Questo racconto è stato scritto durante il laboratorio di autobiografia diretto da Rossana Campo per la Scuola Omero.
Quando sei piccola e hai un fratello più grande è normale volerlo conquistare.
Francesca era più piccola del fratello di otto anni e ogni volta che le era possibile si abbandonava a una dedita contemplazione di ogni suo gesto con approvazione e stima, a prescindere da cosa si trattasse. Si appostava sul fratino dalla sala di fronte a lui tutti i pomeriggi, saliva in piedi sulla sedia e si poggiava sui gomiti tutta sporta in avanti, tanto per essere sicura di non perdersi nemmeno un sospiro diverso dal solito. E guardava, rapita dalla straordinaria concentrazione del fratello, all’epoca adolescente, intento a fare i compiti, sognando il momento in cui anche lei avrebbe imparato a scrivere. Osservava la sua espressione seria mentre scriveva, la testa che si inclinava a destra e a sinistra ad ogni punto a capo, la fronte che si corrugava quando era il momento di fare il ricciolino alla lettera maiuscola. Si incantava sui movimenti a intermittenza della penna stilografica, e sulle linee e i cerchietti che si susseguivano. Le lettere sembravano assomigliarsi tutte eppure erano messe ogni volta in ordine diverso; le piaceva il modo in cui si alternavano le frasi, talvolta più corte, talvolta più lunghe. Il foglio scritto la rapiva. Zampillava sempre intorno a lui, Francesca. Desiderava stargli intorno per studiarlo o anche solo guardarlo ogni tanto con la coda dell’occhio. Le volte in cui riusciva effettivamente a farlo, però, erano molto poche: lui preferiva lasciarla fuori dalla stanza.
Crescendo, anche Francesca aveva iniziato ad andare a scuola e ad avere le sue amicizie, ed erano radi i momenti in cui le capitava di condividere qualcosa con il fratellone maggiore: Marco aveva la sua vita, di cui ovviamente la sorella non doveva sapere assolutamente nulla. Francesca si comportava allo stesso modo, tutta affaccendata in amicizie e nuovi amori. La loro interazione di limitava a chiacchiere rapide e di routine; uno scambio di informazioni distratto su mamma e papà, cene o incontri di famiglia la casa da sistemare. Ma mai un abbraccio, mai una parola affettuosa. Nessuno dei due, per qualche motivo, avrebbe mai osato fare un passo del genere. Ciononostante, il bene che Francesca voleva a suo fratello era senza dubbio il più grande mai provato. Lo amava, e mai aveva smesso di coltivare quell’ammirazione segreta nei suoi confronti, quella stima, la voglia di riuscire ad assomigliargli. Ogni volta che rientrava in casa portava serenità, una folata d’aria che di passaggio prendeva con sé quel che di stantio si respirava. Contavano sempre i gesti, le parole e i pensieri espressi da Marco in relazione a lei. Nonostante non sapesse molto riguardo la sua vita, Francesca centellinava tutto. E anche se suo fratello talvolta non rispondeva alle sue domande, era certa che non fosse per mancanza di attenzione o noncuranza. No, lei assumeva ogni sua parola come se lui avesse il potere concreto di definirla. Era importante quanto la parola del padre, indiscutibile. E se scappavano parole di disapprovazione come succedeva spesso, se le scolpiva sul petto, spingendo ben bene in profondità con la punta affilata del primo oggetto che le capitava sottomano, per essere sicura che non si cancellasse niente. E per quanto pungente fosse il dolore della delusione, il modo in cui rimaneva a fissare le goccioline di sangue scorrere dalle incisioni sul petto fino all’ombelico, le infondeva tranquillità e non riusciva a distoglierne lo sguardo. Se lo meritava.
Il contatto e la comunicazione erano quelli che erano, si erano talmente stabilizzati che sarebbe stato difficile anche solo immaginare un rapporto diverso. Eppure, in alcuni momenti, da qualche parte nel corpo, la mancanza di due parole o gesti affettuosi Francesca la sentiva. Ma come sempre non si permetteva a chiederne nemmeno un pizzico, a nessuno. Era una delle cose che più probabilmente la facevano vergognare. E poi chissà come avrebbe reagito Marco, era impossibile solo pensarlo in un momento così sensibile e delicato.
Nel frattempo passavano gli anni. Marco era andato a studiare odontoiatria in Spagna; cinque anni lontano da casa. E Francesca, ormai maggiorenne, aveva iniziato a fare i conti con impicci strani, grovigli indecifrabili in cui un giorno era inciampata. Tutti concentrati nella pancia. E fu a causa loro che, un giorno d’agosto, lasciò interdetta la famiglia.
Una cosa di Francesca non era mai cambiata con la crescita: il silenzio. Lei non chiedeva mai, si chiudeva. Non parlava, non si esprimeva eppure, soprattutto nell’ultimo periodo, sentiva qualcosa dentro di sé urlare e agitarsi come uno scalmanato, abbastanza forte e tanto da essere sentito. Impiegava intere giornate a contemplare quei grovigli con una concentrazione tale da dimenticarsi di mangiare, di uscire, di respirare. Ogni giornata si concludeva allo stesso modo: niente di risolto, e la prospettiva del futuro erano giorni esattamente identici a quelli passati. Finché un giorno, quella quiete particolare che caratterizzava le sue giornate iniziò a comprometterle la vista, e il pensiero. Inibiva la mente, ovattava i sensi. E la mattina di un giorno d’agosto, stanca come mai, non riuscì a contrastare quell’offuscamento di lucidità che lentamente e con passo felpato aveva incatenato ogni tipo di sua volontà.
Al reparto psichiatrico dell’ospedale dove l’avevano messa, camminava in pigiama per il corridoio bianco spaesata più di prima, trascinando le gambe nella speranza di smuoverle, di svegliarle così che potessero portarla in un posto diverso. Con lo sguardo perso e opaco faceva scorrere le mani sulle pareti bianche del corridoio del reparto, avanti e indietro come se volesse scovare una qualche incrinatura, un posto segreto magari, di un bianco macchiato. Servivano le mani, il tatto era l’unico senso con cui le sembrava ancora di avvertire qualcosa. Nella tranquillità di quel posto infernale, al di là del corpo rallentato c’era una confusione abissale alla quale aveva contribuito in parte anche la nuova terapia che le era stata somministrata: Quetiapina, la sera alle otto. Sentiva di non avere il controllo sul corpo, avrebbe giurato di non essere lei dentro quella carne: lei era molto più leggera.
Passò cinque giorni rinchiusa da una porta a codice, senza nessun tipo di contatto con il mondo esterno. Anche le finestre erano oscurate, dei fogli bianchi erano stati attaccati ai vetri e l’unico sprazzo di luce naturale penetrava attraverso le sbarre di una finestra in sala fumatori aperta poco più di quindici centimetri. Ogni ora, al momento della sigaretta, fuori dal reparto era certo che non sarebbe mancato il polso sottile e la mano pallida di Francesca, che si muoveva lenta come per accarezzare qualcosa di fragile e delicato, in cerca del punto esatto in cui avrebbe percepito l’equilibrio perfetto tra il minimo movimento d’aria e il calore dei raggi del sole di agosto. Anche lì si incantava a guardare la sua mano illuminata dal sole come se mai avesse visto alcunché di simile; la girava, la muoveva, la toccava con l’altra mano come per sentire se quel calore, quell’aria nuova proveniente da un mondo che poteva benissimo essere estraneo e senza possibilità di essere raggiunto le avesse lasciato un marchio, un segno che confermasse un contatto. Suo fratello le faceva visita ogni giorno. Entrava e iniziava a parlarle di casa, di quando sarebbero tornati dal mare mamma e papà, del master che stava preparando. Sebbene alla sola allusione della sua famiglia sentiva salire l’angoscia fino alla gola, tra le parole distingueva lo sforzo di Marco nel creare un clima tranquillo, sereno. Una vicinanza che andasse al di là delle circostanze, che risuonasse come una tranquilla chiacchierata in sala. Ecco, aveva un sapore simile alle chiacchierate domenicali, dopo pranzo. Marco seduto sul bracciolo del divano e Francesca di fronte, appoggiata con la schiena al fratino. Entrambi in posizioni precarie e instabili, che lasciavano trasparire che di lì a poco ognuno sarebbe andato per la sua strada. Un senso di gratitudine la pervase, insieme alla sensazione di un affetto ancora più grande per il fratello, tanto da farle rilassare le spalle.
Il terzo giorno Marco le portò un libro di Harry Potter. Quella saga era un filo conduttore, un pezzo di vita per entrambi. Lui sin dal primo libro l’aveva amata, tanto che appena ne usciva uno nuovo, lo ordinava in inglese perché non poteva aspettare la stampa italiana. Francesca ovviamente, standogli sempre appresso ne era stata accompagnata nella crescita, era troppo piccola all’epoca per leggere i libri, ma bastò l’entusiasmo del fratello a convincerla che non avrebbe potuto fare altro se non amarla. Un amore coltivato da ricordi sereni, alimentato dal calore che gli stessi ricordi non avevano mai mancato di trasmettere. Ecco, le aveva portato quel libro come se fosse a conoscenza del conforto che le avrebbe trasmesso. Lo appoggiò sul comodino, ringraziando il fratello in maniera non troppo diversa dal solito, e rimase con lui a chiacchierare fino alla fine dell’orario di visita. Quando Marco se ne andò, venne spontaneo a Francesca aprire subito il libro per potersi immergere in quell’atmosfera che ogni volta, in ogni circostanza, aveva la capacità di portarla fino a casa, a quando era bambina. Aperto il libro, scivolò fuori una fotografia. Ritraeva i fratelli, compresa la più piccolina, Stella, davanti a un articolatissimo modellino del castello di Hagwarts. Dietro la foto una scritta a matita, in stampatello, che diceva ‘Ti voglio bene’. Il corpo di Francesca iniziò a scaldarsi, il viso ad arrossire per il tentativo di mantenere il controllo: se avesse iniziato a piangere sarebbe finita in ginocchio di fronte a tutto quello a cui aveva sempre cercato di resistere. Le lacrime le offuscavano la vista, le asciugò in fretta con la manica del pigiama per poter rileggere ancora una volta, per essere sicura che la scritta fosse ancora lì. Poi guardò le pareti bianche della stanza. Per la prima volta riuscì a sentire Marco al suo fianco. Per la prima volta suo fratello le aveva soffiato sul viso, e nel tempo del soffio le aveva spostato le ciocche castane dagli occhi.