Ritratto di Annibale

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Illustrazione di Agrin Amedì
Giocavamo a camminare sui binari, col treno che correva nella nostra direzione. Le regole erano semplici: non appena le sbarre del passaggio a livello si fossero abbassate bisognava fare dieci passi a occhi chiusi e con le mani in tasca per poi schizzare via all’ultimo secondo. 

Giocavamo a camminare sui binari, col treno che correva nella nostra direzione.
Le regole erano semplici: non appena le sbarre del passaggio a livello si fossero abbassate bisognava fare dieci passi a occhi chiusi e con le mani in tasca per poi schizzare via all’ultimo secondo. 

«Attenzione, treno in transito al binario 2 allontanarsi dalla linea gialla». «Attenzione, treno in transito al binario 3 allontanarsi dalla linea gialla». La voce dell’altoparlante era il segnale. Iniziavamo l’uno di fianco all’altro: aprivamo le braccia come due ali, restando per pochi istanti con le mani premute palmo contro palmo, poi camminavamo in direzioni opposte.

«Un giorno dovremmo prendere il treno e andarcene.»
«Dove vuoi andare Manuel?»
«Che cazzo ne so, via!»

Dopo un paio di passi non riuscivo più a sentire la sua voce e quando il vento s’alzava dal nulla mi tuffavo di lato sul brecciolino. Poi restavo rannicchiato lì per terra, con gli occhi chiusi e i pugni serrati.

«Porca troia stavolta mi ha quasi preso! L’hai visto?»
«Ero di spalle, deficiente!»
«Secondo te se muoio vado all’inferno?»
«Tuo padre fa l’avvocato Manuel, magari ti tira fuori lui…»
«Mio padre è più ricco di Dio. Un giorno avrò il suo studio!»
«Ma se scrivi io ho, senza l’acca…»
«Sta’ zitto coglione, ho detto che lo dirigo non che divento un avvocato!»
«Io voglio diventare come Annibale.»
«E chi è? Il salumiere?»
«Fottiti!»
«Ah sì, ho capito… Sta sul libro di storia, ci ho disegnato un cazzo sopra.»

Lo facevamo quasi tutti i pomeriggi.
Ma quel mercoledì mattina c’era il compito di storia e Manuel non aveva studiato. Perciò aveva fatto sega.

«A me non frega un cazzo né delle guerre puniche né di qualsiasi altra guerra sul pianeta. E comunque la prof Cerretti puzza di piscio», aveva detto, allungandomi una canna davanti alla stazione ferroviaria di Fara Sabina. «Forza, fatti un tiro cazzone», mi diceva ogni volta. E io ogni volta tenevo il fumo in bocca senza aspirarlo.
«Ma è possibile che questa roba non ti fa niente?»
«No coglione, cambia spacciatore.» Poi lui mi picchiava sulla testa e allora io lo afferravo per i capelli e iniziavamo a fare a botte. Manuel non assomigliava agli altri sfigati di Fara Sabina. Era venuto ad abitare qui da Roma. Mia madre diceva che era meglio stargli alla larga, perché per essere un ragazzino della sua età girava con troppi soldi in tasca. In realtà più che  soldi aveva la carta di credito del padre.
«A ma’, parli come una vecchia! Mi offre sempre la merenda e poi ha una piscina dentro casa.»
«Tommaso bada bene a quello che fai.»
«A ma’, scialla. Sto uscendo per andare in biblioteca.»

Facevo finta di andare a studiare alle quattro di ogni martedì e giovedì pomeriggio. Chiudevo lo zaino nell’armadietto, quello sfondato e senza maniglia, poi passeggiavo su e giù per il corridoio mentre la nuova stagista coi jeans attillati piegava il culo tra gli scaffali. Verso le cinque, quando iniziavano a farmi male gli occhi, me ne andavo alla stazione. Mamma lo sapeva, ma faceva ancora finta di niente. Anche quando papà se ne era andato, aveva fatto finta di niente.
«Oggi pomeriggio non è passato neanche un treno.»
«Era sciopero, Manuel.»
«Vabbè, stasera al compleanno di Luca mi metto camicia e cravatta.»
«Sei diventato un testimone di Geova?»
«Geo che? La camicia bianca comunque è di Armani.»
«Io non vengo.»
«T’è venuto il ciclo?»
«No, voglio dormire.»
«Come, vuoi stupido. Salutami mammina.»

Così, quel mercoledì mattina avevamo fatto sega. Manuel era venuto a prendermi col motorino alla fermata dell’autobus. «Forza sali, niente saletta da biliardo. Stamattina facciamo un gioco diverso coi treni.» Dopo via Pisacane aveva imboccato una strada sterrata e ci eravamo ritrovati pieni di polvere nella parte della stazione che incrocia il bivio della Neve. Un conto erano i due binari dove transitavano i treni merci e i treni regionali, un altro era quella ragnatela di intersezioni. Ce ne saranno state almeno una decina. «No, io questo gioco non lo faccio Manuel.» In quel momento era passato un FrecciaRossa e l’onda d’urto ci aveva spinti col culo per terra. «Cazzo come corrono», aveva detto lui riaccendendosi la canna. Poi con un calcio aveva lanciato il mio zaino in mezzo ai binari.

«Forza coglione, vallo a riprendere. Che c’è, hai paura?»
«Vaffanculo, lì dentro ci sono tutti i miei libri e comunque no, non ho paura.»

Ricordo il vento, le dita sporche, la polvere, tutta quella polvere negli occhi. Tiravo pugni in aria per scansarla. Tossivo. Piangevo. Il miraggio del semaforo verde nella polvere. L’aura del semaforo verde come quella di un pianeta lontano. L’eco del vecchio altoparlante: «Attenzione, treno in transito al binario 4». «Attenzione treno in transito al binario 4»… Me lo ripetevo come una preghiera. Il cadavere del mio zaino lì in fondo. «Attenzione, allontanarsi dalla linea gialla». Il muretto di cemento, i chiodi arrugginiti, la rete sfondata. Io. I binari. «Uomo morto che cammina». La ghiaia appuntita sotto le suole di plastica, il vento che mi soffiava nelle ossa. Il treno lanciato all’assalto come un indiano. Il rumore che cresceva, scorreva nelle vene col sangue. Le unghie mangiate premute contro le orecchie. Lo zaino. Lo zaino. Lo tenevo per una bretella. Lo zaino verde come le porte dei treni regionali. Le Converse rosse. Un laccio impigliato nelle assi di legno. Il vomito sulla giacca. Il vomito verde come lo zaino. «Scipione detto l’Emiliano sparse il sale su Cartagine». La terra tremava. «Coglione, sei proprio un coglione» Manuel col cellulare in mano e il flash acceso. I fari gialli del treno. Il rumore di mille cavalieri con le spade sguainate. «Cartagine nel 146 a.c. venne data alle fiamme», pagina 167 del libro di storia. La sciarpa in aria. Un urlo. Il nero della mia ombra a terra deformato dai vagoni. Il treno dieci metri più in là che sfrecciava vicino al braccio disteso di Manuel. L’Iphone in mano. Un ultimo fischio. Silenzio di tomba.
Manuel col piumino sporco di sangue. La manica destra a penzoloni nel vuoto. Il suo braccio troncato dal treno. Gli occhi aperti, la bava alla bocca, le lacrime, il naso umido. «Che cosa fate voi due laggiù?» La polizia, le luci blu, le giacche arancioni. Lo zaino verde per terra. L’asma. «Vi prego, aiutatemi.» Non riuscivo a parlare, lo pensavo e basta. La mano di mia madre sulla fronte sudata. «Non è un cattivo ragazzo.» Il soffitto ammuffito della mia camera. Le fusa del gatto. Il sole incandescente. Il lampione acceso fuori dalla finestra. 

Da quel mattino di dicembre non ho più rivolto la parola a Manuel. Soltanto una volta a maggio mi è venuto vicino a ricreazione: «Sai, mio padre dice che siete dei bifolchi di merda. A settembre ritorno a Roma. Ha pure fatto causa alle Ferrovie e ci hanno offerto 100.000 euro di risarcimento.» 

«Bella Manuel, papà è riuscito a farsi ridare il tuo braccio da Dio? Batti il cinque.»
Lui ha provato ad afferrarmi, ma la sua unica mano ha cominciato a tremare. «Comunque ho caricato il video su youtube, piangevi come un coglione.»
«Va’ a farti fare una sega dalle segretarie di papino… Oppure hai imparato a usare la mano sinistra?»

Ricordo che mentre mi voltava le spalle la manica vuota della sua camicia Armani sventolava di fronte alla finestra spalancata. Il vento intanto aveva aperto il mio libro di storia a pagina 167: “Ritratto di Annibale”, si leggeva nella didascalia della foto. Sentivo le mie orecchie fischiare. Io. I binari. Il treno lanciato all’assalto come un indiano. La sciarpa in aria. Chissà dov’era finita. 

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