mi sorrise lo stesso, pure se si capiva che non ne aveva voglia.
«Ciao Fabietto. Come stai?»
«Buongiorno signora Anna. Sempre le solite cose. Marcolino? Che dice?»
Le si velarono gli occhi.
«Marcolino» ripeté la signora Anna.
«Ieri sera non è tornato a casa. Fabiè, me lo vai a cercare? Tu lo sai quello che fa, conosci i suoi giri. Ti prego. Ti prego, Fabiè, non so più che pensare. Non ci posso andare ai Carabinieri. Ho paura per lui, mi sa che sta in qualche casino. Me lo trovi tu, Fabiè? Eh?»
Mi si era avvicinata, mi aveva fatto una carezza e sentivo quell’odore dolciastro di vino, ma stavolta mi faceva paura, mi metteva disperazione.
Da dietro sentii la voce di mio padre. «Vai pure, qui posso fare da solo stamattina. Aiuta la signora Anna, vai.»
Dissi alla madre di Marcolino che avrei fatto un giro, che lei se ne poteva ritornare a casa, ci pensavo io. Così, la vidi allontanarsi ancora più curva di come era venuta, rimpicciolirsi metro dopo metro, perdere peso e consistenza lungo la strada. Mi incamminai a piedi nella direzione opposta. C’era un solo posto dopo potevo cercare, e stava lì nei pressi. Ci misi un quarto d’ora, camminando sulla strada bianca e impolverandomi le scarpe tra pezzi di prati bruciati, alberi scheletrici, calcinacci, lavatrici e televisori sfondati, buste dell’immondizia lacerate, copertoni di automobili. E quando arrivai sotto al casolare, prima di aggirare il filo spinato, sentii lassù in alto come un’idea, un abbozzo di tuono che aveva sporcato il silenzio che s’era fatto tutto intorno. Alzai gli occhi al cielo, più vivo adesso, poi scavalcai proprio mentre un secondo tuono si era fatto sentire. Il casolare era un edificio a un piano, decrepito, col tetto, finestre, porte, tutto sfondato. Una scala portava al piano superiore dove due stanze occupavano l’intera pianta della casa e la scala le divideva in due, formando un pianerottolo. Salii in un odore di muffa, escrementi, birra rancida. Sul pianerottolo entrai nella stanza di sinistra. Era vuota, fatta eccezione per qualche brandina lurida, pezzi di trave, tegole, residui di qualche fuoco. Siringhe e preservativi sparsi dappertutto. Frasi e disegni osceni alle pareti. La finestra senza imposte che gettava luce, troppa luce, su quella desolazione. Volevo andarmene, mi sentivo male, c’era un’aria spessa come di risentimento rappreso là dentro. Poi di nuovo un tuono, più convinto, che stavolta fece vibrare leggermente uno stipite sconnesso. Tornai sul pianerottolo per entrare nella stanza di destra. Anche questa era vuota, ma sembrava meno devastata dell’altra. C’era un divano senza gambe con le molle di fuori addossato alla parete, e me ne stavo per andare quando notai che il divano non era proprio addosso al muro, ma spostato. E non volevo andare verso il divano, però le gambe mi ci portarono e non volevo guardare dietro il divano ma gli occhi rimasero aperti e non pensavo fosse Marcolino quello, però era lui. Marcolino detto Capoccione stava seduto a terra, con le spalle alla parete scrostata, gli occhi aperti, ormai opachi. Conficcata in un braccio la siringa, il sangue secco che non colava più dal buco. Portava pantaloni chiari e una chiazza di orina gli si era formata al cavallo, scurendogli una coscia. Marcolino con la bocca aperta, i lineamenti distesi dalla morte che quasi gli addolcivano quel testone, quegli occhi obliqui. Lo volevo accarezzare, gli volevo dire Marcolì che cazzo hai fatto, ma guardati qui in mezzo a questo schifo, e invece scappai giù per le scale mentre un altro tuono, proprio sopra di me adesso, scuoteva le fondamenta del casolare, facendo tremare i muri. E cominciai a correre forte, forte, strappandomi tuta da lavoro e pelle sul filo spinato, con le gambe che pestavano lo sterrato, nelle orecchie i tuoni, sempre più ravvicinati, sempre più potenti, mentre dentro il naso a forza si infilava l’odore elettrico del temporale. E pensavo fosse il sudore che mi incollava i capelli alla fronte e invece erano le prime gocce che cadevano dal cielo e quando arrivai sotto casa di Marcolino ero zuppo e la madre stava là, alla finestra che mi aspettava e aveva già capito tutto. Scese giù e mi trovò che stavo con le braccia distese lungo il corpo, i pugni serrati e facevo no con la testa così lei mi prese le mani, poi mi batté i pugni sul petto e scivolò per terra, coprendosi il volto, coi vestiti già fradici di lacrime e di pioggia. E la pioggia adesso veniva giù con rabbia, con violenza, come se tutta quell’acqua si fosse raccolta in quei lunghi mesi in un gigantesco serbatoio su nel cielo e qualcuno lo avesse squarciato con forza, e dai tetti e le grondaie scendevano fiumi a inondare la piazzetta, a formare rivoli fangosi, a intasare tombini, a creare pozzanghere dove si sarebbero riflesse le facce dei ragazzini, della gente. E io non sapevo cosa fare così immaginai che non era successo niente, che Marcolino era lì vicino a me e ce ne stavamo sotto ai portici mentre pioveva forte, e lui contento avrebbe detto che finalmente i gatti e i cani randagi si potevano dissetare agli scoli, che la sporcizia sull’asfalto se ne andava via, che sarebbe cresciuta l’erba alta coprendo i motorini arrugginiti abbandonati in mezzo ai prati, le lamiere, i cocci di bottiglia, tutto quello che non ci piaceva e sporcava l’anima e avrebbe detto, sì sono sicuro l’avrebbe detto, che forse poteva ancora arrivare un tempo buono per tutti, anche per noi, anche per Nano e Capoccione.

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