Dalla finestra del suo appartamento continuava a fissare l’incrocio della strada sottostante: un taxi aveva travolto e trascinato per un paio di metri il corpo di un uomo e intorno si era radunata una folla che non smetteva di vociare e chiedere l’intervento di un medico. Era troppo tardi, quell’uomo era morto. Ruggero sapeva perché e decise che non sarebbe più uscito di casa.
Pochi istanti prima aveva attraversato il portone del suo palazzo col pensiero fisso di liberarsi una volta per tutte di quella maledizione del cadavere. Sì, la maledizione del cadavere. O dei cadaveri, che continuavano a piovere dal cielo ogni volta che usciva di casa. Gli era sembrato filare tutto liscio, di poter credere alla sua razionalità, che era vero che si era solo fissato; invece, proprio quando pensava di poter lasciarsi tutto alle spalle, ecco, che gli era piovuto quel cadavere dal cielo. Esattamente come le precedenti quindici volte. Pallido, aveva ripercorso la strada verso il portone di casa ed era salito di corsa per le scale a passi di tre gradini alla volta. Serrata la porta, aveva controllato il giorno del calendario, aveva tracciato una grande croce su quella ennesima “maledetta” giornata sotto il nome del santo quotidiano, imprecando “Cascassero in testa a voi, laidi bellimbusti da calendario!” e si era piantato alla finestra che dava sulla via.
Suonarono alla porta e andò ad aprire.
“Ruggero, non mi sentivi?” sputò Livia portando in casa un vassoio pieno di contenitori di plastica con cibarie.
“Ti stai sciupando! Deve pensarci la tua vicina a nutrirti” biascicò con le labbra serrate per trattenere sigaretta e stuzzicadenti. Diede un’occhiata al calendario vicino la porta “Quante croci! Pare un camposanto. Conti tutte le volte che ti danno buca? Oggi è pure San Felice e fallo un sorrisetto”. Fece una pausa e, fingendo di doversi orientare nell’appartamento, allungò lo sguardo nelle stanze attigue e continuò a parlare dandogli le spalle.
“Ma alla tua età non dovresti reagire così male alle rotture di coppia. Dimmi, lei sta già con un altro, eh?”
Era andata dritta in cucina, aveva poggiato tutto sul tavolo e ora guardava il proprietario di casa in attesa di un commento con il pugno puntato sul fianco ricoperto da uno dei suoi completi neri.
“Non so niente di lei” le disse Ruggero “e ho altro a cui pensare… Ma oggi è proprio San Felice? Ci mancava un santo col nome da coglione. Li odio tutti, sti infami”.
“Che faccia che hai! Che succede?” fece lei.
“Succede che è successo di nuovo! Un altro volo, e con questo abbiamo superato la quindicina” sbottò.
“Ecco che è quel trambusto qui sotto! Questa volta hai visto se si lanciava da qualche parte?” chiese Livia.
“Macché! Li vedo a mezz’aria, a pochi metri dall’impatto, se li vedo. Di solito li sento e basta. Ho una strana sensazione, Livia… eppure i morti ci sono, no? Sono veri, non sto impazzendo, vero?”
Lei sorrise e lo abbracciò. “Ci sono tanti depressi in giro, caro. È solo un periodaccio, passerà”, non aggiunse altro e come era entrata sparì dall’appartamento.
Ruggero tornò nel salotto e il suono dell’ambulanza dalla strada lo riportò ai suoi pensieri e gli ricordò la sua sciagura: la maledizione dei cadaveri era ancora lì e lo aspettava fuori al prossimo omicidio, alla prossima uscita, alla prossima impertinenza.
“Ci si mettono pure i Santi. Me lo vedo il sorrisetto di sto ebete di San Felice. Sprofondasse all’inferno pure lui!”. Si ascoltò e si disse “Ma che sto dicendo? Sto sragionando, ma come posso ragionare? Su che cazzo ragiono, Madonna Santa?”.
“Se alla fine fossi solo matto?” si interrogò.
La luce si affievoliva e fu quando la stanza avrebbe voluto qualche lampadina accesa che Ruggero si rispose ad alta voce eccitato: “Era giorno, cadono sempre durante il giorno!”.
La disperazione suggerisce conti strani e insinua tra i pensieri un’impaziente confidenza in ragionamenti strampalati: “Se fosse il giorno, e non io il problema?” si disse.
Si alzò e cominciò a camminare in cerchi sul tappeto con passo sempre più spedito finché apparvero, una dietro l’altra, alcune immagini di quei corpi in caduta libera e le suddivise per ora di apparizione.
Sì, era il giorno: la maledizione era legata alla luce diurna, la strada per risolvere l’enigma era quella. “Non posso più vivere di giorno, io devo vivere di notte” gli sembrò una soluzione perfetta, la più desiderabile. E quella notte uscì.
Varcato il portone verso mezzanotte, Ruggero guardò la strada dove si affacciava il suo palazzo. Non era ancora estate ma la primavera romana aveva già fatto dimenticare che ci fosse stato un inverno solo qualche settimana prima. I marciapiedi erano vuoti e illuminati. In fondo, la Basilica di Santa Maria Maggiore e la sua facciata di mosaici dorati. Le tessere riflettevano la luce dei lampioni della piazza semicircolare che si apriva di fronte alla chiesa e con il loro riverbero sembravano invitare Ruggero come il canto di mille piccole sirene. Lui non aspettò il bis e si incamminò. Tra i rami degli alberi ancora secchi e spogli le linee della basilica si facevano spazio e lui, come ipnotizzato, si avvicinava sempre di più. Ad ogni passo la basilica si ingrandiva e all’interno della loggetta si riallineavano i contorni dei santi del mosaico fino a ridisegnarsi. Rapito dall’arte degli antichi mosaicisti, attraversò la strada acciottolata e si fermò lì davanti con gli occhi spalancati. Questa volta non ci fu alcun fracasso, ma un telo bianco che sulla sinistra, accanto al palazzo che faceva angolo, cadeva appesantito lasciando l’eco della scia di un fruscio di drappi e di vento. Poi, prima che quell’ingombro toccasse terra, Ruggero urlò e chiuse gli occhi. L’urlo continuò per trenta secondi e riecheggiò su tutta la piazzetta. Aprì gli occhi. Il fagotto bianco, una volta a terra, si dischiuse e dall’interno si intravidero due braccia candide e un corpo di donna giovane. L’incanto era finito: era la caduta numero diciassette e Ruggero ripresi i conti con la realtà continuò l’urlo di prima inginocchiandosi. Iniziò a piangere e a singhiozzare a testa china. Alzò la testa per respirare tirando su con il naso e con un lamento strascicato in gola aprì gli occhi pieni di lacrime che incrociarono davanti a lui un altro paio di occhi, più chiari dei suoi e socchiusi. Smise di gemere e guardò la donna sdraiata nel lenzuolo bianco che lo fissava calma e stanca. Tirò su con il naso e raspò la gola un’ultima volta prima di sprofondare nel silenzio e restare immobile a guardare quell’essere meraviglioso.
“Che luci meravigliose! Come brillano quelle pietre, pare una sinfonia. Erano secoli che non vedevo questa piazza. Hanno fatto un bel lavoro con la Basilica, anche se me la ricordavo più semplice e accogliente,” disse la donna alzandosi.
Ruggero non emetteva un suono, dondolava sulle ginocchia con lo sguardo fisso sul miracolo che gli parlava.
“Ormai solo quegli esaltati dei monaci si prostrano al suolo e vederlo fare ad un semplice fedele sorprende anche me, alzati!”
Ruggero a fatica si alzò e balbettò “Ma tu…tu sei…caduta dall’alto”
“Sì, dall’alto dei Cieli!” precisò lei
“Ma non ti sei fatta nulla, sei scesa giù come un sasso, ti ho vista”
“Chiamata d’urgenza, diciamo. Vedi, lassù pensano che si sia esagerato da queste parti. Questa mania delle invocazioni sta creando confusione, ma una confusione che non ti dico” e la donna prese e gesticolare con entrambe le braccia a disegnare nell’aria la sua idea di confusione.
“Dopo più di duemila anni di improperi e grida” continuò “era difficile non appesantirsi e rimanere indifferenti a questi continui richiami. Non passa giorno senza che qualcuno sia risucchiato a terra come un insetto da una tromba d’aria, e quel poveraccio, a contatto con l’aria del mondo, subito riprende il suo ultimo stato umano, martoriato e sanguinante, proprio come lo avete visto prima del trapasso. Sono stati tutti martiri, dopotutto. Certo, per me le cose sono state un po’ più facili.”
Si soffermò su Ruggero. Lui era in estasi, non staccava gli occhi da quell’incarnato immacolato, da quei capelli perfetti e morbidi. Forse tutto era finito e forse la maledizione era stata spezzata da una guerriera gentile e bella. Non era più certo di niente, ma di una cosa, sì: il cielo, dopo tutto quell’inferno di sangue, aveva deciso di ricompensarlo con un angelo. Lei sembrava non poggiare i piedi per terra e così si sentiva lui, leggero come un fiocco di neve che non atterra mai, sospeso dalla forza di un sentimento puro e sacro.
“E allora non dici nulla?” fece la donna.
“Sono morto io, stavolta?” chiese lui a bassa voce.
“No, ancora no”, disse lei.
La donna sembrava annoiarsi un po’ e tagliò corto:
“D’accordo che sei sotto choc, ma un bicchiere d’acqua potresti offrirmelo. Non mi ricordavo che le città fossero così calde”, lo rimproverò.
L’uomo annuì. Gli sembrò d’un tratto di scorgere uno sguardo stizzito e di sentire una frase nell’aria, anche se lei aveva le labbra socchiuse:
“Come in cielo così in terra: tocca sempre a noi donne fare tutto” e una luce li avvolse.
Ruggero non si ricordò come, ma si ritrovò nel salotto con un bicchiere d’acqua in mano mentre lei era seduta sul divano.
“È tanto che non mi affidavano un caso, ed ecco che ci siamo. Perché non ti credere, il maschilismo sta ovunque. Comunque dobbiamo capire che succede e come risolvere, io da qui non mi muovo finché non troviamo una soluzione. Questo posto può andare. Potrei anche riposare qui questa notte.” Sentenziò la donna.
Ruggero non ci fece nemmeno caso. Si ricordò del suo calendario e andò a cercarlo ma una volta preso tra le mani non sapeva se segnare un’altra croce, la diciassettesima. Perché sì, un altro corpo era caduto giù dal cielo, però non c’era stata nessuna ambulanza e non era stata versata nessuna goccia di sangue, anzi!
Fu così che su quel giorno segnò un cuore. Guardò la sua bella ospite e le disse “Devo parlarti: ho molte cose da raccontarti”.
“Non ti preoccupare” lo rassicurò lei “ho tutta l’eternità per ascoltarti”.