Ricordati di me

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Illustrazione di Agrin Amedì
Mamma è in cima a un palazzo e si sporge vertiginosamente in avanti, con la voglia di lanciarsi nel vuoto e la paura di riuscirci davvero. Io mi trovo a galleggiare nel suo enorme pancione scosso dai bruschi movimenti e stordito dalla paura di finire schiantato al suolo insieme a lei. Inizio a scalciare forte,

Mamma è in cima a un palazzo e si sporge vertiginosamente in avanti, con la voglia di lanciarsi nel vuoto e la paura di riuscirci davvero. Io mi trovo a galleggiare nel suo enorme pancione scosso dai bruschi movimenti e stordito dalla paura di finire schiantato al suolo insieme a lei. Inizio a scalciare forte, spero capisca, so che può capire. Ogni calcio nasconde un desiderio. “Desidero vedere il sole” – cerco di dirle –  “desidero abbracciarti”. La sento sussultare, funziona. Percepisco il calore delle sue mani che tentano di alleviare il dolore dei miei calci, un dolore che distoglie la sua attenzione dalla triste rabbia di voler porre fine alle nostre vite. Ascolto le voci sovrapposte di persone che le urlano di scendere, ma lei non gli dà ascolto. Fa un passo, in direzione del precipizio. Per poco non perde l’equilibrio. Inizio ad avere paura. E se non riuscissi a farle cambiare idea? Scoppio a piangere. Lei anche. Mi ha sentito e piangiamo insieme. Si siede sul cornicione con le gambe penzoloni e lo sguardo rivolto al cielo. Il vento asciuga le sue lacrime ma non fa lo stesso con le mie: sono sommerso in un oceano di tristezza e agonia, consapevole di essere l’unico in grado di farla scendere e che al tempo stesso rischia di cadere con lei. Penso a tutte quelle volte in cui l’avevo sentita dire che non mi voleva, che ero uno sbaglio. Le tiro un altro calcio, con più rabbia, una dolorosa fitta la risveglia e sibila un gemito di dolore. Io non sono uno sbaglio, non mi sento affatto sbagliato. Le tiro un calcio per tutte quelle volte che piangeva davanti allo specchio e mandava giù litri di alcool, costringendo anche me a sorbire quel liquido nauseabondo; per tutte quelle volte in cui non è bastato ricordarsi di me per essere felice. Da nove mesi ho imparato ad amarla come forse lei non sa fare con se stessa. È lei a sentirsi sbagliata, ecco qual è la verità. Si rialza in piedi. Sono giunto allo stremo delle forze, un ultimo tentativo, penso, scalcio ancora, nascondendo in questo gesto solo un desiderio: quello di renderla felice. Lei esita a questo punto. Fa un passo indietro, in fondo era quello che voleva sentirsi dire, “Sogna di essere felice e insieme lo saremo”. I nostri cuori, che sembravano essersi fermati, tornano a battere all’unisono. Percepisco dolcezza nei suoi movimenti e la serenità che aveva lasciato il posto allo sconforto torna ad abitare nei suoi occhi. Sono pochi gli attimi di lieta incertezza che precedono il grande spavento: d’un tratto la piscina in cui mi trovo si svuota. Ho paura, ma anche tanta voglia di uscire da questo posto buio. Mamma sembra aver dimenticato il motivo per cui ci troviamo in cima al palazzo e porta le mani al pancione, poi si precipita giù per le scale.

Ci troviamo tra la folla che fatica a credere ai propri occhi: mamma ha deciso di scendere, ma l’atmosfera è ancora tesa. A un tratto le sirene dell’ambulanza, e quel fiume gente curiosa muta in un via vai di medici. Sta accadendo tutto così in fretta. Poi i respiri affannati di mamma e le sue grida laceranti; chiudo gli occhi spaventato, li riapro e sono tra le sue braccia. Il profumo della sua pelle imperlata di sudore mi invade le narici e le luci abbaglianti della sala parto mi illuminano il viso. Mamma mi sorride e finalmente inizio a vivere. Ci addormentiamo entrambi sfiniti, ripensando che fino a poche ore prima eravamo lì, in bilico, tra due morti e una vita.

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