Quadro che vieni, quadro che vai

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Illustrazione di Agrin Amedì
Mi sento osservato, spesso mi sento molto osservato. Non piaccio a tutti, ovviamente. Alcuni sono di passaggio, non gli interesso. Altri sono dei ficcanaso, si piazzano qui davanti e sbirciano ogni dettaglio, come se ci fossero poi tanti dettagli…

Mi sento osservato, spesso mi sento molto osservato. Non piaccio a tutti, ovviamente. Alcuni sono di passaggio, non gli interesso. Altri sono dei ficcanaso, si piazzano qui davanti e sbirciano ogni dettaglio, come se ci fossero poi tanti dettagli… Quando il capo ha detto a un suo amico cosa avrebbe aggiunto attorno alla figura, io, la figura, ero già dentro. L’ho sentito dire: «Ci sarà una banale distesa d’erba che divide il suo spazio con il cielo». E quindi, cosa ci sia da guardare dettagliatamente di un prato e di un cielo non lo so. La mia fortuna rispetto ai miei compagni è che, oltre a non dover fare i conti con lo scambio di commenti che si consumano in sussurri per non disturbare la quiete del museo, posso evitare anche gli sguardi; che siano indifferenti, sprezzanti, quasi convinti o ammaliati: io sono di profilo. E dei loro sguardi rimarrò sempre all’oscuro. Vedo, però, le loro ombre e quelli che si avvicinano; quelli che mi scrutano per troppo tempo mi mettono davvero a disagio, mi fanno sentire nudo. Per me esistono due tipi di scrutatori: c’è l’esperto accanito che resta troppo perché vuole trovare un difetto da contestare e c’è l’emotivo ostinato che resta troppo per trovare un sentimento da provare. Sia chi vuole contestare, sia chi vuole provare, resta troppo per convincersi che di arte ne capisce. Penserai che la mia vita è piuttosto noiosa, sempre nello stesso punto a osservare lo stesso punto. Ma la mia vita, più che altro, è maledetta; sempre nello stesso punto a osservare lo stesso punto. Ma non un punto qualsiasi, quel punto. Senza mai poterlo raggiungere. Quel punto è una donna che accoglie con un’espressione ingenua di sfida e di gioco chi, come me, ha la costrizione e la benedizione di posarle gli occhi addosso; una Venere ancora un po’ bambina immersa nel verde, vestita di pelle morbida, poco nascosta da una tunica bianca leggerissima. Appena l’ho vista arrivare, immersa nel verde, volevo gridarle: «Guarda, la distesa d’erba e il cielo di cui faccio parte continuano a respirare nella tua cornice!». Ma poi mi sono reso conto che forse nel mondo ci sono tanti tipi d’erba, solo il cielo è lo stesso. E poco dopo mi sono reso conto che non ho voce. E poco dopo mi sono reso conto che lei non guardava nella mia direzione. E poco dopo mi sono reso conto che anche se io l’avevo trovata, lei non mi avrebbe mai trovato, e neanche cercato. E poco dopo mi sono reso conto che lei non avrebbe mai saputo che io esistevo. Ma tra tutti questi rapidi e intensi pensieri ne nacquero subito altri, altrettanto profondi, ma non altrettanto brevi. Io il tempo non lo conosco, ma so che ne è passato tanto e che sono ancora qui a fare questi pensieri intensi su quanto lei sia bella ogni giorno e ogni giorno in modo diverso. Forse crede che abbia sempre la stessa espressione nel volto e sempre lo stesso moto nel corpo, ma non è così: il suo volto e il suo corpo cambiano radicalmente da un momento all’altro se ci si presta davvero attenzione. Un’attenzione che non sta nell’atto stesso di guardarla ma nella volontà di sapere chi è, che cosa pensa, che cosa sente. Perché i sensi, e la vista è uno di questi, prendono vita solo quando alla loro funzione pratica si accosta inevitabilmente quella emotiva. E io presto davvero tutta la mia funzione pratica ed emotiva, primitiva e sublime per guardarla, senza però riuscire mai a capirla del tutto. Alcuni giorni la vetrata dietro di lei piange e la vedrei bene lì fuori, dove i suoi zigomi potrebbero finalmente cospargersi di quelle lacrime che non sa versare; me lo dicono i suoi occhi persi nel vuoto. Quegli stessi occhi diventano vispi e sottili quando la bocca si allunga in un sorriso seducente e gli zigomi si alzano come due soli che sorgono dietro le montagne; sono sicuro che in quei momenti vorrebbe quella tunica ancora più trasparente, o inesistente. Già, sembra che non veda l’ora di potersela togliere di notte per mostrarsi in tutta la sua aura peccatrice. Altre volte, invece, un’espressione deforma il suo volto per il terrore che qualcuno possa allungare la mano e inquinare quella pelle candida; così preferirebbe essere coperta di spine, purché coperta. Inquieta. È così inquieta. Non fa in tempo a essere gioviale che subito diventa cupa; non fa in tempo a essere affabile e richiamarli tutti intorno a lei come una sirena con il suo canto che subito serra la bocca come se parlando a quegli sciocchi farebbe un torto alla sua intelligenza. Inquieta, incomprensibile.

Da allora è passato del tempo, ma ricordo ancora bene come mi piacesse cogliere ogni sua sfumatura, indovinare il suo umore, i suoi pensieri, le sue sensazioni. E di come a volte mi sentissi così invisibile, impotente e lontano.
Il giorno in cui l’hanno strappata dalla mia visuale è stata la peggior condanna che potessero infliggermi. L’hanno presa e me l’hanno portata via, da un momento all’altro, lasciandomi con il bianco insensato di un muro. Un bianco che non feci in tempo ad assimilare perché nelle mie pupille era impressa sempre e solo lei. Così presi a dipingerla su quel muro, spalancando e socchiudendo gli occhi; pennelli che si allargavano per segnare le curve prepotenti dei suoi fianchi e si affinavano per tracciare le linee delicate dei suoi seni. E ogni volta che finivo ricominciavo. Curve, linee, colori. Curve, linee, colori. Curve, linee, colori. Sentivo il peso di occhiaie che non avevo, di un corpo che correva anche se statico, di una testa fusa anche se vuota, di un cuore in frantumi anche se intatto. Volevo cadere in un letargo incessante. Non conosco il tempo ma so che ne era passato tanto e da una lancetta in poi quel muro prese ad apparirmi sempre più spoglio di curve, linee, colori, sempre più colmo di un bianco insensato. Quel che pensavo di non dimenticare mai se ne stava andando. E un giorno, uno qualunque, quel bianco insensato sparì di nuovo per lasciare spazio ad un’altra figura. Una distesa d’erba e un cielo, ma un’altra figura. Una distesa d’erba e un cielo, ma un’altra sensualità, un’altra irrequietezza, un’altra solitudine, un’altra freschezza, un’altra vivacità, un’altra malinconia. E volevo gridarle: «Guarda, la distesa d’erba e il cielo di cui faccio parte continuano a respirare nella tua cornice!». Ma poi mi sono reso conto che forse nel mondo ci sono tanti tipi d’erba, solo il cielo è lo stesso. E poco dopo mi sono reso conto che non ho voce. E poco dopo mi sono reso conto che non mi serviva la voce. E poco dopo mi sono reso conto che lei guardava nella mia direzione. E poco dopo mi sono reso conto che io l’avevo trovata; che lei mi aveva trovato, senza cercarmi. E poco dopo mi sono reso conto che lei sapeva che io esistevo. E poco dopo mi sono reso conto che anche io esistevo.

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