Data

Illustrazione di Agrin Amedì
La mia strada sembrava segnata, dovevo vivere solo e ogni tanto ricominciare. Tutto per lavoro. Iniziava con una semplice telefonata e un numero. Il numero corrispondeva a una cassetta postale in uno dei vari uffici della città. Erano tanti e il numero cambiava di volta in volta.

La mia strada sembrava segnata, dovevo vivere solo e ogni tanto ricominciare. Tutto per lavoro. Iniziava con una semplice telefonata e un numero. Il numero corrispondeva a una cassetta postale in uno dei vari uffici della città. Erano tanti e il numero cambiava di volta in volta.
Dieci anni duri, stavo pensando seriamente di smettere. Un lavoro di attesa, coperture da costruire, appartamenti da affittare per pochi mesi, ancor meglio una camera d’albergo magari di infimo livello, di quelli che non ti fanno troppe domande e non memorizzano la tua faccia. Tanto il nome sul documento è fasullo. Barbie, come simpaticamente chiamavo la mia pistola automatica, sempre con me infilata nella cinta dei pantaloni, ben a contatto col corpo. Nascosta alla vista della gente comune che non ama prendere il caffè al bar vicino a un uomo armato.
Anch’io ero stato un bersaglio quattro anni prima. Mi hanno mancato, gente alle prime armi. Alla fine mi è toccato morire, con tanto di funerale. Cambio di identità, qualche ritocchino all’aspetto. Uscire dal giro dalla porta per poi rientrare dalla finestra. Uno stress. Avevo accumulato soldi per campare più che dignitosamente, magari in un altro continente. Quello poteva essere il mio ultimo lavoro, poi il mio Ken, un fucile ad alta precisione calibro 7,65 sarebbe finito smontato a pezzi giù dai ponti del Danubio, con tanto di cannocchiale a infrarossi. Anzi no, quello lo avrei tenuto insieme alla mia Barbie.
Al telefono mi era stato anticipato di un’offerta allettante, il cliente pagava molto bene. Ci doveva tenere all’obiettivo, altro che. Non ero certo tenuto a sapere chi fosse, neanche la mia identità doveva essere nota. L’agenzia su questo garantiva massima discrezione.
Apro la cassetta numero nove e raccolgo il pacco con naturalezza, senza destare sospetti. Non mi guardo attorno, l’ho già fatto entrando, come sempre.
Nell’appartamento affittato con un nome che si fa fatica a ricordare apro l’involucro. La prima pagina del dossier è la ricevuta di un bonifico da mezzo milione, già versato su uno dei miei conti cifrati. Pagato in anticipo, un altro mezzo a lavoro ultimato. Immagino non sarà un incarico comodo.
Sfoglio il dossier e capisco perché l’agenzia mi fa pagare così bene. Si tratta di una donna. Lo sanno che non sparo alle donne. Che fare? Quanto vale una deroga ai miei principi, se così si può chiamarli? Almeno il doppio.
Due giorni e arriva un altro bonifico da mezzo milione. Un secondo milione a lavoro concluso. È la prima volta che tiro sul prezzo, non si fa mai, si rischia di perdere il lavoro. A ogni modo, affare fatto. Tanto poi mi ritiro. È deciso. Sparire per sempre vale proprio due milioni.
A quarant’anni avrei avuto la possibilità e il tempo necessari per ricominciare una nuova vita, matrimonio, figli e tutto il resto. Magari in Australia.
Lei abita in una zona esclusiva della città, vive con la scorta e si muove sempre in posti prestabiliti. Insomma, non gira a fare shopping o a prendersi un cappuccino in piazza. Non sembra avere amici o degli hobbies.
Affitto una camera in un bed and breakfast a duecento metri dall’uscita del residence dove vive, sull’altro lato della piazza. Terzo piano, campo sgombero, un colpo di culo. Alla reception mi faccio dare una mappa del centro città e parlo con accento francese. Mi è sempre venuta bene la bocca a culo di gallina.
Al mattino, dietro una tenda, scruto attraverso il cannocchiale di Ken. Esce dalla villa intorno alle otto, per mano due bambini. Accompagna i figli a scuola. Salgono in una macchina nera, probabilmente blindata. Sui sedili davanti due uomini, uno le ha aperto la portiera guardandosi attorno.
Altro scrupolo di coscienza. Come si fa a sparare a una madre nell’atto di portare i figli a scuola e proprio davanti a loro? Un bel problema. Ma ormai il lavoro è stato preso e bisogna portarlo a termine. Tanto è l’ultimo.
Rimango in attesa. Non torna a casa. Quando si rifà viva porta i bambini dentro al portone per mano. Poi non esce più. Fingersi un fattorino e risolvere la questione con arma corta silenziata? Non sarebbe di certo stata lei ad aprire.
Bisogna avere pazienza, prima o poi uscirà senza i ragazzini, non ho limiti temporali per il lavoro. Quella donna è un morto che cammina. Peccato che non fumo, ma i mozziconi hanno la cattiva abitudine di conservare il DNA. In camera si tocca ogni cosa coi guanti in lattice, è dura essere dei professionisti seri. Una vita di merda.
Dopo due settimane conosco a memoria i suoi orari. Mai nulla di inconsueto, sembra Kant in quel di Koeninsburg. Sorrido. Al pomeriggio passeggio per il quartiere bene, senza soffermarmi a parlare con nessuno. Mi concedo giusto la lettura del giornale e un tè caldo al limone in quello che sembra il bar meno elegante, adatto a uno come me. Ma proprio quel giorno accade qualcosa di inimmaginabile. Entra lei nel bar, con jeans felpa e giubbotto di pelle. Niente scorta. Si ferma al bancone per ordinare un tè coi biscotti da portare al tavolo. Si siede non lontano da me. Aguzzo lo sguardo, non mi sembra vero ma è proprio lei. Non posso sbagliare, la conosco troppo bene. Di vista. Tocco il calcio di Barbie, ma l’arma è senza silenziatore. Il lavoro deve essere pulito.
Arriva il tè coi biscotti, lei traffica sullo smartphone. Sentendosi osservata, alza lo sguardo e mi sorride. Rispondo naturalmente, sfoggio un accenno di dentatura perfetta. Mi curo. Da sempre. Dopo pochi minuti ripiego il giornale e decido di infrangere una regola fondamentale del mio mestiere. Mai familiarizzare con un obiettivo. Chiamarla vittima sembrava brutto. Per me lei valeva due milioni e la fine di questo schifo di mestiere.
La salutai con la mano e lei fece cenno di avvicinarmi. Mi sedetti al suo tavolo. Mi offrì un biscotto che non rifiutai. Non doveva trasparire nulla dal mio sguardo, dai miei gesti. La pistola ben celata sotto un maglione a falde larghe e uno Schott con lo stemma della RAF.
«Sei un pilota?», mi chiede incuriosita.
«No, magari», rispondo abbassando lo sguardo.
Meglio non parlare del mio lavoro, manco di quello che uso come copertura. Cambio discorso.
«Che fai da sola seduta in un bar, aspetti qualcuno?»
Mi guarda con un’espressione che racchiude in sé tutti i segreti del mondo. Dimenticai per un attimo la sua nota biografica che avevo letto e riletto, magari non corrispondeva nemmeno a verità. Tanto un morto che sia laureato o analfabeta, quando è dentro una cassa i vermi se ne cibano lo stesso.
Da vicino è più attraente che guardata attraverso la lente del cannocchiale. Carnagione olivastra, capelli e occhi neri. Magari la moglie di un notabile turco. Poteva essere proprio l’influente marito a volerne la morte. Diventata scomoda, aveva visto o sentito troppo. Ma dei bambini non se ne parlava nel dossier. Un modo di esprimersi eloquente, senza accenti e nella mia lingua. Un timbro di voce unico.
Mi dice che ogni tanto si rifugia in quel bar poco frequentato per leggere e rilassarsi un po’, per fuggire dalla realtà quotidiana. Caccia fuori dalla borsetta un testo di poesie di un autore sconosciuto, forse delle sue parti. Faccio finta di non sapere nulla di lei.
«Cosa fai nella vita, se posso essere indiscreto?»
«La badante, o meglio la babysitter.»
Addirittura, pensai, non vuole sbottonarsi.
Dopo quasi un’ora si alza delicatamente dalla sedia e si avvia alla cassa salutandomi. Rimasto di stucco, mi lascia ai miei pensieri. Sapevo dove si stava dirigendo, avrei dovuto seguirla. Ma non lo faccio. Non era il momento.
I ragazzini allora non sono i suoi. Accarezzai il calcio della pistola facendo finta di grattarmi la schiena. Un lavoro non facile.
Tornai in camera e mi immersi nella lettura. Leggere romanzi era rilassante e mi aiutava ad allontanarmi per un po’ dallo squallore della mia vita. Un’esistenza votata alla ricerca di qualcuno da uccidere. Per soldi, esclusivamente per soldi. Non ci godevo a farlo, nessun sentimento di onnipotenza. Nessun pentimento, se non l’avessi fatto io avrebbero assoldato un altro. Si era in tanti del mestiere. La gente non si chiede mai quanti professionisti ci sono nel settore. Pochi buoni come me.
Ora sapevo dove trovarla, lontano dai bambini e dalle guardie del corpo. C’era solo da studiare il percorso e scegliere due tre possibili punti. Lavoro da arma corta.
In camera quella sera finii per pensarci. Proprio una bella ragazza. E risoluta nei modi, aveva lasciato il locale senza troppi convenevoli. Strana però, cosa faceva realmente in quella famiglia? La badante proprio non mi convinceva, parlava troppo bene. Troppo disinvolta.
A ogni modo il lavoro è lavoro. Un milione già incassato, bisognava muoversi. Incassare il saldo e sparire per sempre. Passaggio in clinica per cambio di connotati e nuova vita in Finlandia. Sì, proprio al freddo, in una cittadina dove nessuno ti sarebbe mai venuto a cercare. Un posto di merda! Quelli come me, se sopravvivono abbastanza, finiscono tutti in Sudamerica. Ma non io.
Scandinavia. Nuova identità, ogni tanto una vacanza in posti normali. Tanto per non perdere il contatto col mondo dei più. Londra, Parigi, Roma, Atene. Movimenti da cittadino comunitario. Da anni stavo frequentando corsi di lingua finlandese, il tempo non mi mancava. Sembravo madrelingua oramai, parlato quasi come l’inglese. E mi sarei fatto pure biondo!
Nei giorni seguenti continuai a studiarla col cannocchiale. Un vero peccato rimandarla anzitempo al creatore. Selezionai due punti in ombra, sgomberi da eventuali telecamere, che ormai era difficile trovare posti non filmati da banche, uffici o abitazioni controllate. Lungo il tragitto dal locale al residence.
Un colpo solo in pieno petto, non meritava di essere freddata alle spalle. L’avrei chiamata per nome e fatta girare. Jasmine, che bel nome. Intanto montavo il silenziatore alla Barbie, calibro 7,65 mm come il fucile.

Nel pomeriggio mi metto ad aspettarla al bar, con giornale e riviste varie. Dopo tre giorni eccola, rilassata e con un libro in mano. Mi riconosce sorridendo e si accomoda al mio tavolino.
«Speravo di trovarti. Come stai?»
«Non c’è male» rispondo, senza tradire emozioni.
Sorrido pensando a cosa sarebbe stata disposta a concedermi per essere risparmiata.
Un filo di trucco, solo la matita nera intorno agli occhi è piuttosto marcata. Li vuole evidenziare, grandi e scuri. Quando mi fissa ci scorgo un non so che di inquietante. Ho fatto male ad aspettarla in questo locale. Sto provando dei sentimenti per il mio bersaglio e non va bene.
Mi legge un’altra poesia con voce suadente. Mi balza forte alle narici l’odore del lubrificante dell’arma. Pensavo di essermi ormai assuefatto, ma stavolta sembrava diverso. Accidenti tutto era diverso, lo odio questo lavoro. Per fortuna oggi è il mio ultimo giorno, da domani mi metto a riposo. Per sempre.
Devo prendere l’aereo prima che venga ritrovato il cadavere. Lo nasconderò velocemente in una vecchia auto appositamente parcheggiata nella strada buia. Poi in albergo a piedi. È bizzarro che una ragazza si azzardi a muoversi al buio su un percorso del genere. Sembra molto sicura di sé, troppo per una semplice badante.
Una dentatura splendida risalta su quella carnagione olivastra. Si discorre del futuro. Vuole trasferirsi in Inghilterra, i genitori dei bambini le scriveranno delle ottime referenze. Potrà continuare col suo lavoro e studiare all’università. Letteratura, la sua passione. Diventare una scrittrice. Romanzi, racconti, poesie. Tutto.
Ma perché sto parlando con lei, penso. Mi sta facendo male. Sì, questa ragazza mi piace. Decisamente. E non mi chiede quasi nulla di me. Mi inonda dei suoi sogni. Dei suoi libri. Bello coltivare queste passioni.
Intanto la luce sta calando. È fondamentale per me. Il lavoro viene meglio di notte, al buio. Sorbiamo il solito tè con biscotti, poi improvvisamente guarda l’ora e scuote la testa.
«È stato bello parlare con te. Spero di rivederti.»
Le sorrido malinconicamente.
«Ti saluto». Si sporge e mi stampa un bacio sulla guancia. Ha le labbra morbide.
Percepisco forte quell’odore di pistola e mi sale un odio profondo per quello che sono. Una carogna. Destinato a bruciare nel posto dove vanno a finire quelli come me, all’inferno.
Esco senza pagare, non posso perderla stavolta. Nessuno se ne accorge. Tanto non credo che tornerò mai più in questo locale. Non credo proprio.
La vedo girare l’angolo e imboccare la via buia. La seguo accelerando il passo e a metà tragitto la chiamo. Sono a due metri da lei, l’ho raggiunta.
«Jasmine!»
Lei si gira di scatto con una pistola spianata una Steyr Mannlicher silenziata, la riconosco nella penombra. Non ho scampo, in quella frazione di secondo riesco a sorridere incredulo.
Un riso liberatorio, brava mi hai fregato.
Flump! Un colpo solo, dritto al cuore: l’inizio del mio viaggio per l’inferno. 

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