La vecchia del piano di sotto, una strega, mi aveva avvertito: «Se ti azzardi un’altra volta a scrollare la tovaglia dalla finestra, io ti maledico!». Poi la sera mandavano in onda Montalbano, e io e Anna ci siamo rilassati sul divano mangiando noccioline mentre Giulietta se ne stava in camera sua a giocare con il camper di Barbie. Quando è arrivata la pubblicità Anna si è messa a sistemare la cucina e io, per aiutarla, ho preso la tovaglia e l’ho scrollata fuori dalla finestra. Appena mi sono ricordato della vecchia e delle bucce di noccioline, ormai era troppo tardi: stavano tutte in bella vista sul pavimento del terrazzino della strega. Dieci secondi dopo ha suonato il campanello della porta. Sono andato ad aprire ed eccola lì, la vecchia. Sembrava calma, e ho pensato che anche quella volta l’avrei passata liscia. Invece ha cominciato a dire delle cose che non ho capito, ma siccome è della provincia di Benevento ho immaginato che si trattasse di dialetto. «Mi scusi, non succederà più». Lei ha aggiunto un’altra cosa incomprensibile, con un ghigno un po’ sinistro. «Capisco, scusi ancora e buonanotte anche a lei». Poi ho richiuso la porta. Sono tornato a mettermi sul divano per continuare a vedere Montalbano, e di colpo ho sentito Anna urlare: «Giulia, Giulia! Giulietta!». Corso di là, ho trovato Giulia distesa sul tappeto rosso comprato all’Ikea. In mano aveva una puntina da disegno caduta dal muro insieme al foglio con un cuore e una farfalla verde e blu disegnati da lei. Sull’indice della manina sinistra, accanto alla puntina da disegno, ho visto una piccola goccia di sangue. Giulia aveva gli occhi chiusi, non parlava, e respirava lentamente. Ho provato a strattonarla un po’, ma niente da fare. Ci siamo fiondati giù di corsa per le scale, diretti in ospedale. E passando di fronte alla porta della vecchia strega mi ricordo che ho avuto come la sensazione che lei ci stesse osservando dallo spioncino, ridacchiandosela. Anzi, ho proprio avuto l’impressione che lo spioncino si fosse trasformato nel suo occhio, con tanto di cataratta e tutto venato di rosso. Che follia, ho pensato.
Giunti al Pronto Soccorso, le infermiere, vedendo che si trattava di una bambina, ci hanno fatto passare subito. Poi sono arrivate altre due infermiere tracagnotte, un medico belloccio e hanno caricato Giulia sul lettino con le rotelle. Hanno spinto la barella giù di corsa per il corridoio, in uno svolazzare di camici bianchi, stetoscopi e scricchiolii di zoccoli di gomma verde. Io e Anna siamo rimasti in piedi, sospesi e senza parole. Lei piangeva. Ha appoggiato la testa sulla mia spalla e solo in quel momento mi sono reso conto di stringere in mano Minnie, il pupazzo preferito di Giulia. Quando sono tornate le infermiere ci hanno detto che andava tutto bene. È passato ancora del tempo, e Anna ha ripreso a piangere. Ho messo Minnie sulla sedia di fronte a noi. Ci siamo guardati per un bel po’ di tempo finché Anna si è addormentata, e fra gli incubi ha cominciato a parlare da sola. All’alba si sono riaffacciate le due infermiere, dicendoci che prima di fine turno ci avrebbero accompagnato da Giulia.
E poi eccola lì, sola nella stanzetta e distesa su un letto d’ospedale; fili dappertutto, monitor che lampeggiavano, l’asta con la flebo… Giulia era immobile e teneva gli occhi chiusi, solo il torace si alzava e si abbassava. Appoggiammo Minnie accanto a lei, come sul lettino di casa. Anna riprese a piangere. Le infermiere ci salutarono, indicandoci la porta in cui trovare il medico. Ci precipitammo subito. Bussammo.
«Avanti»
«Allora, sedete pure. Siete i genitori della bambina?»
«Sì», risposi prontamente.
«Bene. Innanzitutto vi dico subito di stare tranquilli, la piccola non ha niente. Abbiamo fatto tutti i controlli del caso: prelievi, TAC, lastre, ecografie. Tutto a posto. Però…»
«Però?»
«Ecco, però è come se il meccanismo del risveglio le si fosse inceppato. Dorme fino a quando sembrerebbe che si stia per svegliare, ma poi ripiomba nel torpore più assoluto. Insomma, non è nulla di grave, ma non si riesce a svegliare. Si tratta di un caso molto complesso che stiamo affrontando con l’aiuto di altri colleghi. Dovete pazientare.»
Io e Anna siamo rimasti zitti per un po’ e con le facce imbambolate. Poi Anna ha cominciato a fare domande senza senso e io a guardarmi intorno. Alle spalle del dottore belloccio c’era, da destra verso sinistra: laurea con lode presa alla Sapienza, master ad Harvard sulle terapie anestetiche neonatali, dottorato di ricerca a Stoccarda sulle applicazioni dell’interferone in pediatria, premio come primo relatore a un congresso internazionale di Miami, biglietto dei quarti di finale Champions League Roma Barcellona 3-0 con su scritto ‘Io c’ero’. E, infine, sulla scrivania foto di famiglia con moglie, figlio, figlia tutti bellissimi e SUV gigantesco sullo sfondo.
Ho fatto un cenno ad Anna con lo sguardo, come per dirle che dovevamo fidarci del dottore. Lei mi ha guardato, ha chiuso un istante gli occhi, e ci siamo alzati.
«Dottore, noi torniamo di là. Lei passerà più tardi?»
«Certo! Siate fiduciosi, vedrà che in giornata ci saranno dei miglioramenti.»
«Va bene, aspettiamo. A dopo.»
*
Oggi è il compleanno di Giulia. Sono passati due mesi e Giulia dorme ancora.
Anna mentre le taglia le unghiette delle mani e dei piedini, mentre le sistema i capelli che si stanno allungando in una morbida matassa castana sul cuscino, dice di aver fatto un sogno questa notte. Nel sogno c’era Giulia che dormiva da un sacco di tempo sul suo lettino; ma questo era un fatto normale perché in quel mondo in cui trovavamo le notti duravano lunghi mesi. A me quest’idea di noi tre che dormivamo tranquilli rotolando nell’universo, su un pianeta sconosciuto e in attesa dell’alba, è piaciuta molto. Mentre parlavamo sono arrivate le infermiere tracagnotte, chiedendoci se nel pomeriggio potevano organizzare per Giulia una festa con tutti i ragazzini del reparto. ‘Perché no?’, abbiamo pensato.
E adesso eccoli qua. Li guardiamo uno a uno mentre aspettano la torta e giocano sotto la blanda sorveglianza delle infermiere. Ognuno di loro porta qualche segno del motivo per cui si trova qui, ma come tutti i bambini se ne fregano e aspettano solo il momento che tutto passi, sorridendo. Curiosamente sia io che Anna ci soffermiamo a guardare quel bambino magrolino con i capelli biondi e dal bellissimo pigiamino azzurro. «Guarda che bello, il suo pigiamino sembra quasi di seta. La mamma sarà dei Parioli, o di qualche quartiere del centro», dice Anna. Poi il ragazzino, come se ci avesse sentito parlare di lui, si avvicina verso di noi dicendo: «Buonasera signori, potrei dare un bacetto a Giulia per il suo compleanno? Posso farlo?».
‘Che bambino educato’, penso. E Anna, di getto: «Ma certo, fai pure». Poi lo solleva con tutte le ciabattine, azzurre anche quelle, sullo sgabello che usiamo per aprire e chiudere la finestra in alto. Lui si sistema su quello sgabello e, improvvisamente, noto che gli altri bambini smettono di giocare e vengono a disporsi tutti attorno al letto di Giulia. Anche le infermiere tracagnotte non spettegolano più e alzano lo sguardo per vedere cosa sta succedendo. Fuori dalla stanza mi sembra che pazienti, infermieri, medici, parenti avanzino come al rallentatore. E allora, in quest’aria così spessa, il magrolino dal bellissimo pigiamino azzurro scosta un po’ i lunghi capelli di Giulia dalla guancia e le da’ un bacio. ‘Ma sì, è solo un bacetto’, ho pensato. Ridiscende dallo sgabello, e proprio mentre immagino che torni a giocare con gli altri vedo il pupazzo di Minnie alzarsi dal letto e andare verso la faccetta di Giulia. Solo che non è il pupazzo che si muove da solo: è Giulia che l’ha preso e se l’è portato al naso per odorarlo, come fa tutte le mattine. Sentire Giulia chiamare ‘Mamma!’ con gli occhi aperti, è stato un regalo che non so spiegare. E io a Giulia non riesco neppure ad avvicinarmi, visto che Anna più che abbracciarla la vuole fagocitare. Le infermiere intervengono prontamente per misurarle i parametri vitali e i tutti i ragazzini hanno facce stupefatte. Mi rivolgo verso il biondo magrolino, vorrei solo chiedergli una cosa. Ma faccio appena in tempo a girarmi che in un guizzo di pigiama azzurro lui è già fuori dalla stanza. E tra azzurre giravolte si infila tra un portantino e un signore con la maschera dell’ossigeno, evita il carrello con le iniezioni ed eccolo lì in fondo al corridoio: oltrepassa la porta a vetri, e già non lo vedo più.