Quando Cecilia spinse la porta a vetri che le avevano indicato si trovò davanti un lungo corridoio. Il parquet emise rumori sproporzionati sotto i suoi passi. Era una ragazza leggera, con poca massa muscolare e provocare quel suono così scuro la agitò. Accelerò il passo ed entrò finalmente in sala di attesa con il cuore che rumoreggiava, pronta ad affrontare la scarica di adrenalina che percorreva immancabilmente il suo corpo prima di ogni provino.
Entrarono nella stanza anche una ragazza, due uomini con la barba e un ragazzo basso e biondo. I saluti reciproci furono appena accennati e gli sguardi dei nuovi arrivati si persero subito alla ricerca di invisibili coordinate che conducevano nel punto esatto dove avrebbe avuto inizio l’attesa. Cecilia tornò a guardare le due mattonelle scheggiate davanti a sé e scivolò in avanti sulla sedia selezionata accuratamente al suo arrivo e abbastanza lontana dalla porta della stanza delle audizioni. Rimase in quella posizione scomoda per un po’, sperando di immobilizzare il tremore veloce che fluttuava dentro le sue mani. Provò a ripassare mentalmente i brani richiesti per la prova ma trovò al loro posto brandelli di aggettivi e schegge di pronomi che orbitavano solitari, incapaci ormai di produrre periodi di senso compiuto. Si erano attivate come sempre quelle aree sconosciute del cervello deputate a risucchiare intere frasi per il solo gusto di provocarle; nell’ordine, un vuoto allo stomaco, leggera nausea e aritmie cardiache jazz. Doveva assolutamente distrarsi con pensieri di poco conto, leggeri, per occupare l’attesa e arginare l’ansia che le stava salendo. Cercò un punto di partenza per le sue divagazioni ma si incagliò sul perché si dica sempre che l’ansia sale. Sarebbe stato molto più corretto dire che l’ansia scende per il semplice fatto che è qualcosa che ti schiaccia, qualcosa di pesante che ti schiaccia dal didentro. Non era propriamente un pensiero leggero e proseguì per alcuni minuti ad arrotolare confusamente teorie fino a quando la sua sedia venne scossa da un piede affogato in uno stivale blu elettrico.
«Scusa», disse una voce roca che arrivava da una bocca molto bella poggiata su un viso disordinato come quello di una attrice dei film di Almodovar e lontanissima dallo stivale blu elettrico. Pensò velocemente che essere così alte doveva avere i suoi vantaggi sconosciuti completamente ai suoi striminziti centossentasei centimetri di estensione verticale. La ragazza raccolse la giacca scivolata dalla sedia e si allontanò velocemente con il suo profumo di shampoo appena fatto. Nel frattempo le sue gambe ripresero a vibrare vistosamente, e questo non era un buon segnale. Solo in quel momento si accorse di avere un buco sull’elastico della manica del maglioncino rosso. Lo guardò fisso come ad aspettarsi che qualcosa ne venisse fuori e temette per un attimo, ma solo per un attimo, di caderci dentro con tutto il suo monologo. Nutriva un piccolo piacere sadico a farsi paura da sola nei momenti di tensione; immaginare di venire risucchiata in quel buco nero di colore rosso permetteva al suo cuore di avere picchi di battiti al minuto altamente competitivi, come un assolo per batteria. Ingurgitò aria velocemente e cercò una bustina di zucchero che sapeva essere in qualcuna delle tasche della sua giacca: svenire era una opzione assolutamente da scartare. Riavviò velocemente dietro l’orecchio alcune ciocche sottili sfuggite dalla sua coda di cavallo e riprese l’attesa.
Passarono altri minuti taglienti durante i quali la porta della sala audizioni aveva inghiottito e risputato fuori vari esseri umani ai quali era stata sottratta momentaneamente ogni altra abilità se non quella di rimanere in piedi, respirare regolarmente e attendere il verdetto finale.
Improvvisamente arrivò dalla porta lontana un suono riconducibile al suo nome e cognome. Prese la borsa infilata sotto la sedia, strinse l’elastico che teneva ferma la sua coda di cavallo sfumata d’azzurro ed entrò.
Ci furono i convenevoli degli esaminatori, i convenevoli dell’esaminanda e anche quelli del maestro seduto al pianoforte.
Rimase ferma davanti a loro in attesa di sapere cosa fare, sperava tanto che non le chiedessero di iniziare con il monologo ma con la prova di improvvisazione. Quel monologo non le piaceva per niente e soprattutto non era riuscita mentre lo provava a casa a materializzare il gesto di apertura che voleva dare al personaggio. Non era entrata in sintonia con il pezzo e tutti i movimenti immaginati e provati davanti allo specchio di casa erano sempre fuori fuoco o troppo contenuti e quindi inutili, o troppo enfatici e quindi esagerati. Alla fine ne aveva scelto uno, uno qualsiasi, ma ogni volta che lo aveva provato lo sentiva scivolare via, inutile e incolore. Quest’indecisione, naturalmente, aveva nutrito la sua ansia famelica per settimane, ingrassando sia lei che l’ansia in maniera spaventosa. Qualcuno da dietro i tavoli finalmente le chiese di salire su una sorta di piccola pedana e, se si sentiva pronta, di iniziare subito con il monologo.
Si impose di mantenere la calma e ingoiò un paio di respiri veloci.
«Va bene», disse sorridendo alla Commissione. E mentre il suo piede destro, in completa autonomia, si sollevava dal pavimento per salire su quella sorta di palcoscenico sentì il rumore di qualcosa che cadeva dietro di lei. Il piede destro, inaspettatamente, tornò sul pavimento per dirigersi insieme all’altro verso una matita viola caduta dal tavolo.
Dopo i primi due passi Cecilia sentì risalire da lontano prima un’onda leggera, come quelle che accarezzano la spiaggia nelle giornate senza vento e poi una specie di frastuono, mitigata da voce dimenticata di donna adulta e le sue risate sottili di bambina. Cercò di ricordare il perché rise così tanto e agganciò un frammento visivo brevissimo che riuscì a trasformare in un fermo immagine: il giardino della casa al mare, la signora Amalia amica della nonna, il tavolino con le maioliche azzurre, lei seduta su due cuscini con le piccole gambe dondolanti e tante matite colorate dentro un barattolo di vetro poggiato sotto il tavolo. Intanto i suoi piedi erano ormai vicinissimi alla matita e mentre si chinava per raccoglierla sentì arrivare un’altra onda, più rotonda e veloce della precedente, che srotolò il finale di quel sorprendente ricordo. La signora Amalia scompare velocissima, con gesti esagerati sotto il tavolo del giardino e ne riemerse sorridente con le mani piene di matite colorate. Le poggia disordinata sulle maioliche del tavolino e lei che inizia a dare nomi buffi a ognuna di loro. Lei ride, dondolando sui cuscini su cui è seduta e aspetta che inizi la favola. Di colpo il ricordo ha uno scossone, torna indietro di un fotogramma e Cecilia vede nitidamente quel gesto pieno d’aria che Amalia ripeteva sempre prima di regalarle una delle sue storie strampalate, quello con cui sistemava con una sola mano i suoi sottili capelli grigi che le sfuggivano dal fermaglio. Un movimento semplice, come un giro di danza e che catturava inspiegabilmente la sua attenzione di bambina.
Cecilia poggiò la matita sul tavolo, sorrise guardando il buco del maglioncino ormai inoffensivo e raggiunse la pedana. Salì, prese le misure dello spazio, si sedette a terra e costruì il suo gesto pieno d’aria leggera e semplice come un giro di danza. Le parole bellissime del suo monologo salirono sicure, senza esitare, come al rientro nella propria casa dopo un lungo periodo di vacanza. Frasi e movimenti iniziarono a tenere lo stesso ritmo del suo cuore, adesso immerso in un lento fraseggio jazz.