La pagnotta

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Illustrazione di Agrin Amedì
Sono vent’anni che faccio questo lavoro e tutto mi aspettavo fuorché di ritrovarmi in questa malga dove sono cresciuta, tra le mura della vecchia locanda di famiglia, dove mio nonno offriva agli avventori polenta, salsicce e quella pagnotta calda che non faceva a tempo ad ambientarsi sui tavoli di pino che già era sparita.

Sono vent’anni che faccio questo lavoro e tutto mi aspettavo fuorché di ritrovarmi in questa malga dove sono cresciuta, tra le mura della vecchia locanda di famiglia, dove mio nonno offriva agli avventori polenta, salsicce e quella pagnotta calda che non faceva a tempo ad ambientarsi sui tavoli di pino che già era sparita.

Mi siedo in fondo alla sala rumorosa e allungo l’occhio al menù. Spero ne sia valsa la pena di arrampicarmi fin quassù a recensire l’ Incaprettata, un nome che è tutto un fiorire di sinistre promesse.

Con passo indolente, mi si accosta il cameriere abbronzato in tenuta rupestre. Scopro che è anche il nuovo proprietario: si chiama Manish, è indiano, viene da Nuova Delhi e il drappo dorato che gli copre le spalle è un kamiz, dichiara indispettito dalla mia ignoranza. Ormai la globalizzazione ha raggiunto pure le vette più isolate. Manish mi suggerisce suadente l’antipasto verace di castrato di capra. Ripiego subito sul lussurioso prosciutto di caprone andaluso – tanto per chiarire – e poi ordino in sequenza il primo, uno tra i secondi più macchinosi della lista e il dessert, ovviamente. Scelgo vino rosso della casa e acqua naturale. Niente pane. Il pane affossa lo stomaco, annienta gli altri sapori e te lo fanno pure pagare.

Il proprietario sorride, ammicca fastidiosamente al mio desiderio di dolci e si eclissa in cucina. Già lo detesto. Ne esce con un fiasco taglia mignon di vino violaceo, la bottiglia d’acqua Sbocca Paradiso e un minaccioso cartoccio di pane fresco – dice. Me lo scarta quasi sotto il naso.

«Grazie, ma il pane non l’ho ordinato».

Manish pare stupirsi: «Signora,» obietta «il coperto è compreso» dice, guardandomi pure un po’ sdegnato.

Sto lì lì per sbranarlo, ma non voglio rivelarmi ora, sono in incognito. E mentre si allontana prelevo una salvietta di carta e, con due dita riluttanti, la stendo sul sovversivo paniere. E subito butto giù un bicchiere d’acqua, tanto per stroncare la brama che mi è salita in gola, ma mi si rapprende la lingua: sa di granito e di fango, l’acqua. Altro che sorgente paradisiaca. Lo sapevo che questo cocuzzolo tra i pascoli era una bufala. Seccata, mi verso un dito di vino, ruotando meccanicamente il bicchiere, osservando la pesantezza e annusandone l’aroma. Lo sorseggio piano, lasciandolo scivolare da un lato all’altro della bocca: ha un corpo pastoso e il retrogusto acre m’increspa le labbra. Dubbiosa, lo mollo a metà e mi accingo con un sospiro ad assaggiare l’antipasto che nel frattempo è giunto sul mio tavolo.

Il formaggio ha un sapore talmente delicato da rasentare l’insipido e si sgrana nella bocca come gocciole di latte rappreso. Scollo la lingua dal palato e mi lascio penetrare dallo sfilacciato prosciutto di caprone. Nel senso che un filetto mi è penetrato tra i denti e lì resta, un incomodo spessore che assomiglia pericolosamente al distanziatore odontoiatrico.  E poi quel cipiglio piccante mi provoca una stenosi acuta dell’organo gustativo che cerco di alleviare con una cucchiaiata di salsa agrumata. Ma non appena deglutisco si sprigiona un pungente effluvio fruttato con un aspro sentore di disinfettante. Mi brucia la gola e un intenso pizzicore mi scoppia nel naso e in tutto il viso che quasi mi va a fuoco. Starnutisco e mando giù un bicchiere di quella fanghiglia d’acqua per scacciare l’irritazione che si è impossessata di tutte le mie cellule e perfino mi ha fatto lacrimare gli occhi.

Ahhh. Liberazione. Ho la bocca congelata, adesso, ma spenta.

E perfino il capello di prosciutto è stato rimosso. Aggiungo due cubetti di ghiaccio all’acqua, casomai sentissi il bisogno di un’altra anestesia, e impreco sottovoce contro il mio capo e le sue fissazioni per le malghe, le caprette, Heidi e tutta la ridente categoria dei rifugi montanari.

Manish strizza l’occhio quando mi porta l’inciucio di capra ai porcini. Lo studio diffidente: ha un aspetto inquietante il raviolo solitario sulla crema beigeolina con certe scaglie dure sopra da far impallidire una pigna. Circospetta lo frantumo con i denti, emana un profumo di umori sospetti, ma ecco che subito mi raggiunge il cuore robusto del pecorino. La consistenza liscia e omogenea della pasta fresca ne fa risaltare la densità leggermente granulosa, mentre il frullato di capra girgentana, spumoso e pieno, si mescola con il croccante porcino fritto: schiocca sotto i denti come una folata di vento settembrina. L’ Incaprettata sta risalendo la classifica, non c’è che dire, e attendo il secondo con discreta curiosità. Mi disturba però quel profumo invadente di pane, sembra avere le chiavi del mio olfatto, s’infila prepotente su per le narici e ci sbatte dentro la sua fragranza. Lo adocchio, lo circumnavigo con la mano e dirotto ancora sul bicchiere. Tracanno un altro po’ di mosto e transito verso la guancia di capretto infilzata su spada. Addento il tiepido boccone e lo mastico lentamente. Ha una consistenza caramellosa. Lo annego nel sugo e percepisco la dolcezza della mela cotta che si stempera nell’amarognolo dei capperi. La carne tenera e succosa si scioglie in bocca, passando da un tono agrodolce, che poi trae al selvaggio, un interessante abbinamento. Approvo, annuendo a me stessa, ma con la coda dell’occhio colgo l’espressione altezzosa di Manish. Neanche fossimo chez Maxim e lui un maître in livrea. Deve essere perché i piatti li assaggio appena, che mi scocca queste occhiate sprezzanti.

Manish sparecchia con un sopracciglio alzato e veloce mi porta il dessert, si vede lontano un miglio che vorrebbe levarmisi dai piedi. Lo ignoro amabilmente.

Il dessert placa le mille terminazioni nervose della mia bocca protese come piccole mani verso l’agognato glucide.

Lo trattengo in bocca, cingendo uno squisito prorompere di mascarpone che si espande sul palato come un setoso vello caprino. Un lieve profumo di caffè riverbera in un energico tono amaro, accendendo il contrasto con la delicata cremosità. Mi lascio prendere da quella piacevolezza e affondo il cucchiaino due, tre volte, arrendendomi al diabete.

E il viso mi si appiana, tutta la tensione della mascella si decontrae sotto l’effetto della droga zuccherosa e pienamente rilassata, con un gesto flaccido della mano faccio segno a Manish di avvicinarsi. È giunto il momento dello spoglio. Gli comunico languidamente la mia identità segreta: chef tal de’ tali, triplostellata eccetera, eccetera, reporter della testata giornalistica di.

Il proprietario strabuzza gli occhi, sdilinquisce, sbrodola una serie di salamelecchi, vuole offrirmi un mirto, una grappa, una collezione di caprette antiche. Racconta della sua infanzia tra i fornelli e i montoni sacri, confessa la sua passione per il vintage dell’anno mille a.C. e indugia sull’incontro mistico con il cuoco montanaro che gli ha cambiato la vita e di cui conserva gelosamente la fotografia. Sorrido graziosamente e acconsento a vederla. Manish s’illumina grato e sparisce in cucina. Soffoco una risatina soddisfatta a quel cambio di rotta. Ma mentre attendo l’epifania del mentore di Manish, distrattamente ho allungato la mano sotto il tovagliolo nel paniere. Prima di rendermene conto ho già morsicato la crosta bruciacchiata. Per un filo non mi strozzo. Le schegge croccanti m’ingorgano la bocca, ma la mollica bianca e soda strabilia il palato. Chiudo gli occhi. Sa di forno caldo ricavato nella roccia, di frumento appena colto, di acqua di fonte cristallina, del telo di cotone che l’ha avvolta, soffice e porosa come un cuscino imbottito, compatta come un muscolo teso. L’assaporo, sgranocchio, sbocconcello, sminuzzo, ingurgito, ingozzo. L’intruglio cresposo mi emoziona, mi avvince richiamando alla memoria profumi sopiti, sapori dimenticati, una giostra incomprensibile di dettagli diversi, un’incolta barba grigia, un naso rosaceo infiltrato da una fitta rete di capillari azzurrini, occhi bruni, curiosi, vigili e radi capelli che spuntano sotto a un cappello cilindrico bianco e un po’ floscio.

Sbatto le palpebre.

Ho impressa nella retina l’immagine di quel volto.

«Nonno» balbetto stordita.

Sbircio la colpevole fetta di pane, assaporando quell’attimo di lucidità che mi ha restituita a me stessa.

«È lui il mio faro» afferma Manish, interrompendo il flusso dei miei ricordi. Alzo gli occhi e mi sgretolo.

«Nonno» ripeto, mentre osservo la fotografia avvolta da una persistente scia odorosa di pagnotta. E poi respiro commossa: «Dimmi di più».

Sfodera un sorriso complice, Manish: «Tu sai qualcosa di più…».

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