Ancora oggi ne parlano, lo so.
Quando dalla sala d’aspetto dell’ospedale udii l’urlo dell’ostetrica, capii che era nata mia figlia. Silvana, mia moglie, l’aveva vista in sogno e già sapevamo che non doveva trattarsi di una creatura di questo mondo. Appena nata Ariela aveva la pelle liscia come una bambola di porcellana, di un colore verde intenso e una folta peluria azzurro scuro sulla testa. Nonostante fin dalle prime ore della sua esistenza terrena una bellezza eterea e senza tempo si fosse posata sui suoi lineamenti delicati e perfetti, fu la sua voce in verità che rapì tutti fin da subito. La bambina non piangeva, ma emetteva un suono, una specie di melodia marina che variava a seconda dell’umore di pochi toni, rimanendo pur sempre dolcissima e piacevolmente soporifera.
Diversi medici vennero a visitarla, togliendola dal grembo della madre per studiarne il colorito, i riflessi, le sfumature. Tutti ci rassicurarono, spiegandoci dall’alto della loro esperienza che quel verde cangiante altro non era che un fenomeno di passaggio, frutto di una prima gravidanza un po’ complicata, magari sedentaria. E che la bambina da lì a pochi giorni, massimo un mese, avrebbe assunto le tonalità consuete di tutti i neonati del pianeta.
Malgrado le rassicurazioni dopo quattro mesi Ariela, pur godendo di ottima salute e crescendo forte e sana, si ostinava a mantenere la pelle di quel colore luminoso e brillante; la peluria sulla testa, invece, si era trasformata in un’onda di ricciolini azzurri splendidi e ribelli.
Su indicazione del nostro medico di famiglia Silvana e io chiedemmo un consulto al dottor Wilmer, un pediatra noto per essere un luminare in dermatologia. Appena vide Ariela il dottor Wilmer studiò con una enorme lente la sua pelle verde, soffermandosi in particolare sull’assottigliamento che questa presentava sul ventre e sotto le ascelle fino a diventare trasparente, mettendo così in mostra gli organi interni, le vene e il tessuto muscolare. In seguito prelevò un capello blu della bambina e rimase a rimirarlo immobile per molto tempo al microscopio, tanto da farci temere che si fosse addormentato con l’occhio incollato all’apparecchio. Poi, come scosso da un’intuizione improvvisa, andò in bagno e ritornò con una spugna bagnata. Con gesti delicati e leggeri cominciò a strofinare il ventre di Ariela. Le trasparenze, a poco a poco, iniziarono a ispessirsi e a riprendere il colore verde lucido del resto del corpo. Mentre la pelle di Ariela si uniformava, il dottor Wilmer strappò un mezzo sorriso soddisfatto.
«Acqua. La pelle della bambina ha bisogno di acqua. Solo così può mantenersi lucida e spessa. Le trasparenze non sono altro che l’espressione di un indebolimento dell’epidermide, vanno quindi evitate e scongiurate con frequenti spugnature d’acqua fresca. State certi che con questo sistema, da qui a una decina di giorni, tutta la pelle riacquisterà un aspetto sano e compatto.»
«Ma professore, la pelle cosa può essere? Che anomalia è questa? La bambina soffre. Si tratta di una malformazione?»
«Mia cara signora, niente di più errato. Vede, una volta riportato al suo stato naturale l’incarnato della piccola – verde, intendo – non sarà difficile notare come una volta eliminate le trasparenze, l’equilibrio sarà stato ristabilito. Non vi è nessuna anomalia nella funzione vitale, né tantomeno alcuna malformazione, lo escludo categoricamente. Continuate con le spugnature e tornate da me tra un mese per un controllo.» Così dicendo il dottor Wilmer, prendendo Silvana per il gomito, ci condusse alla porta dello studio e prima che questa si richiudesse io riuscii a domandare: «Ma dottore, perché è verde? Perché?». Il medico, con un pizzico di insofferenza, ci guardò entrambi e con la stessa aria austera con la quale ci aveva accolti al nostro arrivo ci congedò dicendo: «Per capire i ‘perché’ dovreste consultare un veterinario, non un dermatologo. Per quel che mi riguarda spugnature, tante spugnature!”. Poi richiuse la porta.
Le spugnature quotidiane prescritte dal dottor Wilmer sebbene avessero contribuito a inspessire la pelle sul ventre e sotto le ascelle di Ariela togliendo di mezzo così le trasparenze, non avevano però apportato alcun mutamento cromatico. La pelle era e rimaneva verde. Anzi, con il passare del tempo, a mano a mano che nostra figlia cresceva, ci rendemmo conto che il suo aspetto era sempre più spento e malaticcio, niente di più lontano dall’equilibrio vitale auspicato da Wilmer. Esasperati, poi, da quello che Silvana e io interpretavamo come un lamento di Ariela – che altro non era se non un canto triste e sommesso -, decidemmo di seguire l’ultimo esasperato consiglio del dermatologo. Il dottor Vitti, veterinario di fama, ci accolse sulla soglia del suo studio, trepidante e curioso. Fu estasiato nel vedere Ariela. Ne rimirò a lungo il corpo leggero e flessibile, ne studiò la pelle dai mille riflessi verdi e la interrogò sul suo stato di salute. Ora Ariela parlava da tempo con una proprietà di linguaggio molto al di sopra della sua età, con una dolcezza e un tono tale da ammaliare e smuovere l’interesse del più insensibile dei professionisti; pertanto non le fu difficile spiegare che da tempo soffriva di forti pruriti alle gambe e che ne avvertiva una secchezza e una ruvidità sorprendenti. Dopo un esame accurato e approfondito, il veterinario ci fece accomodare su tre poltrone davanti alla sua scrivania.
«Per intenderci,» sospirò «avete presente il Kryptopterus Picirrhis?». Silvana e io annuimmo con la testa e ci smentimmo con lo sguardo. Non intendevamo affatto le parole del dottor Vitti, che con nostro sollievo proseguì senza aspettare una risposta. «La pelle di vostra figlia è come quella di questo pesce. Se non viene bagnata diventa trasparente e le spugnature si sono dimostrate efficaci, ma ora sono insufficienti. La bambina è cresciuta. E per mantenere la sua pelle lucida e brillante è necessario portarla al mare con una certa frequenza. Ha bisogno di acqua salata, e tanta, per intenderci.» Silvana e io stavolta ci scambiammo uno sguardo di intesa, sollevati.
Dopo quella visita, cominciammo così le nostre uscite in mare. Tutti i giorni al tramonto, Giuseppe, il figlio più grande di Aldo, il proprietario di un peschereccio giù al porto, passava a prenderci per portarci al largo con la sua piccola barca. Durante quel breve tragitto suonavo l’armonica, mentre Ariela – dapprima timida, poi sempre più a proprio agio -, intonava canzoni che parlavano di vento, di imbarcazioni e di viaggi lontani con la sua voce profonda e limpida come il mare. Arrivavamo così allo scoglio di Leucosia, un masso grande e rugoso in mezzo al mare. Qui Ariela, finito il suo canto, si tuffava e per scomparire insieme al sole all’orizzonte. Nell’attesa io continuavo a suonare, credo per non lasciare sola Ariela nelle profondità liquide e schiumose. E al tempo stesso per confortare Giuseppe che, sempre con la stessa pena negli occhi scuri mescolata ai riflessi del mare, rimaneva a scrutare quell’immensità fluida trattenendo il respiro. Continuavamo così fino a che lo spruzzo alto e bianco che preannunciava la risalita di mia figlia ci scuoteva come da un sogno. Ariela, con la pelle dai mille riflessi trasparenti, risaliva sulla barca ridendo forte e facendo cadere sul fondo ogni volta una conchiglia bianca e rosa rubata agli abissi.
Io e Silvana ci rendemmo conto che la cura stava avendo un effetto sorprendente. Ci sentimmo tutti sollevati; Ariela per prima. Il prurito alla pelle delle gambe era passato e questa si era fatta lucida, sfavillante in mille sfumature di verde. I capelli avevano ripreso a crescere fluenti e nel loro blu rilucevano i riflessi cerulei del cielo. Il corpo di Ariela, bagno dopo bagno, uscita dopo uscita, si rafforzava sempre di più; e con lui il legame silenzioso e tenace creato con Giuseppe. Un’amicizia profonda fatta di gesti, di un rituale assodato e certo, di una quotidianità non scalfita dal tempo. E così fu fino alla pubertà.
Silvana in quel periodo, dentro di sé, arrivò a sperare che le ingrate tappe dell’adolescenza conferissero a sua figlia qualche imperfezione, qualche neo, per renderla più umana. Ma nulla di tutto ciò accadde. Al contrario, a quindici anni, Ariela era flessuosa ed esile; la pelle non presentava imperfezioni, né brufoli, né impurità. Anzi, la sua grazia marina si era via via accentuata, conferendole una bellezza abbagliante. Fu inevitabile, quindi, che Ariela e Giuseppe si innamorassero. Subito non me ne volli render conto, solo dopo fui aggredito dall’evidenza. Uno sguardo che si soffermava troppo, uno sfioramento della mano che indugiava furtivo. Un sorriso smorzato, trattenuto giusto per essere intravisto. Fino alla certezza dei loro baci e dei loro sospiri. Ne fui accecato. Non potevo concepire che mia figlia, la mia bambina bellissima e preziosa, il nostro dono, potesse innamorarsi di un semplice pescatore. Non era possibile. Mi opposi con tutte le mie forze, fino a quanto male un padre possa fare. E mi riuscì bene. Proibii a Giuseppe e Ariela di vedersi. Feci assoldare il ragazzo nelle grandi squadre di pesca d’altura, quelle che rimanevano fuori al largo sui grandi pescherecci per diversi mesi. Speravo e volevo qualcuno di diverso per lei. Volevo, pretendevo di più. Ariela non mi diede alcuna soddisfazione all’inizio. Alla lunga assenza di lui oppose un’ostinata attesa silenziosa. In quel periodo era sempre più bella e niente, niente avrebbe fatto presagire il disastro che arrivò e ci colse di sorpresa.
Accadde una mattina. Ariela si alzò dal letto e ci disse che non riusciva più a muovere le gambe. Osservammo il suo corpo con attenzione; ci fu subito chiaro che la pelle dei due arti inferiori si stava unendo sotto le cosce. Una fusione di carne senza un taglio, un segno, un solco. Nulla. Allarmati interpellammo il dottor Vitti. Il veterinario ci rassicurò con la sua voce da esperto che si trattava semplicemente di un periodo di transizione. Una delle tante tappe della crescita, non sempre facili, e che tanti bagni e tanta pazienza avrebbero sistemato tutto. Immediatamente mi diedi da fare per organizzare un’uscita in mare. Ma mia figlia rifiutò categoricamente. Sapevo quanto le onde lontane esercitassero su di lei un richiamo forte e potente, ne misuravo l’intensità dal modo in cui dilatava le narici osservando la schiuma leggera e bianca, dal suo sguardo offuscato di desiderio alla vista di un frangente lontano. Ma niente le face cambiare idea. Dichiarò senza esitazione che da allora in poi non sarebbe tornata più al mare senza Giuseppe. Aveva trasformato la sua attesa silenziosa in una presa di posizione tanto irremovibile quanto nefasta.
Sdraiata sul divanetto di fronte alla finestra, Ariela alternava momenti di apatia totale a momenti di disperazione inconsolabile. A poco a poco, da splendente, la sua pelle era ritornata opaca e smorta. Il corpo molliccio e flaccido aveva preso le sembianze di una medusa morente sulla spiaggia. Solo in quel momento capii quanto amasse quel giovane pescatore.
Le prime squame fecero la loro comparsa proprio in quel periodo. “Solo sulle gambe”, notò sollevata Silvana che non smetteva di apportare modifiche ai vestiti di Ariela. Ma malgrado questa magra consolazione, tutto intorno a noi degenerava. La mancanza del mare e quella dell’amato producevano effetti devastanti su nostra figlia; effetti che né io né la madre eravamo più in grado di arginare. Le nuove squame a poco a poco avevano coperto l’intera superficie. E l’unione delle due gambe di mia figlia era diventata indiscutibilmente una coda di pesce. Silvana non faceva altro che piangere vedendo il corpo raggrinzito, ferito e flaccido della figlia lasciare grandi aloni di liquido biancastro sulle lenzuola, come se ogni notte si sciogliesse sempre di più fino a scomparire completamente. La spiava nel buio, ne ascoltava il respiro divenuto oramai un rantolo sottile che filtrava da due piccole branchie sbucate sotto il collo. Giallastre e molto secche, emettevano un fischio sinistro che sembravano quasi richiamare la morte.
Malgrado le rassicurazioni del dottor Vitti, la notte in cui Silvana trovò Ariela in un bagno di acqua appiccicosa dall’odore di ammoniaca e raggomitolata su sé stessa, gli occhi aperti e opachi, il ventre rigonfio e flaccido, decisi di fare qualcosa. La pelle smorta, aderente al corpo trasparente, lasciava intravedere di nuovo gli organi interni. Il cuore a malapena batteva, il sangue stagnava nei vasi violacei. Forse era troppo tardi, pensai. Sapevo che Giuseppe era tornato e che passava ogni sera sotto le nostre finestre sul mare con la sua barca, forse nella speranza di un cenno, di un sorriso di mia figlia. E una di quelle sere lo bloccai giù al porticciolo. «Devi fare qualcosa, sta morendo. Portala via, nel mare laggiù», lo implorai. Trasportammo il corpo inerme di Ariela dalla camera da letto alla cucina e lo adagiammo con delicatezza sul tavolo di marmo. La spogliammo. E malgrado fosse oramai allo stremo, trasalimmo di fronte alla sua splendida nudità di sirena. La avvolgemmo in un lenzuolo bianco ricamato a mano da Silvana nelle lunghe serate invernali e la trasportammo senza fatica sulla barca di Giuseppe che ci attendeva tremando nel buio del porto.
Il corpo di mia figlia era immobile e trasparente. Solo un sottile fischio che emetteva richiamava in noi un’idea di vita. E fu quello, credo, a darci la forza di abbandonarla al mare.
Guardammo la barca allontanarsi piano. Io e Silvana ritornammo a casa. Nel salotto il fuoco era ancora acceso. Versai un bicchiere di rhum a testa che bevemmo tutto d’un sorso. Poi Silvana crollò, piegò il collo di lato, e cominciò a strapparsi i capelli masticando un’incomprensibile litania. Piansi anch’io. Ci addormentammo così, ebbri di pianto e di rhum.
Trovarono il lenzuolo ricamato sul piccolo scoglio di Leucosia, insieme alla barca di Giuseppe lì tirata in secco; mentre di lui e Ariela non si seppe più nulla. Nessuno dei due fece ritorno. I pescatori ancora oggi ne parlano. Mi hanno raccontano che qualcuno di loro, passando lì accanto, abbia udito la voce dolce di lei salutare dal fondale. Per questo fanno attenzione a non calare le loro reti lì intorno, per non rischiare di impigliare i due amanti. Ma queste sono solo storie di pescatori, si sa. Io, dal canto mio, ho comprato una piccola barca che ho chiamato Ariela. E remando ogni giorno raggiungo lo scoglio, mi sistemo e inizio a suonare l’armonica. Nel fruscio sottile delle onde non ho mai sentito la sua voce melodiosa, ma a volte capita che una conchiglia bianca e rosa inaspettatamente rotoli sulla superficie ruvida della roccia fino a me. Così resto lì e suono più forte fino al calar del sole.