Suona la sveglia. Sono già le 6 e mezza. Con fatica, e senza voglia, apro gli occhi. Come se avessi dei pesi sulle palpebre, decido di alzarmi e vado in cucina dove mi aspetta la solita colazione: latte con cereali; che comunque mando giù a fatica: non mi accorgo neanche se siano davvero buoni. Finita la colazione mi alzo e vado a preparare lo zaino e a vestirmi. Una volta pronto, fatta una carezza a Luna, prendo le cuffiette e mi incammino verso scuola. Come al solito, mentre percorro quel piccolo tratto a piedi su Via Dei Castani, prima di arrivare alla stazione della metro C Gardenie, tento disperatamente di districare le cuffiette. Non faccio più caso a questa parte del tragitto: non mi interessa più ciò che cambia intorno a me. Non fa alcuna differenza, in fondo, a me che importa? Messe le cuffiette alle orecchie e inserito il jack nel cellulare, attivo la riproduzione casuale e respiro, profondamente. All’improvviso tutto cambia: ed ecco una pioggia di colori; comincio a vedere tutto ciò che mi circonda, chiaramente, solo monocromaticamente. E con un Do ecco che diventa tutto rosso, con un Si tutto giallo e poi un Fa; e tutto si trasforma in verde. Una serie di parole che piovono dal cielo e si fissano nella mente. Giro l’angolo e mi ritrovo in un paesaggio variopinto, dominato da colori sgargianti che si scambiano e si muovono l’uno con l’altro. Ma poi, d’improvviso, di nuovo buio: fitto, indistricabile, pesto. Solo dopo qualche secondo cominciano a riaffiorare le immagini; questa volte però tristi, in bianco e nero: una canzone malinconica, che parla di ospedali, di situazioni difficili e di tristezza. Tutte le persone che incontro camminano lentamente, malinconiche, quasi ammalate da chissà che cosa. Io l’unico a non essere malato, o almeno a non sentirmi così; bensì leggero. Non mi sento felice, d’altronde come potrei esserlo? Tutto è avvolto in un alone di nebbia, quasi come uno di quei film anni ’50 o ’60, per quei pochi film dell’epoca che ho visto. Tutto è così lento e fluido, come se il tempo fosse sospeso. Di punto in bianco uno spintone che mi fa sobbalzare e togliere le cuffiette dalle orecchie. Era solo uno di quei pendolari che, come al solito, si sente obbligato ad arrivare in orario e a corre verso la stazione. Scendo giù nella metro e per fortuna riesco a prendere il primo treno. Come ogni mattina il viaggio di andata dura troppo poco e sono già a destinazione. Non è che odi la scuola perché debba studiare, anzi; ma per me è come il limbo per i non battezzati di Dante: completamente buio, senza via d’uscita; una pura assenza di colori di 5 ore intere, senza alcuna possibilità di ascoltare musica. Entro a scuola e mi siedo. Ormai non so neanche più in quale posto, in fondo, cambia poco. È soltanto un’ora che mi trovo in classe, ma a me sembra un’eternità. Non ascolto la voce del prof che spiega matematica: è noiosa, e non fa altro che allungare la mia pena. Ma se c’è una cosa che ho imparato è che la musica e, tutto ciò che ascolto, può essere facilmente immaginata. Tento di distrarmi: comincio a immaginare una serie di note, una dopo l’altra, e a canticchiare nella mia testa. Poi, ecco, come stamattina, una pioggia di colori e linee disegnano intorno a me uno scenario che ormai avevo dimenticato: quello di casa di nonna, con il classico rumore di tazzine e il televisore a basso volume che fa solo da sottofondo ai discorsi in cucina. Vengo risvegliato bruscamente dal suono della campanella che fa scomparire tutte le immagini che si erano create. Poi, eccola di nuovo la tristezza che riaffiora: mi aspettano ancora tre ore di agonia, senza poter sentire la musica, il mio unico sfogo; la mia unica libertà, nonché l’unico modo che ho per poter tornare ad abitare questo mondo.