Metamorfosi

di

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Illustrazione di Agrin Amedì
La giornata era stata pesante e afosa e il giardino, pieno di fiori disfatti e di foglie marcite in una vasca, odorava come di putredine. Mi sedetti stanca sulla panchina e lentamente mi addormentai.

Questo racconto è stato scritto durante il laboratorio di Scrittura Creativa per gli anziani,
diretto da Enrico Valenzi presso il Municipio I di Roma.

 

 

La giornata era stata pesante e afosa e il giardino, pieno di fiori disfatti e di foglie marcite in una vasca, odorava come di putredine. Mi sedetti stanca sulla panchina e lentamente mi addormentai.
Fui svegliata da un vociare confuso. Aprii gli occhi e mi vidi circondata da persone timorose e curiose che mi osservavano e dicevano cose come: “Una bestia mai vista!”, “Guarda che strano animale!”, “Non ha l’aria di essere feroce, ma è tanto bizzarro!”.
Mi mossi e tutti si scostarono impauriti. Cercai di alzarmi dalla panchina, ma fu molto difficile perché non riuscivo a coordinare i movimenti. Mi guardai e non riconobbi il mio corpo, che era tutto bianco e come ricoperto da un folto velluto. E le mani non erano più mani. Erano diventate zampe e all’estremità avevano dei piccoli zoccoli animali. Anche i piedi si erano trasformati in quel modo. Con una delle zampe mi toccai il viso. Lo sentii lungo, umido, fremente, ricoperto da una specie di folto velluto, come il corpo. Specchiandomi nella vasca, vidi che avevo gli occhi grandi e strane orecchie, ma la cosa che mi stupì di più fu la puntuta e alta escrescenza sulla testa. Un corno. Qualcuno vicino a me disse: “L’ho visto in un dipinto del Medioevo. Questo è un unicorno!”
Mi misi a gridare e chiamai Bruna e Carlo, i miei nipoti, ma dalla gola uscì solo un suono smorzato e rauco. Mi spaventai. Ero davvero diventata un unicorno. Agile, bianco e bellissimo. Così bello che mi incantai a lungo nello specchiarmi. Mi piacqui moltissimo. Mi voltai con lentezza e alterigia verso le persone attorno a me e lì in mezzo, mescolati alla folla, vidi Bruna e Carlo. Mi avvicinai. Volevo abbracciarli, ma loro si scansarono. Non mi riconobbero, certo, ma subito dissero: “È nel nostro giardino e quindi l’unicorno è nostro. Ora lo mettiamo in una gabbia.”
E così avvenne. I miei nipotini mi ci misero per davvero in una gabbia.
Avevo fame e sete e il lungo corno sbatteva contro la rete troppo piccola, mentre camminavo su e giù. Prigioniera e rabbiosa. Mi dimenticarono presto. Vennero a prendermi alcuni esperti biologi. Cercai di comunicare con loro battendo ritmicamente gli zoccoli, ma non servì a nulla. Ero troppo irrequieta e così mi portarono in un lontano bioparco dal quale non potevo fuggire. Qui la gabbia era più grande. Mi nutrivano e c’era una pozza d’acqua nella quale potevo anche specchiarmi e intorno c’erano altre gabbie con altri animali più brutti rispetto a me: coccodrilli dall’aria feroce, varani enormi, grosse tartarughe rugose, un grasso ippopotamo e un elefante che scuoteva la testa di continuo. Al tramonto tutti facevano sentire le loro voci. Comunicavano tra di loro, ma mi escludevano sempre e mi guardavano con diffidenza. I visitatori del bioparco continuavano a venire per me, così bianca e bella; così elegante. Così sola.
Sapevo per istinto che non avrei più potuto tornare a essere come prima. Ma cominciai a pregare il sole e le stelle di non lasciarmi più sola, di non farmi sentire più tanto triste. Finalmente, un giorno al tramonto, gli altri animali, ad uno ad uno, e poi tutti insieme, vollero comunicare con me. Mi meravigliai e piena di felicità, prima di unirmi al coro, corsi a specchiarmi. Il bellissimo unicorno non esisteva più. Ero diventata un rinoceronte. Un animale possente e poco armonioso. Adesso ero brutta come gli altri animali. Ma così non ero più sola.

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