Tempesta di aprile su Roma. Vento furioso e pioggia battente che scroscia su vetri e cerate del roof garden dell’albergo, un cielo nero incombe su cupole e tetti in lontananza. Tra tanto buio e fragore non è facile per i fotografi, saliti quassù, trovare l’angolatura e la luce giusta per inquadrare i loro obiettivi: la regista Annemarie Jacir e l’attore Saleh Bakri venuti a Roma per presentare Wajib in uscita nelle sale italiane il 19 aprile.
Sembrano creature fatte di un’ altra sostanza portate qui dal vento: Annemarie è alta, nella tunica nera a riquadri chiari sui pantaloni neri, una cascata di ricci castani e due splendidi occhi scuri ridenti e luminosi dove nel fondo si intravede qualcosa di forte, di duro e Saleh Bakri è un bell’uomo, alto, un poco curvo, con lo sguardo azzurro e ironico che affiora dall’intrico dei capelli, il sorriso perennemente accennato, la sacca a tracolla, giacca e pantaloni scuri e il foulard attorno al collo. Tra le dita la busta gialla con il tabacco e le cartine, fumatore incallito. “Dove è Saleh?” La domanda si ripeterà tutto il giorno. “Sapete dove è Saleh?” “È uscito un minuto a fumare.” Ed eccolo riapparire, a sigaretta fumata, con il suo sorriso infantile e uno scintillio da lupo negli occhi.
Per lui, così scuro, servirà uno sfondo bianco, Annemarie invece poserà davanti al poster di Wajib dove è ritratta una scena che, nella sua semplice bellezza, racchiude sfumature e metafore nascoste: una ragazza, davanti allo specchio del negozio, prova l’ abito da sposa, sotto lo sguardo di padre e fratello che la consigliano.
Il vento continua a infuriare, i fotografi scattano le loro foto e attorno a noi si è creata un’atmosfera di famiglia: sui cuscini arancio dei divani si sono accomodati il marito di Annemarie, produttore del film: alto, maglione dolcevita chiaro e pantaloni scuri, occhiali, un intellettuale del levante, o l’immagine che noi ne abbiamo, e la loro bimbetta di due anni, incantevole: calzette chiare e stivaletti e scamiciata a riquadri coloratissimi, occhi di velluto scuro che bruciano di curiosità e un album tutto da colorare. L’attore, Saleh, tra una posa e l’altra, torna da lei volteggiando e si siedono insieme a colorare con impegno, vediamo chi trova il colore più bello.
Hanno portato in regalo spezie e olio della loro terra: la Palestina e parlano un arabo lento, elegante, una melodia di sillabe che fa pensare a Le Mille e un notte e noi stiamo ad ascoltarli affascinati, senza capire nulla, e domande improvvise ci si affollano in testa: da dove vengono? Come sono arrivati fin qui? E intanto Saleh Bakri colora concentrato, Annemarie Jacir posa, un poco impacciata, davanti agli obiettivi dei fotografi e la piccola porge ai presenti i suoi colori e poi corre a rifugiarsi tra le ginocchia del padre che sorride assorto, e la tempesta fuori che infuria.
Dabbasso i giornalisti arrivano alla chetichella, non molti è vero, la giornata è quella che è, ma i loro sguardi sono vivi e curiosi. Si capisce che hanno tante cose da chiedere su questo film che ha vinto premi a Dubai, Londra, Locarno e Mar del Plata, ed è stato scelto per rappresentare la Palestina agli Oscar. “Degli Oscar mi importa poco, ma sono felice che, ormai da dieci anni, anche la Palestina possa candidarsi, serve ad avere visibilità internazionale” ha detto la regista. La storia del film è presto raccontata: nella città di Nazareth padre e figlio, quest’ultimo tornato per l’occasione da Roma, vanno di casa in casa a consegnare a mano, come vuole la tradizione palestinese, gli inviti al matrimonio di figlia e sorella. Indagando nell’intimità di due uomini, il racconto offre uno spaccato della società palestinese e delle sue tante stratificazioni.
Padre e bimbetta scomparsi nei corridoi dell’albergo, Annemarie e Saleh fanno il loro ingresso in sala e il pubblico, come noi prima, resta a guardarli incantato. È forte il legame tra loro, Saleh ha lavorato nei tre film di Annemarie, e insieme fanno uno strano contrasto: lei ha la voce profonda e l’eloquio incalzante, lui, esile nella figura, parla un inglese denso di pause, che è lingua lenta come fiume che scorre in pianura e sembra di star seduti tutti attorno al fuoco ad ascoltare una fiaba piena di lupi e briganti.
Annemarie scosta con la mano dal microfono la sua cascata di capelli e ringrazia i presenti. È il primo dei suoi film ad uscire in Italia e ne è felice perché sono tanti i legami che uniscono italiani e palestinesi.
La parola Wajib, spiega, indica il dovere sociale: come quello di consegnare a mano gli inviti al matrimonio da parte degli uomini della famiglia, sarebbe una grande offesa , infatti, spedirli per posta. “È una tradizione che esiste anche in Nord Africa, in Siria, in Grecia; nella diaspora palestinese è quasi scomparsa, ma in alcuni luoghi, e in particolare a Nazareth, si conserva.“
La consegna a mano ha implicazioni metaforiche per un popolo che è stato diviso ed è tenuto separato, inoltre wajib è invitare di persona anche chi non ti è gradito, qualcuno vi coglierà un’ipocrisia altri invece una possibilità, attraverso la conoscenza diretta, di superare le differenze che dividono.
“Se Palestina e Israele fossero stati lasciati a se stessi” dirà più tardi la regista “avrebbero già trovato una soluzione, ma c’è stata l’ingerenza americana e tutto è saltato.”
Nazareth, essa stessa personaggio del film, è la più grande città palestinese della Palestina storica, oggi Israele, dove il 40% della popolazione è cristiana e il 60% musulmana. Sebbene tutti, nell’avvicinarsi del Natale, periodo in cui si svolge la storia, addobbano l’albero e riempiono le case di decorazioni natalizie. È una città piena di tensioni: gli abitanti, dopo l’occupazione del ’48, sono stati costretti a prendere la cittadinanza israeliana, ma sono cittadini di seconda classe. Vivono uno sull’altro perché la terra gli è stata confiscata, lottano ogni giorno per ricavarsi uno spazio umano ed economico, e, soprattutto, lottano per poter restare.
“Eppure Wajid ha i toni della commedia perché ciò che più mi ha affascinato a Nazareth è l’umorismo della gente, uno humour nero, sarcastico, che aiuta a sopravvivere.” La voce di Annemarie non grida, racconta senza rivendicazioni, quasi stesse illustrando il set immaginario per il suo prossimo film.
Saleh, con il suo inglese che è roccia levigata dal vento e le pause fenditure da cui sgorga il pensiero, racconta con passione dei campi profughi all’interno della città e di un grandissimo poeta, morto da poco, che vi abitava. Pronuncia nomi difficili, a noi sconosciuti, vuole condividere il suo mondo con l’Italia che gli è cara. Qui ha già fatto altre esperienze: un’opera teatrale, un corto, e da ultimo Salvo (film del 2013 scritto e diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza.) di cui è stato il protagonista, ma ora è venuto a presentare qualcosa di più vicino al suo cuore. Per questo la sua voce si fa aspra e i bagliori negli occhi azzurri diventano scintille.
Nel film lui è Shadi, il figlio, simbolo dei palestinesi che hanno lasciato la loro terra. “Shadi ha sbagliato ad andarsene: doveva restare e riaprire la cineteca che gli israeliani lo hanno costretto a chiudere” Dice e che lui, a differenza del suo personaggio, sia intenzionato a restare glielo senti in ogni parola.
“Endurance, resistere” aggiunge “è l’espressione più autentica dell’identità palestinese.”
Mentre lo ascoltiamo torna a scorrere davanti ai nostri occhi la Nazareth del film: il ghetto dove padre e figlio si aggirano in macchina tra cumuli di spazzatura, tensioni tra vicini e traffico assordante, con, sulla collina a sovrastare ogni cosa, l’insediamento israeliano di Nazareth Elite, nome che più assurdo non si può, dove vive anche Ronnie, l’israeliano che controlla la scuola dove insegna Abu Shadi, il personaggio del padre nel film, simbolo dei palestinesi che sono rimasti.
“Il figlio coglie solo la superficie di Nazareth” Dice Saleh e sembra agitare un dito nell’aria, in segno di monito, anche se le sue mani restano immobili.“Ma se andiamo oltre il rumore, i clacson e le ingiurie nelle strade, se entriamo nelle case palestinesi troviamo passione ed ironia: tutti i segni della vita che resiste e spera in un futuro migliore.”
L’attore che impersona suo padre sullo schermo è anche suo padre nella realtà: Mohammad Bakri, attore e regista, una vera legenda in Palestina, di grande fascino e carisma, pieno della fierezza del suo popolo, ben lontano dal personaggio umiliato e condiscendente a cui dà vita sullo schermo.
Annemarie all’inizio non era sicura che Mohammad Bakri fosse l’attore adatto ad incarnare questo ruolo, ma alla fine ha voluto correre il rischio.
“Una notte l’ho sognato, e quando, nell’incertezza, sogno un attore vuol dire che è lui quello giusto.”
Il risultato sullo schermo è una figura di padre indimenticabile, che resta dentro, con la coppola in testa e il sorriso imbarazzato, sempre pronto a smussare tensioni. Un uomo che, in una cultura patriarcale, svolge anche il ruolo di madre ed è capace di mostrare forza nell’apparente debolezza e di mantenere dolcezza e coraggio anche da vinto.
“L’interpretazione di mio padre è un capolavoro.” Dice Saleh con devozione allegra, per niente oppresso, appare, dalla figura imponente del genitore.
“Ho imparato tutto da lui, da bambino, come attore e come padre. He knows how to hug.” E fa una lunga pausa, come se quel verbo to hug: abbracciare, sostenere, confortare meritasse una profonda ponderazione.
“La sera prima di girare la scena con l’israeliano, senza dirmi niente, si è ubriacato e ha bevuto molto, mooolto. La mattina dopo non poteva guidare e abbiamo dovuto aspettare che gli passasse.” Ride divertito e il pubblico attonito riesce solo a sorridere, cogliendo la malinconia di quel gesto.
“Lui mi capisce very good ed io lo capisco very good. “ Pausa “Lui sa cosa dico quando non parlo, e io conosco i suoi silenzi. Eppure, insieme sul set, siamo riusciti a sorprenderci. Non puoi mai essere sicuro di conoscere davvero tuo padre…” Conclude con un dito immaginario puntato in aria e gli occhi che brillano di ironia.
“Ma perché una donna giovane dallo sguardo così fiero ha usato il punto di vista di due uomini per raccontare la sua storia? Chiudendoli, per giunta, in una macchina?”
“Forse perché vengo da una famiglia dove le donne sono forti, hanno potere e controllano tutto, ed ero curiosa di vedere cosa si dicono due uomini quando sono obbligati a farlo. La macchina per il figlio è una trappola, come il paese da cui è voluto fuggire; per il padre invece è il simbolo di ciò che ha amato e perduto, era la macchina di famiglia, di quando c’era ancora sua moglie, che poi lo ha abbandonato, e i figli erano piccoli. Mi ha permesso di mostrare i due uomini come sono da soli e come cambiano in presenza degli altri.“
L’idea è nata il giorno che suo marito, originario di Nazareth, ha ricevuto una telefonata da suo padre dove gli chiedeva di accompagnarlo a consegnare gli inviti della sorella. “Io e mio marito ora viviamo ad Haifa e ho voluto accompagnarlo. Mi sono detta: me ne starò seduta dietro come una formichina e vediamo cosa succede.”
Così lentamente, accompagnando padre e figlio, ha sviluppato l’idea: il viaggio in macchina, a Nazareth e nei villaggi vicini, le ha offerto una chiave.
“In realtà padre e figlio sembrano rappresentare due parti di lei …”
Annemarie Jacir annuisce e sorride. “L’ho capito da poco: in tutti i miei film ci sono sempre due personaggi in opposizione tra loro: qui padre e figlio, nel precedente madre e figlio e nel primo un uomo e una donna. Chi sei tu? Mi chiedono ed io sono entrambi. Ognuno dei due ha bisogno dell’altro. Padre e figlio si vogliono bene ma non sanno come dirselo, il non detto, i momenti di silenzio tra loro sono i più importanti. Ho cercato di levare quanto più possibile dai loro dialoghi”
Le risposte sono così pacate, rispetto alla crudezza della realtà rappresentata, che si rimane stupiti. Parlano con ironia e leggerezza, con un fondo di malinconia, senza rivendicazioni aperte, perché cinema e arte in Palestina non siano solo messaggio politico sebbene le pressioni siano sempre tante. “Mentre giravamo a Nazareth Elite” Annemarie ripete spesso questo nome quasi ad esorcizzarlo “ci hanno cacciato due volte senza troppi complimenti, nonostante avessimo tutti i permessi, solo perché qualcuno dei vicini ha sentito parlare in arabo e ha chiamato la polizia.”
“Ma quali sono i vostri sentimenti quando pensate alla vostra terra? Nei personaggi del film sembra di avvertire una nostalgia”
“Sentimenti…” Ripetono all’unisono, per guadagnare tempo o per prendere fiato.
“Non so se nel mio caso sia esattamente nostalgia” Dice Annemarie e dopo un istante, riprende con la sua pacata, elegante durezza: “Io direi molta rabbia …unita ad un poco di speranza e al desiderio di resistere.”
Sente la parola “rabbia” nella traduzione in italiano e nel corso della giornata chiederà di ripeterla e di sapere se la sta pronunciando bene.
“Rabia” sussurra.
“È doppia la b“
“Rabbia, rabbia” ripete con i suoi occhi scuri così vivi, ma sulla sua bocca suona ancora parola dolce, parola di miele.
Saleh con la sua voce di vento che scava la pietra risponde lentamente: “Dicono che quando cresci la tua rabbia si smorzi, che l’età aiuti a ridurla.…A me invece succede esattamente il contrario.” Si ferma e sorride “A mano a mano che passano gli anni la rabbia cresce dentro di me. Ed è un fardello pesante da portare quando incontri la gente, però…” Nuovo silenzio, mentre in sala si respira la commozione“…però la rabbia è anche salutare. Perché a non essere arrabbiati nella nostra situazione non sarebbe normale e allora insieme alla rabbia cresce l’amore per me stesso. Mi obbligo a star bene e a tenermi in forma per fare arte e cultura che è quello che serve al mio popolo.”
Dopo un lungo applauso la giornata continua: domande che si susseguono, ripetendosi o aprendo nuove prospettive, e ci sentiamo tutti un poco migliori, come se la qualità umana dei due elevasse anche la nostra.
Saleh tra un’intervista e l’altra scompare, la busta del tabacco ormai vuota, ne occorre un’altra. Quando gli chiedono se la regista si sia imposta sul set, sgranando gli occhi risponde:
“Nooo… Annemarie non dà mai consigli… piuttosto lei fa domande. Non permetterebbe mai al dittatore che è in lei di venir fuori…”
Un poco gioca, un poco ride, a tratti la sua passione si incendia.
“In Inghilterra, in Francia non è un crimine andar via, da noi, invece, se te ne vai è una fuga. Noi restiamo e resistiamo.”
Più tardi, finalmente a tavola, lontani dai microfoni, nell’angolo dove è seduto, sorgono altre domande.
“Tra israeliani e palestinesi, nella vita di ogni giorno, nascono amicizie?”
Ci sono piatti da ordinare e gente che va e viene e lui ride e si distrae, sembra eludere la domanda ma più tardi ci torna su: “Sì, io amici israeliani ne ho, ma la cosa, quella cosa c’è sempre, ci sono anche israeliani che sposano palestinesi e palestinesi che sposano israeliane, ma quella cosa resta… Con alcuni israeliani è possibile coresistere, ma coesistere no… Hanno il terrore di amalgamarsi, sono ossessionati dall’idea di proteggersi, sono ossessionati dall’Olocausto. Ma che cultura si crea così?”
Più tardi come se la domanda avesse sedimentato dentro di lui e ritenesse necessario spiegarsi meglio, riprende: “Gli israeliani si mettono fra me e te, cercano i tuoi punti deboli: “se non collabori faccio vedere questa foto a tua madre, tua moglie, i tuoi figli, ti rovino…”
Sono cose che sappiamo ma che ora, guardando il suo viso e l’espressione nei suoi occhi, sembrano diverse. Noi che leggiamo tanta letteratura israeliana, vediamo tanto cinema israeliano e lo amiamo, ora ci sentiamo un poco spiazzati, come se qualcuno ci avesse messo sugli occhi un altro paio di occhiali e con queste lenti, all’inizio, vediamo solo sfocato poi piano piano un’altra realtà prende forma.
“Ma i cinema in Palestina ci sono?” chiediamo.
“No.”
“Non ci sono cinema?” ripete qualcuno.
“No”
“E allora questo film come lo vedono… gli altri?“
“Organizziamo la visione in sale culturali che non sono esattamente dei cinema ma posti dove la gente si ritrova.”
C’è qualcosa nei suoi occhi, che si potrebbe chiamare dolore, di così intenso che ci costringe per un istante ad abbassare i nostri.
“Già”
Domande stupide e pure un po’ invadenti. E se lo lasciassimo mangiare in pace? E magari fumare pure, invece di tenerlo inchiodato al tavolo con gli occhi azzurri che si fanno sempre più cupi?
“Il governo israeliano non vuole la cultura palestinese.”
“Già.”
Di nuovo silenzio. Di nuovo la testa nel piatto. Cerchiamo di parlare d’altro, facciamo un serio proposito che subito fallisce.
“Ma allora tu dove hai studiato recitazione?”
Intanto girano sul tavolo i carciofi che sono la specialità della casa.
“Sono andato in un’accademia israeliana.”
E sfuma un’altra occasione di lasciarlo mangiare in pace.
“È stata dura? “
“… dura?” Sorride ironico e il carciofo rimane sul piatto. Visto che siete così tonti da non capirlo da soli, mi toccherà spiegarvelo. “A scuola di recitazione succede che ti chiedano di parlare della tua vita e gli allievi che erano tutti israeliani parlavamo della vita militare e dei crimini che avevano commesso da ragazzi contro di noi, anche se loro ovviamente non usavano la parola crimini e non si rendevano conto che quella era la mia gente e così l’accademia mi è servita non solo ad imparare a recitare ma anche ad affrontare questa cosa.”
“E recitavi in ebraico?”
“Certo. Ho imparato l’ebraico, non perché ci tenessi…” un bagliore gli guizza negli occhi “Non avevo scelta.”
Ora non c’è più bisogno di chiedere altro, perché le domande sembrano aver aperto una crepa da cui le parole si riversano a fiotti. Soddisfatti adesso?
“A scuola dovevamo recitare anche la Torah e all’insegnante piaceva molto come la leggevo io” Dice con orgoglio malinconico “Io la leggevo meglio perché nell’ebraico conservo l’inflessione della mia terra, gli altri invece avevano la cadenza lontana della Polonia e di altri paesi. In quell’angolo ristretto, nel chiuso della scuola, potevano apprezzare ancora l’accento che hanno oppresso.”
Poi, a scacciare il peso di quel ricordo, sorride e addenta con slancio la pasta appena servita.
“Adesso però ce l’abbiamo una scuola di recitazione in arabo, ai miei tempi non c’era, ed io ci insegno. C’è tanto movimento, tanta cultura. Ci sono tanti giovani palestinesi nel cinema e nel teatro”
Racconta di un’opera Firewoeks di un autrice palestinese Dalia Taha che lui ha portato a Londra, un’opera molto bella anche se molto triste e per sua fortuna il discorso scivola via lontano, su altre note e altri mondi, sulla gioia della bimbetta che a capotavola affonda le mani nella pasta e mangia con gusto, il visetto impiastricciato di pomodoro mentre non smette di guardarsi attorno con i suoi occhi pieni di curiosità e di futuro.
La sera, arrivato il momento di separarsi, ci salutiamo in piedi sul marciapiede, sui volti quei loro sorrisi, solo un poco più stanchi. E la piccolina ora, in albergo, vorrà le attenzioni della mamma. Durante le riprese di giorno restava con la nonna, ma quando mamma regista e papà produttore rientravano la sera, lei pur di stare con loro non dormiva fino alle prime ore della mattina. “Una stanchezza” dice Annemarie scuotendo la testa, “Ma ammirevole è stata soprattutto la nonna: restare con un bambino dodici ore da sola, ha avuto un grande coraggio.”
Ci dispiace lasciarli, come se girato l’angolo le loro figure dovessero svanire nell’aria, dove andranno? Dove potremo ritrovarvi?
Ma i loro sorrisi ci rassicurano: dignità ed eleganza sopravvivono anche negli anfratti di roccia, se trovano sorgente nel fondo del cuore. I loro sorrisi hanno lasciato in noi tracce di bene.
“Wajib non poteva avere finale migliore” ha detto Saleh poca fa “un cerchio si chiude, o così noi crediamo, anche se nulla mai realmente si chiude. Quando un film finisce così tu te ne torni a casa e cominci a pensare a tante cose: a te stesso, alla tua vita, al rapporto con tuo padre. È questo il ruolo dell’arte: lasciare qualcosa di buono negli altri. “
“Leave a good trace in humans, a good trace inside others.” ripete dentro di noi la sua voce di vento.