Tutti tranne te

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Illustrazione di Agrin Amedì
Come faccio sempre in questi casi, mi guardo intorno. C’è la solita folla, qualche idiota si fa il selfie con lo sfondo del palazzo, le macchine rallentano, creano l’ingorgo, i vigili si innervosiscono.

Come faccio sempre in questi casi, mi guardo intorno. C’è la solita folla, qualche idiota si fa il selfie con lo sfondo del palazzo, le macchine rallentano, creano l’ingorgo, i vigili si innervosiscono. Solitamente è in questo momento che abbaiano i cani al guinzaglio dei curiosi e persino i piccioni sul tetto della casa in questione muovono il collo su e giù, destra e sinistra con maggiore partecipazione. Il commissario mi presenta al marito, che mi stringe la mano con un arto sudaticcio e molle. Vorrei pulirmi in fretta con un po’ di amuchina, ma non voglio sembrare maleducato. Il marito non mi va a genio, da subito. Indossa un cravattino-farfallino-papillon che non saprei definire. È un tipo stazzonato, i vestiti buttati addosso a casaccio. Sembra uscito da una lavasecco gigante. Mi dice che la moglie si chiama Marisella. Proprio così. Allora prendo il megafono, mi faccio un po’ di spazio schermandomi gli occhi dal sole di ottobre ancora insolitamente caldo e inizio a lavorare sul serio, che il tempo stringe assai in questi casi.
Dura è la vita per noi convertitori di aspiranti suicidi.
“Marisella, ciao sono Francesco. Senti, ti dico subito che fino ad adesso ti hanno raccontato un sacco di stupidaggini: che la vita è bella, un dono meraviglioso, non sprecarla, scendi di lì che si aggiusta tutto e via di seguito…”
Sento un fremito di sbigottimento tra la folla, e anche il farfallino prende una piega storta. Marisella all’improvviso ciondola pericolosamente una gamba nel vuoto. Bene, penso, sono sulla strada giusta, ho la sua attenzione.
E riprendo.
“Sarà che viviamo in un mondo dove tutti sembra che ce l’abbiano fatta, no? Tutti che a sentirli lottano come leoni, sconfiggono le malattie, la malasorte, vincono con i grattini del tabaccaio, si fanno strada, hanno capito come vanno le cose. Certo, tutti tranne te, Marisella. Perché tu ti senti inadeguata. Lo so. Lo vedo. Altrimenti che ci stai a fare lassù, attaccata al cornicione, eh?”
Il cravattino si fa avanti, vorrebbe affiancarmi nella lotta, ma lo fulmino con uno sguardo e arretra subito in un fruscio di cenci sgualciti. Ha considerato i miei 190 cm per 110 kg e da qualche profonda connessione neurale del suo cervello gli è partito un ancestrale messaggio di allerta. Così dico alla moglie, indicando alle mie spalle: “Ma per caso hai qualche problema con questo coglione qui?”.
I curiosi assiepati ridacchiano, il papillon sbiadisce avvizzendo al sole del pomeriggio.
Mi giro a guardare e continuo: “Beh, non ne vale la pena, credimi. Ma adesso ti voglio raccontare una cosa…”.
La folla si dispone ad ascoltare, le orecchie si sintonizzano come le parabole delle tivù, il farfallino riprende un po’ di colore. Due gabbiani grossi come astronavi si poggiano su una antenna dei telefonini. Solo Marisella, dall’alto, non accenna reazione, con le gambe che scalciano l’aria secca come fosse su un’altalena.
Le faccio: “Qualche tempo fa c’era uno come te dall’altra parte della città. Ero lì, volevo farlo scendere, proprio come adesso. Sai una cosa? In un certo senso, lui l’ha fatto. Ci siamo capiti. Ma non è morto, Marisella. No no. Sono andato a trovarlo. È rimasto paralizzato. Sì. Ci ho parlato un po’. Sai che mi ha detto? Che non riesce a smettere di pensare e ricordare a quei pochi secondi mentre cadeva, li rivede in continuazione e sente il dolore delle ossa che si spezzano. E poi mi fa avvicinare perché non è che abbia più una voce da tenore, ci siamo capiti, e mi dice sussurrando che sono tutte balle le storie che quando stai per morire rivedi la tua vita in pochi attimi. Certo che no, sono solo storie buone per un film di Halloween. Lui non ha rivisto proprio niente. Però mi ha detto che mentre cadeva si era pentito; non avrebbe più voluto saltare giù; che la vita comunque gli faceva schifo ed era giusto fare così, ma ormai era troppo tardi. E che però avrebbe solo voluto riavvolgere un po’ il nastro di quegli ultimi secondi e ritornare sul tetto e non buttarsi più. Sai cosa mi ha detto? Che voleva solo un’altra possibilità. Solo questo. Tornare indietro, come il tasto sul telecomando di Sky, e ritrovarsi intero sul tetto per avere un’altra possibilità. Tutto qui. Sì. L’ha detto tre volte, volevo solo avere un’altra possibilità”.
Si è creato un silenzio strano alle mie spalle. Il cravattino non fa una grinza, che poi è già un risultato notevole…
Marisella si è alzata sullo strapuntino del cornicione. Non è un buon segno. Però si sostiene alla tubazione condominiale dell’acqua. E questo è un buon segno. Allora tento il tutto per tutto, e le urlo: “Da piccolo mi piaceva sfogliare gli elenchi del telefono, lo sai? Avevano quei fogli sottili che si appiccicavano alle dita e il profumo di inchiostro non se ne andava mai. Cercavo le famiglie che avevano il cognome come il mio, o quelli più comuni, con tante pagine impegnate, o i cognomi che potevano sembrare una parolaccia. Vedevo tutti quei numeri in sequenza e mi perdevo nelle cifre; mi sembrava che il mondo potesse entrare dal filo del telefono. Che è quello che succede adesso per davvero, no? Che dici, Marisella? A te cosa piaceva da bambina? Che cosa ti piacerebbe fare ancora che non potresti più fare se saltassi?”
E chiudo il megafono. So che questo è il momento peggiore. Devo aspettare. Mi gratto sotto il mento, c’è una barba di quattro giorni che mi dà fastidio. Prude. Un po’ di sudore mi cola dal viso. La folla dietro sembra ondeggiare. Dall’altra parte del Tevere il traffico scorre. Anzi, non scorre come al solito. Penso alle macchine in doppia fila. Penso che ho dimenticato di dare da mangiare al gatto. Penso a mia moglie che è a scuola con i suoi studenti. Penso a mia figlia che ieri ha deciso di provare a lavorare subito, dopo il diploma, e non vuole iscriversi a nessuna ‘fottuta università’ come dice lei. Penso che i platani del Lungotevere abbiano proprio voglia di buttare a fiume il peso delle loro foglie gialle e riposarsi nel pigro inverno che verrà. Penso che ho abbracciato mia figlia a lungo e le ho detto che era la cosa giusta, se davvero lo desiderava. Sto pensando a tutto questo e intanto le urla di Marisella mi sembra vengano da Marte; e invece è lei, sul cornicione; è lei già rientrata nel vano della finestra; è lei disperata che strilla e strilla e strilla… “Lo zucchero filato! Lo zucchero filato mi piaceva, sì. Sì. Papà non me lo faceva mangiare, ma a me piaceva, piaceva tanto…”
E poi qualcuno la prende, spero con delicatezza, spero con dolcezza…
“Sei stata coraggiosa, ti sei data un’altra possibilità. E la parte difficile viene adesso…”, le dico a bassa voce, perché ho finito e non ho più il megafono e cammino un po’ curvo verso la macchina parcheggiata come sempre in divieto di sosta.
Già da qui vedo la multa sul tergicristallo.

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