L’essere spugna

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Illustrazione di Agrin Amedì
Io e Filippo avevamo rotto dopo quattro anni di alti e bassi. Il suo ennesimo tradimento mi aveva umiliata; il modo in cui aveva confessato tutto, senza tentare di negare, senza cercare di salvare qualcosa mi aveva annientata, distrutta

Io e Filippo avevamo rotto dopo quattro anni di alti e bassi. Il suo ennesimo tradimento mi aveva umiliata; il modo in cui aveva confessato tutto, senza tentare di negare, senza cercare di salvare qualcosa mi aveva annientata, distrutta. Avevo bevuto, avevo bevuto troppo. Quando ho aperto gli occhi di colpo, per un momento, solo per un momento, ho avuto la sensazione di aver sognato tutto. Poi ho visto la luce del lampione della strada, ho sentito gli occhi incrostati di lacrime, una morsa a stringermi lo stomaco e una boccata acida fino alla gola. Mi sono alzata, non molto stabile sui piedi ho raggiunto la cucina, acceso la luce, aperto il rubinetto dell’acqua e bevuto a grandi sorsate. La testa girava e mi sono appoggiata al lavandino per non cadere. Allora l’ho visto: morbido e tondeggiante, come un grande palloncino un po’ deformato, bianco latte, senza piedi, né mani, né bocca. Solo occhi. Mi guardava dall’altra parte del tavolo sbattendo le palpebre. Non avevo la forza di urlare. Cos’era? Com’era entrato? Avrei dovuto essere spaventata ma non lo ero. Lui invece sembrava perplesso. Mi sono avvicinata a passi lenti, lui continuava a sbattere le palpebre. Mi sono inginocchiata per guardarlo e in pochi secondi i suoi occhi sono diventati piccoli come spilli e il colore è passato rapidamente dal bianco all’azzurro e poi a un rosso scuro come il sangue.
Quell’essere non avendo bocca non parlava, ma sembrava soffrire molto. Ho provato a toccarlo, la mia mano è un po’ affondata nella sua pelle – non saprei come altro chiamarla – che era morbida e liscia e calda. Tanto calda. Ho cominciato ad accarezzarlo per istinto e sembrava funzionare: il calore diminuiva e anche l’intensità del rosso adesso tendeva al rosa pallido. Fuori stava albeggiando, mi sono buttata sul divano. L’essere è rimasto per un po’ in cucina, poi mi ha seguita nell’altra stanza fluttuando nell’aria. Mentre cercavo di riempire i vuoti di memoria sulla sera precedente, nell’intento di capire se l’essere fosse già presente al mio ritorno, se la avessi trovato da qualche parte o se si fosse semplicemente materializzato d’improvviso, mi sono resa conto che il mio stomaco era perfettamente rilassato. Non stavo pensando a Filippo, non ero triste e nemmeno arrabbiata in quel momento. Ero perfettamente calma, la mia testa era altrove e il cuore taceva. Strano, pensavo. E all’improvviso il telefono ha cominciato a squillare. Io sono saltata in piedi e l’essere ha cominciato a fluttuare rapidamente da un lato e dall’altro della casa come per guardarsi intorno. Ho riposto più in fretta che ho potuto.
«Tesoro come stai? Tua sorella mi ha detto tutto…»
«Uhm sì, mamma, sto bene. Tranquilla, sto bene!»
«Senti, penso che forse dovresti venire qui per qualche giorno. Se stai in quella casa tutta sola sto in pensiero per te.»
«No, davvero. Cioè grazie, ma preferisco stare qui.»
«Non fare la testarda, su! Almeno hai mangiato qualcosa?»
«Senti mamma, devo andare che ho un sacco di lavoro. Sto bene, stai tranquilla, ci sentiamo presto, un bacio.» E ho riattaccato. L’essere continuava da dondolarsi da un lato e dall’altro, lentamente. Era mamma, era solo mamma… Ora stava ingrigendo. Però che stronza ero stata con mamma, voleva solo essere gentile e le avevo praticamente attaccato in faccia. Vabbè, avrebbe capito. Il senso di colpa durò molto poco e l’essere cominciava a tornare al suo colore normale. Ma che fare? Non mi sembrava il caso di chiamare nessuno, sembrava tutt’altro che pericoloso e comunque mi avrebbero presa per una pazza. Forse avrei dovuto parlare con Claudia, ieri eravamo insieme al locale; forse sapeva qualcosa, forse l’aveva visto anche lei e comunque era la mia più cara amica non mi avrebbe presa per una pazza. No, lo avrebbe fatto anche lei, meglio lasciar perdere. C’era bisogno di un po’ di tempo per capire. Per fortuna essendo un architetto potevo lavorare anche da casa, non dovevo uscire. O forse sì? Avevo fame. Ho controllato nel frigorifero, non avevo niente. Mi sono lavata e vestita in fretta. L’essere era ancora in salotto e fluttuava, bianco. «Ascolta io devo uscire, devo comprare qualcosa da mangiare. Mi capisci? Ma torno presto, tu stai qui tranquillo, va tutto bene» Ovviamente non poteva rispondermi. Ho chiuso le tende perché non lo vedessero i vicini, ho chiuso la porta della sala perché non fluttuasse altrove e poi mi sono chiusa dietro la porta di casa. Uscendo dal portone mi sono guardata intorno, poi ho raggiunto il supermercato più vicino e ho messo nel carrello cibi a caso. Il mio pensiero non si staccava da lui. Mi sentivo un po’ in colpa; da una parte speravo che tornando a casa fosse sparito e dall’altra temevo che si fosse fatto male, che fosse svanito così come era comparso.
Ho aperto la porta, buttato la busta della spesa in cucina e sono corsa a vede dove fosse. Era ancora lì. Grigio, gli occhi bassi. Mi sono avvicinata a lui. «Ho fatto più presto che ho potuto» Ma diamine, cosa stavo facendo? In fondo non ero responsabile per lui. No, non mi sentivo in colpa, non era un bambino e nemmeno un animale. Era solo… Solo un essere singolare.
Nella mia tasca qualcosa stava vibrando da almeno qualche minuto, il cellulare. Sullo schermo lampeggiava la scritta ‘Filippo’. Ho cominciato a tremare, ho lasciato cadere il telefono sul divano e ci ho buttato un cuscino sopra per non sentirlo, per non vedere nemmeno il suo nome. Il cuore in gola, non riuscivo a respirare. E l’essere stava lì con gli occhi sgranati facendosi rossastro, poi più scuro, quasi nero e ancora rosso e roteava in aria come se fosse impazzito. «Non ci posso fare niente, che vuoi da me? Non posso aiutarti, non vedi come sto?» Mi sono accasciata sul pavimento cercando di respirare lentamente. Man mano che il mio cuore diminuiva i battiti, l’essere ha cominciato a rallentare, a rallentare fino a ballonzolarmi davanti, esausto. Era evidente che ci fosse una connessione fra me e lui; sembrava provare i miei stessi sentimenti, dare loro un colore, un movimento. Non solo, sembrava farsi carico di quegli stessi sentimenti, assorbirli. Come fosse una spugna.
La sera prima, fra le lacrime, avevo urlato che non volevo più sentire alcun dolore. Non volevo più niente. Avevo desiderato che mi si strappasse pure l’anima. E ora eccolo lì l’essere, con me eppure separato, con i suoi occhi e la pelle sottile pronto a sbattermi in faccia gli effetti di quello che avevo sperato. Potevo vedere il colore della mia rabbia, del mio rancore, del senso di colpa, della paura e sentirne il peso solo sul corpo; per poco. Perché il corpo, ho scoperto, si cura in fretta se l’anima non ricorda. Da allora lo tengo con me, libero quando nessuno lo vede, chiuso se incontro qualcuno. A volte lo stringo, altre volte lo ignoro. Lui si prende tutto e io non sento più niente.

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