Ore 23.30, questa sera Laura ha finito prima del solito. Mentre serviva ai tavoli, apriva una bottiglia di vino o sparecchiava i bicchieri sporchi, allo Stadio Olimpico la Roma ha vinto inaspettatamente il derby ed è proprio il caso di festeggiare.
”Pronto Gabri, che fate? Io ho finito adesso.” “Guarda, sono tutti qui a casa mia…” “Allora vi raggiungo lì?”
“Ok.”
“Ok.”
È una domenica di metà novembre e l’aria è particolarmente fredda, per questo Laura ha fatto man bassa del piumino nero fuori moda, ma caldissimo, della mamma. Adesso che deve raggiungere i suoi amici ne è un po’ meno contenta, ma non ha tempo di pensarci, vuole sbrigarsi, pensa alla strada più breve per raggiungere casa di Gabri e, dopo aver indossato guanti, sciarpa e ovviamente il casco, sale in sella al suo scarabeo beige. Non ricorderà mai con esattezza il percorso che sta per fare: bandiere colorate, cori, autobus pieni di tifosi, anche quelli improvvisati come lei, riempiono lo spazio intorno al suo motorino e sembrano guidarla nel suo tragitto, anch’esso improvvisato.
Non le importa granché del calcio, ma festeggiare insieme agli amici va sempre bene, qualsiasi sia il motivo. E poi è necessario tifare la Roma a casa di Laura: per sua madre il calcio è così importante che ogni quattro anni, in occasione dei mondiali, si compra un televisore più grande del precedente per seguire meglio le partite e tutti i dettagli più interessanti: falli, fuorigioco, e altre cose che Laura non ha ancora capito bene. Quando la Roma vinse lo scudetto nel 2001, sua mamma tappezzò di scudetti le pareti domestiche: sulla porta di casa, sul suo comodino in camera da letto, vicino allo specchio del bagno, c’era anche un porta presine giallo e rosso in cucina e uno striscione che ricopriva tutta la ringhiera del balcone. Quell’anno Laura festeggiò la vittoria della squadra entrando con un abbonamento falso allo stadio per vedere l’ultima di campionato, scavalcando le barriere del campo a fine partita e portando alla mamma un pezzo di prato dell’Olimpico come trofeo. Le sembrò un gesto eroico: dritta, fiera, orgogliosa, con le braccia tese porse il trofeo trafugato alla legittima destinataria. La mamma sorrise, lo prese tra le mani e lo poggiò in un’aiuola del giardino. Fine. Del prato non se ne seppe più nulla. E anche della Roma non se ne seppe più nulla. Laura adesso ha vent’anni, pensa agli esami universitari, agli amici, al suo nuovo lavoretto al bar. Usa il motorino per andarci, anche quando le capita il turno serale. La mamma si raccomanda sempre di stare attenta.
“Laura vai piano, la sera la gente corre, ci sono gli ubriachi, e non tornare mai dopo la mezzanotte!” “Mezzanotte? Mamma non ho mica undici anni…”
“Se fai più tardi mi chiami e vengo a prenderti io, ma non voglio che guidi di notte il motorino!”
Invece il turno serale al bar finisce sempre dopo la mezzanotte e Laura non chiama mai la mamma: sale in sella al motorino e torna a casa. Preferisce fare a modo suo: le sembra di avere più senso pratico. Fa sempre di testa sua, nonostante la voce della madre le si materializzi sistematicamente davanti agli occhi, a caratteri cubitali, ogni volta che succede qualcosa per non averla ascoltata.
Anche stasera decide di disubbidire, di seguire i suoi desideri, di festeggiare una vittoria che sicuramente interessa più alla mamma che a lei. È quasi alla stazione Termini, più o meno metà strada, ma decide di svoltare per le stradine dietro Castro Pretorio per evitare un po’ di tutto quel caos. Svolta a destra, ancora a destra, poi sinistra, è nella direzione giusta. Arriva a un incrocio di cui non dimenticherà mai il nome, Via Palestro, lo vede in lontananza, ha la precedenza. Tira dritto. Appena superata la linea immaginaria che unisce l’ultimo palazzo sulla sinistra con quello sulla destra, vede una luce rotonda all’altezza del ginocchio sinistro. Per alcuni istanti è ferma, sospesa tra il frenare e l’accelerare, ma il faro è troppo vicino e Laura sa che verrà colpita, qualsiasi sia la sua scelta. Non può fare nulla per evitare la collisione, è irrimediabilmente troppo tardi, pensa solo di stringersi forte nel piumino della mamma, pensa alla testa, non vuole battere la testa. Pensa a quel ragazzo caduto dalla moto più di dieci anni fa, quel ragazzo riverso al suolo con ancora il casco addosso. Forse anche lui colpito dal paraurti di un’auto e volato in aria, come sta volando lei. Potrebbe pensare alle cose più belle, o a quelle più importanti, osservare i suoi primi vent’anni passarle davanti, invece pensa a quel ragazzo, che lei non ha neanche mai visto, alla sua testa, che neanche sa come fosse fatta, di che colore fossero gli occhi, il capelli, la forma del naso. Vola in aria, e pensa al quel ragazzo a cui sua mamma, una sera di ritorno da una cena dai nonni, decise di prestare soccorso, lasciandola chiusa in macchina col fratellino di 6 anni.
“Laura, rimanete in macchina. Mamma torna subito.” “Ma dove vai?”
“Da nessuna parte, sono qui. Tu bada ad Andrea, torno subito.”
Andrea dormiva e Laura sarebbe voluta scendere dalla macchina per vedere più da vicino cosa ci fosse di così interessante da far fermare tutte quelle macchine. Si limitò a sbirciare dal finestrino.
Laura adesso vola tra i gas di scarico e gli sguardi degli automobilisti capitati per caso a via Palestro, ma ricorda chiaramente quello che vide dodici anni prima da quel finestrino: una moto, rossa, a terra. Più in là una folla di gente che bisbigliava, che non tratteneva il silenzio. La mamma di Laura fece spostare tutti, perché sapeva che non ci si addossa sui feriti. Si inginocchiò a terra, prese tra le braccia il ragazzo, che indossava ancora il casco, e iniziò a parlargli.
“Mamma, cosa hai detto a quel ragazzo?”
Chiese Laura quando sua mamma tornò in macchina col viso bagnato e gli occhi gonfi. “Gli ho detto di resistere, di aspettare i soccorsi…gli ho detto che ce l’avrebbe fatta.”
Ed esplose in un pianto. Laura aveva solo otto anni, ma sapeva che quando la mamma piangeva in quel modo, bisognava solo abbracciarla e non dire niente.
“Ce la farai, ce la farai…” erano le parole che la mamma di Laura disse al ragazzo più e più volte. Invece, prima che arrivasse l’ambulanza, il motociclista smise di parlare, e di respirare, tra le braccia della madre.
Laura sta ancora volando sopra via Palestro, con gli occhi chiusi, le mani sulle tempie e le ginocchia al petto. Si era immaginata la testa del ragazzo fracassata dentro al suo casco integrale, un involucro capace di tenere insieme tutti i pezzi di cranio. Pezzi che a un certo punto devono essere scivolati lungo le pareti del casco, attratti dalla forza di gravità. Oppure la calotta sferica non era abbastanza aderente ai capelli da impedire che, lentamente, l’osso parietale si distanziasse dal frontale, permettendo uno spiraglio abbastanza ampio da lasciar passare le consapevolezze, le sensazioni e la paura del motociclista. Il casco non era capace di imprigionare anche questi: non essendo fatti di materia, probabilmente i pensieri e le emozioni sono sgattaiolati velocemente lungo le vie di fuga della visiera e del collo, e hanno continuato a vibrare intorno al ragazzo e alla donna che lo stava abbracciando per qualche minuto, prima di dissolversi più in alto, nell’aria, appena sotto le nuvole.
In pochi secondi il volo di Laura termina. Non sa in che modo sia atterrata vicino al cassonetto verde, all’angolo del marciapiede. Forse è volata girando su se stessa, continuando nella direzione in cui
stava andando, avvicinandosi di altri 10 metri a casa di Gabri. O forse è balzata verso l’alto e poi dritta verso il basso. Forse è stato il paraurti dell’auto dai fari rotondi a romperle la tibia sinistra, oppure la collisione col marciapiede. Questo non sapranno dirlo né i vigili, né i testimoni e neanche i medici. Adesso è seduta contro quel cassonetto e non riesce a distinguere le voci dei soccorritori, non le ricorderà neppure, non sente neanche le frenata dell’auto e lo stridere del suo scarabeo beige, spinto dalla collisione molti metri più avanti di lei. Vede solo il bauletto, saltato via dal motorino, giacere ammaccato proprio al centro della carreggiata. È lì, immobile, disteso su un fianco, intorno tante figure prive di contorni, che si muovono ronzando come api.
“Come ti senti? Tutto a posto?”
Riesce a sentire la signora di fronte a lei che le parla, ma non riesce a trovare subito una risposta. È da qualche parte, ma sembra inafferrabile, rimane dietro ai denti, non riesce a uscirle dalle labbra.
Si guarda intorno, si poggia al cassonetto. Piange, pensa che non potrà avvertire i suoi amici, pensa che sua madre si spaventerà a morte, pensa al suo telefono chiuso nella borsa, alla sua borsa chiusa nel bauletto, alla sua testa ancora chiusa nel casco.
“Chiamate un’ambulanza.” “Chiamate i vigili.”
I soccorritori improvvisati aumentano. E le voci si iniziano a sovrapporre lungo i percorsi nervosi che vorrebbero far parlare Laura, ma non ci riescono.
“Ecco i vigili, sono già qui: la sera del Derby sono a ogni angolo.” “La proprietaria del Bar ha già chiamato l’ambulanza.”
Dalle orecchie al cervello, le voci fanno un giro in cerca di un posto dove fermarsi, ma Laura fa fatica a interpretarle, pensa ad altro. La testa ancora nel casco. Si domanda se qualcuno l’abbraccerà, le dirà di resistere. Invece l’unico abbraccio che trova è quello del piumino nero della mamma che, quando saprà quello che è successo, piangerà e le dirà che doveva stare più attenta, che la sera non si esce col motorino, e tutte le altre mille raccomandazioni che Laura non segue mai. La chiamerà proprio mentre starà guardando un programma di calcio che parla della vittoria della Roma, e la sua gioia sarà rotta dalla preoccupazione, dalla paura, dall’angoscia. La testa è ancora nel casco e i suoi pensieri sembrano girare, sebbene molto confusi, in un involucro ancora chiuso. Nascono, girano, tornano.
Laura si fa coraggio, prende un respiro, non può rimanere così, con le sinapsi concentrate su un unico pensiero.
Le dita, incerte, slacciano il casco sotto il mento, dentro la sciarpa. I polpastrelli si posano ai lati della testa, aspettano come soldati che Laura impartisca alle braccia l’ordine di liberarla dall’angoscia, dal dubbio, dal suo casco. Lo sfila, con un gesto dalla traiettoria curva, che lo porta davanti ai suoi occhi. Non c’è neanche un graffio fuori, e nessuna macchia di sangue o di sogno dentro. È di nuovo sospesa, tanto rumore fuori, la pace dentro. Vorrebbe essere felice ma improvvisamente, come un ferro bollente, sente un dolore che dalla tibia arriva allo stomaco, al petto, alla faccia che si arriccia tutta verso il naso, e alle braccia che avvinghiano nervosamente il casco. Urla di nuovo, lancia il casco in direzione imprecisata. Avrebbe voluto colpire l’automobilista che l’ha investita. Invece il suo casco atterra in un angolo dove non c’è nessuno. Dondola solitario, oscilla, le parla: “ce la farai, ce la farai…”.
I capelli le cadono davanti agli occhi, li prende indietro con entrambe le mani, tira su un respiro come
fosse il primo da quando è nata e chiede il telefono a uno dei suoi soccorritori.
“Mamma, sono caduta…”. “Sei caduta col motorino!?”
“Sì, cioè no. Sono caduta. Mi sono fatta male…”
“Perché? perché Laura? Lo sai che non voglio che guidi di sera quell’affare. Lo sai che devi stare attenta!”
Laura lo sa, ma il dondolio del casco continua a rintoccare a destra e sinistra contro l’aria: “Ce la farai, ce la farai…”
“Mamma, ce la farò.”
E attacca. Non vuole sentirsi dire sempre le stesse parole. Parole che fanno giri strani, neanche sa più da dove vengano. Quella voce non le dice niente. Niente di nuovo. Solo che poteva stare più attenta, che non doveva guidare il motorino di sera, che non deve fare di testa sua.
Il telefono squilla, le cifre sullo schermo non le distingue chiaramente, ma sa benissimo che è la madre che la richiama.
“Laura, tesoro, dimmi dove sei.”
A Laura altre parole proprio non vengono: i pensieri le sono volati via insieme al casco, forse avrebbe dovuto tenerlo un altro po’, per non farli fuggire. Invece adesso sembrano inafferrabili, leggeri. Non riesce a capire se siano fuori o dentro la sua testa, forse sono rimasti impigliati tra i capelli arruffati. Poi più giù sente qualcosa. Sente gli organi pieni, stretti tra loro. Riesce quasi a distinguerne la forma arrotolata. Si avvinghiano tra loro. Le esce un urlo che dalla sua gola arriva dritto al cervello della mamma.
“Laura, amore, dimmi dove sei!!”
“Mamma, mi dispiace…”.
I singhiozzi le riempiono la gola.
“Laura, non ti preoccupare, andrà tutto bene. Adesso mamma in qualche modo arriva. Resisti, pensa a qualcosa di bello.”
Qualcosa di bello. Come quella volta in cui erano andate insieme a vedere un concerto raccomandato dall’insegnante di violino, o quella in cui la mamma le aveva fatto trovare sul letto una giacca identica a quella che le avevano rubato due sere prima in discoteca, oppure quella volta che era arrivata prima al torneo di tennis e la mamma lo aveva raccontato a tutti. O come adesso, mentre la mamma la abbraccia attraverso un piumino nero e le parla oscillando tra un “Ce la farai” e un altro. Poi di nuovo il dolore, acuto, insopportabile. La schiena si inarca, la testa va indietro, gli occhi spalancati vedono la luce del lampione accecarli, la bocca si apre, i polmoni spingono fuori un altro urlo. Un urlo che arriva lontano, in alto, appena sotto le nuvole.