Si chiamava Mirko, ma per tutti era Kinder, anzi “Kindere”, per via del suo fisico piccolino, compatto proprio come l’ovetto di cioccolato. Aveva 11 anni, era nato in Romania. Viveva a Roma da quando ne aveva 5. Stava con la madre in un seminterrato sulla via Ostiense. La madre lavorava saltuariamente presso una ditta di pulizie. Era sempre stanca. Spesso tornava a casa ubriaca.
Lui era andato a scuola fino alla terza elementare, poi si era scocciato e aveva cominciato a vagabondare per il quartiere e a chiedere l’elemosina davanti a San Paolo. Gli capitava all’ora di pranzo di incontrare i vecchi compagni all’uscita di scuola. <Ciao Kindere, che se dice?>, <Tutto bene tutto bene, se vedemo è? Se vedemo>. Un giorno risalì tutto viale Marconi, poi via Quirino Majorana, attraversò la Gianicolense e si fermò a piazzale Dunant. E da lì non si mosse più.
Ci sono bambini che sognano di fare il calciatore, il cantante, il vigile del fuoco, qualcuno l’astronauta. Kinder sognava di fare il lavavetri. E lì, in piazzale Dunant, incontrò quattro professionisti del settore. Due egiziani, un bengalese e un polacco.
<Me fai provà> disse all’egiziano più grande. <No>, <E daje…>, <Ho detto de no>, <Perché?>, <Perché sei na creatura, sei troppo piccolo>, <Ma se cresco mo fai fa?>, <Vabbè – strizzò l’occhio l’egiziano – ma mò smamma>. <Se vedemo, se vedemo> disse Kinder. E sembrava più una minaccia che un saluto.
Il giorno dopo si presentò con uno sgabello di metallo che aveva trovato tra i cassonetti del San Camillo, l’ospedale lì vicino. <So cresciuto bello. Mò come la metti?> disse saltando sul trabiccolo. I quattro scoppiarono in una risata e gli diedero un sacco di manate sulla testa che quasi lo stordirono. <A furbè, come te chiami?>. <Kindere>. <Tié prova, la prossima è la tua> disse l’egiziano più grande lanciandogli il lavavetri.
Il semaforo diventò rosso. Una Panda si fermò e subito Kinder si avvicinò, Sali come un gatto sullo sgabello e via, avanti e indietro, su e giù, prima di spugna e poi di spatola. Stessa operazione lampo dall’altro lato. <Ah fenomeno!> gridò il bengalese. L’autista, un anziano con gli occhiali, quasi non si rese conto di quanto successo. E quando vide la manina di Kinder che si infilava nell’abitacolo, ci appoggiò due monetine senza dire una parola. <Se vedemo nonnè> gli disse Kinder talmente contento che se non c’era il polacco che lo prendeva al volo insieme allo sgabello se ne sarebbe rimasto in mezzo alla strada con il verde brandendo il bastone lavavetri come una lancia. Da quel giorno Kinder entrò a pieno titolo nella squadra. E anche se con il suo arrivo gli incassi per loro diminuirono, né gli egiziani, né il polacco, né il bengalese si lamentarono mai della presenza di quel ragazzino.
E Kinder cominciò ad avere i suoi clienti abituali. Alle 8 Irene, commessa dell’Upim, che gli dava sempre 50 centesimi e gli mandava un bacio. E lui glielo rimandava, <Se vedemo Irè>. Alle 8.10, 8.15 Nicola, ortopedico. <Ah Coso, in campana co’ quello sgabello> gli diceva. E lui: <Tranquillo tranquillo dottò, se vedemo>. C’era poi Alberto con la sua vecchia 500 da cui uscivano sempre canzoni dei Beatles. C’era Maria, una ragazza turca, tifosa della Roma, che gli prometteva sempre una maglietta di Totti ma non gliela portava mai. <Se vedemo Marì, io aspetto è!>. <Sempre forza Maggica> faceva lei. Il vecchietto della prima volta passava tutti i martedì, verso le 11. Si chiamava Angiolo, chiamava Kinder “giovanotto” e gli dava un euro. Una volta gli raccontò che andava al camposanto a salutare la moglie.
Insomma Kinder aveva trovato quattro amici sinceri, tanta gente che gli voleva bene e, soprattutto, faceva il lavoro che più gli piaceva. Grossi problemi al semaforo non c’erano mai stati. Sì, qualche volta qualcuno si era lamentato, aveva fatto partire i tergicristalli, qualche imprecazione. Uno aveva gridato <sporchi negri, tornatevene a casa>. <Ma semo tutti bianchi, ignorante razzista e cecato. E puro pezzo de mmerda> aveva commentato il polacco. Ma a lui non era mai successo niente. Tutto andava bene. Tutto filava liscio. <Se vedemo domani eh? Se vedemo>.
Quella mattina c’era il sole, era quasi primavera. Erano già passati Irene e Nicola. Stava finendo il vetro di un fuoristrada sul suo sgabello quando sentì un sibilo, forte, sempre più forte, sempre più forte, e il sibilo diventò un rombo. La Bmw lo prese in pieno. Kinder volò per una decina di metri. Ricadde sulla schiena. Le braccia aperte. Le gambe piegate al contrario. Dal naso e dalla bocca usciva un rivolo di sangue. Gli occhi, fissi, guardavano il cielo.
I quattro corsero, si inginocchiarono. <Kindere, Kindere>. Singhiozzavano, si stringevano le mani così forte da farle bruciare. Intorno la gente, poi la polizia, l’ambulanza. E il semaforo che continuava a cambiare colore, giallo rosso verde, giallo rosso verde.
Tre giorni dopo nella parrocchia lì vicino arrivò una piccola bara bianca. <Famola de zinco signò, je costa meno. Intanto…> aveva detto quello delle pompe funebri, ma la madre aveva risposto di no, che voleva la bara più bella e più costosa. In chiesa c’erano già i quattro amici. Il polacco e il bengalese erano soli. Gli egiziani erano venuti con le mogli e i figli piccoli. Poi c’era la ragazza turca, stringeva una maglietta della Roma. In tutto 12 persone più il viceparroco, don Biko, un nigeriano. Disse le preghiere e benedì tutti. Poi cominciò a cantare battendo le mani <Ciao Kinderè ciao piccolo Kinderè, ciao Kinderè ciao Kinderè>. La ragazza turca gli andò dietro e poi gli egiziani e tutti gli altri. Quel canto struggente durò qualche minuto, don Biko sollevò le braccia al cielo poi poggiò le mani sulla bara bianca. <Ah Kinedere – esclamò – se vedemo è, lo sapemo tutti che se vedemo>.
All’incrocio di piazzale Dunant il giorno dopo non si videro lavavetri. Irene, la commessa dell’Upim, quando arrivò al semaforo si guardò intorno, rimise i 50 centesimi nella vaschetta dietro il cambio e con il verde scattò. Non si accorse del mazzo di garofani rossi che qualcuno aveva appoggiato alla base del semaforo e non si accorse neppure di uno sgabello di metallo tutto accartocciato finito tra erbacce e sacchetti di immondizia nell’aiuola spartitraffico. Gli egiziani non si mossero da Acilia dove abitavano. Il polacco comprò una bottiglia di vodka e se la scolò da solo su una panchina di largo Ravizza. Il bengalese passò tutta la giornata nel minimarket del cognato.
Anche il giorno dopo e quello dopo ancora nessuno dei quattro si recò al lavoro. Il quarto giorno l’egiziano più grande chiamò gli altri: <Domani, lì davanti alle 8> disse. Arrivarono tutti con qualche minuto di anticipo, si sedettero nel giardinetto di un bar dalla parte opposta del piazzale da dove si poteva vedere il semaforo. Ordinarono quattro caffè al vetro e rimasero a lungo a guardarsi. Il vecchio ruppe il silenzio. <Se ne annamo da qui, annamo a lavorà all’autolavaggio de mi cugino>. <E io vado a dà na mano a mì cognato che c’ha na bottega ar Pigneto>, disse il bengalese guardando da un’altra parte. <Io nun me movo da qui – disse il polacco, e poi fece una lunga pausa con gli occhi fissi sul bicchiere di caffè – E’ il secondo figlio che perdo: il primo se l’è portato via quell’infame della mia donna quando ancora stavo a Varsavia. Non l’ho più visto. Il secondo, Kindere… gli volevo bene come se….>. Non riuscì a continuare, cominciò a singhiozzare e a chiedere scusa. Nessuno finora aveva pronunciato il nome di Kinder. Fu come il via libera alla commozione. Quei quattro uomini si guardarono ma subito abbassarono lo sguardo per pudore, per timidezza. Il barista, che sapeva, spense la radio che parlava del imminente Roma-Lazio. Si alzarono. Il più vecchio pagò i quattro caffè, attraversarono la circonvallazione Gianicolense, si fermarono al semaforo. Si abbracciarono forte. Gli egiziani si diressero alla fermata del tram, il bengalese salì per Donna Olimpia. Il polacco si sedette sul marciapiede. <Se vedemo> urlò da lontano il bengalese, <Se vedemo> risposero gli egiziani. Il polacco alzò le braccia al cielo, con una mano brandiva il lavavetri come una spada, come aveva fatto Kinder quella volta. Sembrava un gladiatore.