Gino appoggiò il bicchiere al centro del bancone e si voltò a guardare la porta del bar tutta tremante che teneva fuori il vento impazzito. Adelina la barista gli parlò piena di rassegnazione: “Gino, pensaci bene prima di andare, ché fuori è la fine del mondo.” Ma lui se ne burlò facendole l’occhiolino e senza aprire bocca per prolungare il gusto dell’ultimo sorso di grappa.
L’Adelina aveva attenzioni per tutti. Era una donna sola ma attraente, arrivata in paese anni prima e mai più ripartita. Sembrava non invecchiare mai e nessuno ne conosceva l’età. Se le chiedevano che cosa la trattenesse in quel posto abitato da pochi vecchi e chiuso su ogni lato da montagne alte e nere, lei rispondeva opaca come la nebbia: “quando resterò chiusa fuori di casa, allora me ne andrò.”
Quella sera Gino era più cocciuto del solito; perciò la barista uscì da dietro il bancone, gli infilò un cioccolatino Mon Chéri nella tasca del giaccone di velluto liso e lo aiutò a indossare con movimenti lenti l’incerata.
Pioveva sempre forte di novembre e sulla strada lastricata, sotto la luce livida dei lampioni, le gocce d’acqua facevano schizzi alti come steli di grano. A ogni passo gli stivali di Gino falciavano la pioggia e aprivano un sentiero che subito si richiudeva. Tra le dita della mano buona stringeva il lembo del cappuccio calato sulla faccia. Non era davvero il clima adatto a lui: qualche goccia lasciata asciugare sulla testa e subito le orecchie gli scottavano. Il suo respiro tracciava l’aria con sbuffi di vapore denso: l’affanno faceva parte degli anni vissuti.
A dispetto dei santi, Gino ne aveva fatti ottanta pochi mesi prima, il ventuno giugno, il giorno del solstizio d’estate. In quell’occasione l’Adelina gli aveva preparato una festicciola a sorpresa, come aveva sempre fatto negli ultimi dieci anni e cioè da quando lui aveva perso la sua Gisa trovata morta in un dirupo. La torta fatta in casa campeggiava al centro della sala sopra un tavolino zoppo. Il bar aveva pareti nude e una luce povera dello stesso colore della polvere. Sopra il bancone c’era una fila di bicchieri capovolti il cui numero andava assottigliandosi nel tempo, perché ogni tanto l’Adelina ne rompeva uno mentre lo lavava. Gino aveva la mania dei numeri e era bravo a far di conto: si assicurò che le candeline fossero ottanta e le spense a gruppi di cinque, soffiando in tutto sedici volte. Lo circondavano pochi ma longevi amici. Aveva appena ripreso fiato dopo lo sforzo di spegnere le candeline quando il telefono a gettoni del bar squillò: sua figlia Ottavia gli mandava gli auguri anche da parte del genero e del nipote e gli prometteva che in agosto lo avrebbero raggiunto tutti insieme per festeggiarlo. Lui rispose con un filo di voce che non c’era fretta.
A metà del tragitto la bufera infuriava e dalle sopracciglia bianche gli grondavano goccioloni sugli occhi celesti. Gino ancora cercava invano nell’aria l’odore di legna bruciata nei caminetti; e se non ci fosse stato il fragore della pioggia, avrebbe sentito il torrente a nord che s’ingrossava. Una delle rare finestre illuminate ai lati della strada si aprì e una voce urlante di paese antico si offrì di dargli riparo prima che un colpo al cuore lo trasferisse nell’aldilà. Ma lui accelerò il passo pestando i piedi con forza e girò sotto un arco di pietra. Da lì cominciava la salita in cima alla quale si trovava la sua casa, l’unica abitata da quel lato del paese.
Aveva la pelle d’oca e doveva far presto a rientrare a casa anche perché i continui alti e bassi dell’illuminazione minacciavano di cancellare l’intero paese dalla vallata. Una volta al riparo avrebbe potuto asciugarsi, cambiarsi e bere un po’ di vino caldo. Per anni la sua Gisa aveva fatto tutte queste cose per lui. La moglie era stata una donna di poche parole, ma a volte faceva delle stupidate. Lui non lo voleva ammettere, ma gli mancavano quelle arrabbiature con lei. Anche l’interno della casa aveva cambiato aspetto e persino odore: un tempo Gino ne fiutava sempre uno pungente, quando tornava dal bar la sera tardi e dietro la porta trovava la sua Gisa che tremava.
Finalmente la luce sul portone di casa bucò la pioggia e l’uomo vide un’ombra davanti a sé restare immobile nella bufera. Una nuova potente raffica di vento irruppe nella strada lanciando ululati e spazzando via anche i sassi più pesanti; la pioggia gli allagò il cappuccio trattenuto dalla mano, vi fece dei giri come nell’acquaio e precipitò lungo la schiena ossuta. Il vecchio ripiegato su se stesso proseguì con passi malfermi e quando pensò di avere raggiunto quella strana sagoma alzò gli occhi e questa volta vide una donna anziana. Se ne stava in piedi, nuda e completamente asciutta, con un fazzoletto legato sulla testa. Gino con gli occhi stralunati riconobbe la sua Gisa. Il corpo di lei, come una fragile foglia aggredita da un terribile parassita, era ricoperto di macchie viola e gialle. La donna con la mano si tolse il fazzoletto dalla testa, mostrando un coagulo di sangue impastato con i capelli. E parlò: “non ti arrabbiare, ti prego. Lo so che quando mi hai spinta non volevi che cadessi nel dirupo, ma è successo. Però ti giuro che non l’ho detto a nessuno. Ero già morta quando mi hanno trovata.” Gino si coprì il viso sollevando le braccia davanti a quella mostruosità e quando piano piano le abbassò la sua Gisa era scomparsa. Per terra, invece, vide un pezzo di stoffa zuppo d’acqua che evitò di calpestare.
Di colpo il vento si ritirò sulla montagna. Gino salì barcollando i due gradini dell’uscio di casa e passò la mano sotto l’incerata per prendere le chiavi, che teneva nella tasca del giaccone di velluto; la rovistò una, due, tre volte senza che le dita potessero afferrare il metallo. Si domandò se avesse tirato fuori le chiavi al bar, ma la sua testa ascoltava soltanto i colpi sordi e ravvicinati che venivano dal basso: il suo cuore incrinato stava pompando sangue a fatica, come un’idrovora immersa nel fango.
Era rimasto chiuso fuori, era esausto e non si sarebbe mosso da lì. Non pensò più alle chiavi perdute chissà dove. Si rannicchiò sui gradini e appoggiò la schiena contro il portone, proprio sotto al lume acceso. Nel cono di luce guardava i fili d’argento della pioggia scendere lunghi come i capelli sciolti della sua Gisa. Qualche volta, quando la picchiava, se ne ritrovava una ciocca nella mano buona. Per sfuggire al ricordo di quell’osceno trofeo Gino cominciò a contare prima gli anni e poi i mesi e le settimane e i giorni passati assieme a lei. Ogni volta ne veniva fuori un numero sempre più grande, ma alla fine i conti non tornavano mai: per la Gisa la vita era stata una lunga serie di sottrazioni.
Dai boschi alti arrivava prepotente l’ennesimo segnale del vento che scendeva in picchiata sulla valle. Gino stava allungando la mano per accarezzare quei capelli d’argento nel cono di luce, quando un rumore come di vetro spezzato lo fermò per sempre: era il suo cuore che si frantumava. In quell’istante un identico rumore lo sentirono anche al bar, all’Adelina era caduto un bicchiere dalle mani dopo che lo aveva lavato.