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Era una bellissima giornata di luglio e poche nuvole pascolavano sperdute nel cielo blu, mentre un vento leggero piegava appena le spighe nei campi. In lontananza alcune balle di fieno giacevano in fila da qualche giorno, accanto a loro una trebbiatrice sembrava assopita da secoli, sotto il sole.

Questo racconto è stato scritto durante il laboratorio sull’autobiografia diretto da Rossana Campo per la Scuola Omero

Era una bellissima giornata di luglio e poche nuvole pascolavano sperdute nel cielo blu, mentre un vento leggero piegava appena le spighe nei campi. In lontananza alcune balle di fieno giacevano in fila da qualche giorno, accanto a loro una trebbiatrice sembrava assopita da secoli, sotto il sole.
A riempire il silenzio di quel primo pomeriggio assolato c’era il costante e monotono frinìo delle cicale.
Le cicale e il motore della fiat 126 rossa, lanciata all’impazzata nei campi assolati. Mentre saltava l’ennesimo dosso a pieni giri, all’interno, un gruppetto di ragazzini incoscienti urlavano e sembrava proprio se la stessero godendo. Saltava e atterrava bruscamente sui campi, in scie di polvere e spighe spezzate, di urla, risate, accelerate furenti; la 126 sbandava a destra e sinistra, come se non volesse saperne di andare dritta. Era il 1989, nelle campagne vicino Arpinova, sul Gargano.
Seduto su di una cassetta di legno per la frutta, alla guida c’era Edoardo, che allora aveva undici anni. Era il primo di quattro fratelli e sorelle. La più grande dopo di lui era Lina, che era seduta dietro, ancorata a Michele che si stava reggendo dove poteva, sfoggiando bestemmie fantasiose e inedite senza prendere fiato. A fianco al pilota c’era Antonia, la più piccola di tutti, che arrivava a stento a vedere oltre il parabrezza, probabilmente nel giorno più bello della sua vita di appena 6 anni. Quel pomeriggio aveva rischiato almeno un paio di volte di pisciarsi addosso, dalla paura e dal ridere. Quando il panico la prendeva, guardava Edo attraverso i boccoli bruni, e vedendolo ridere e urlare come un guerriero Apache in canotta, ricominciava a ridere anche lei.
Quella mattina prestissimo loro padre era andato fuori per lavoro e sarebbe tornato in serata, succedeva una volta al mese e Lina, come sorella più grande, era stata gradualmente preparata per questi casi; una sorta di processo di responsabilizzazione, cominciato con cose tipo fare le faccende in cucina dopo pranzo e (fase davvero importante) preparare il caffè.
Edoardo, più clandestinamente, si era accaparrato il potere decisionale e di iniziativa, come ad esempio imparare a guidare le auto che portavano dal paese a far riparare a loro padre. Quel pomeriggio il piano era di fare un giro sulla nuova Fiat 126, parcheggiata sotto il telo in garage. Erano piccoli pirati naufraghi, padroni di tutto quel nulla, nella loro isola sperduta nel mezzo del giallo dei campi. Era così da quando la loro madre se ne era andata improvvisamente due anni prima, a Roma, dicono.
Una volta è successo che Lina era in paese col padre a comprare uno sverniciatore e si era persa nel consorzio. Andando verso la cassa per cercare il padre, si fermò dietro lo scaffale dei mangimi e ascoltò una conversazione tra la signora Rosa del consorzio e una cliente. Parlava proprio di loro, stirando il collo e buttando occhiate oltre gli scaffali, attenta che padre e figlia non arrivassero per pagare, stava parlando proprio della mamma e di una fuga a Roma – … a Roma se ne è andata …nooo, ma aspe’, senti qua … addirittura lui, ogni mese …- poi il papà arrivò e andarono in cassa a pagare, accolti dal sorrisone di Rosa, mentre l’altra signora si stava già defilando.
Quella sera stessa, prima di cena, Lina riunì i fratelli dietro al pollaio per raccontare quello che aveva sentito, era bravissima a fare le imitazioni e per l’occasione fece un’ottima Signora Rosa Del Consorzio, infossando le guance e stirando e torcendo il collo proprio come le galline dietro di loro. Michele e Antonia risero incuranti quasi dell’argomento, Edoardo, invece, si arrabbiò non si capisce bene per cosa e se ne andò lanciando un bastone contro la rete e facendo scappare le galline.
Michele, ricomponendosi, rimase lì un po’ a fissare il vuoto e poi sbottò nel suo solito modo da bambino vecchio – E che cazz’ c’aveva fa’ a Roma?!- . Di quella conversazione non parlarono più. Da buoni fratelli, divisero in parti uguali e con la propria fetta ognuno ci fece quello che riteneva opportuno. Per quanto riguarda Edoardo, pochi giorni dopo era seduto dietro a un volante per la prima volta, una Alfa Sud bianca, brevi e singhiozzanti giri sull’erba. Gli occhi, pieni di collera fissavano oltre il parabrezza impolverato, verso un posto molto lontano da lì.
Quando in garage tirò giù il telo smisero per un attimo di respirare tutti. Nella penombra la 126 era rossa e lucente, sembrava già una palla di fuoco pronta ad essere lanciata fuori. Come al solito, risolsero il problema della visuale rovesciando frutta e verdura sul tavolo della cucina da una cassetta di legno e sistemandola sul sedile del guidatore. Non era la prima volta che Edo guidava un auto nei campi, ma questa volta era speciale: era il giorno del primo giro in auto con i fratelli per Antonia. Con la cassetta, Edo riusciva a vedere benissimo oltre il parabrezza, quanto un guidatore adulto.
Quando la prima volta si accorsero che la cassetta permetteva di guardare oltre il cruscotto ma allontanava i piedi dai pedali, Lina ebbe un’idea e portò Edo in soffitta. Aprì una cassapanca impolverata. Erano alcune delle cose che la mamma aveva lasciato prima di andarsene, vestiti vari, leggeri, colorati, pesanti, pellicciotti … Edoardo e Lina rimasero lì ad osservare per un attimo, magari chiedendosi entrambi se ricordassero di aver visto uno di quei vestiti indossato dalla madre. Quella donna che in fondo un mistero lo è sempre stata. Quella donna che si sedeva in veranda per leggere e che poi posava il libro, cominciando a fissare i campi in silenzio, fumava sigarette fini, bianche e sembrava una di quelle attrici dei film, per quanto era bella. Quando il sole le batteva sopra aveva gli stessi colori dei campi e del grano, sembrava sparire nella luce e a volte, quando si accorgeva di essere osservata, si girava e ti guardava con gli occhi colmi di un amore sincero e di uno spaventoso senso di pietà; sembrava quasi intristirsi, quando ti sorrideva.
Mentre le braccia di Lina affondavano tra i vestiti, in fondo alla cassapanca, Edo raccolse una foto. Erano suo padre e sua madre, accanto ad una torta a cinque piani, il giorno del loro matrimonio. Ai lati c’erano i nonni paterni; quelli della mamma, invece, erano sempre stati sconosciuti anche a lei.
Lina si fermò qualche istante dal frugare e alzò gli occhi verso il fratello, sembrava ipnotizzato; Lina la conosceva bene quella foto. La prima volta gliela mostrò proprio sua madre, poco prima di andare via. Giocavano col vestito del matrimonio e la mamma le fece indossare il velo bianco. Mentre Lina si guardava, incantata davanti allo specchio, la mamma le si avvicinò all’orecchio e le bisbigliò qualcosa, come fosse un segreto.
– la vuoi sapere una cosa?…guarda bene, guarda la pancia …
Davanti al fratello, Lina esitò qualche istante. – Hai visto, Edoa’? guarda bene, guarda … Edo alzò gli occhi sulla sorella, restando in silenzio
– Guarda la pancia, Edoà … – Edo ritornò a fissare la foto.
– … c’eri pure tu al matrimonio.
Mentre ascoltava le parole della sorella, Edo passava delicatamente il dito lungo le curve ai lati della pancia. – … eri dentro la pancia.
Poi, improvvisamente, Lina tirò fuori dalla cassapanca un paio di scarpe con le zeppone alte, distogliendo Edo dalla foto. Per qualche secondo si fissarono seri nella luce, attraverso la nuvola di acari e polvere, poi Lina sorrise dietro le zeppe, il fratello le rispose illuminandosi in uno sguardo folle.
Quelle zeppe erano ai piedi di Edo anche il giorno della 126, e le affondava sull’acceleratore a tavoletta poco sotto un dosso. Tra le urla di giubilo e di paura, subito dopo il tonfo che li sobbalzava sui sedili, dal parabrezza sparivano i campi e la polvere per lasciare il posto al blu del cielo. Sbattendo per l’ennesima volta a terra erano quasi vicini alle balle di fieno, non si erano mai spinti così lontano, mai così veloce. Edo si girò verso Lina – Facciamo il giro della trebbiatrice! – Lina fece rapidamente sì tre volte col capo, anche se non era stata proprio una domanda. Infatti l’auto stava già puntando verso il mastodonte e, man mano che si avvicinavano, Edoardo decise che c’era abbastanza spazio da poter passare in mezzo, tra la trebbiatrice e una delle balle di fieno lì accanto. Sarebbe stato memorabile. Improvvisamente Michele smise di esultare e un pensiero gli attraversò la testa più veloce dell’auto stessa … suo padre che parlava con Leone, il padrone dei campi, si era dovuto fermare con il lavoro, aveva rischiato di rompere la trebbiatrice e gli serviva una mano a fare qualcosa, dovevano chiudere …
– ILPOZZOILPOZZO!!!- Michele smise di reggersi e si attaccò alla spalla di suo fratello stringendo quasi a fargli male. Edoardo era così sotto la trebbiatrice e la balla di fieno che già gli facevano ombra, per un attimo vide il pozzetto di cemento che spuntava dal terreno. Sterzò come poteva a sinistra per evitarlo e riuscì istintivamente a frenare un istante prima ma non fu sufficiente e la corsa si arrestò violentemente contro la balla, di traverso. La fiancata strideva in un rumore sordo e cupo contro la paglia che entrò dentro come una tempesta, pungendogli braccia e faccia. Michele e Lina diedero una facciata ai sedili, Antonia balzò con tutto il corpo contro il cruscotto come una bambolina di pezza e rimbalzò indietro sul sedile, muta.
Dopo il caos per qualche secondo ci furono solo le cicale e il vuoto intorno. Edoardo, con la mano sudata, cominciò a togliersi il fieno che gli pungeva la faccia e non gli faceva aprire gli occhi. C’era odore fortissimo di paglia misto al puzzo di grasso di motore e benzina della trebbiatrice. Le urla di Lina, come una crepa, gli aprirono il petto – ANTONIA! ANTONIA!
Edoardo si girò verso Antonia, al sedile a fianco. Era immobile con le braccine lungo i fianchi, seduta nella sua pipì, i boccoli scuri cadevano sulla faccina china, il sangue le copriva la magliettina bianca, colando dal viso. Lina continuava a gridare, mentre Edoardo si sentiva attraversato dal vibrare del panico, così forte e ovattato che gli annebbiò la vista e quasi lo rese sordo.
27 anni dopo, la cannuccia gira vorticosamente nel bicchiere, mentre i quattro cubetti di ghiaccio si inseguono in tondo, cominciando a sciogliersi nel rosso del drink, nel calore estivo. Edoardo li fissa assorto, come un marionettista che muove i fili della danza vorticosa dei cubetti. Ci sono altri due bicchieri vuoti sul piccolo tavolino; infatti è il terzo drink prima di mezzogiorno e lui sta cominciando a disordinare pensieri già slegati fra di loro.
Il sole comincia a picchiare, il bar si sta cominciando a riempire, intorno a lui e uno dei camerieri fa scendere le tende per fare un po’ di ombra. Edoardo decide di dare un altro sorso, di tanto in tanto ci prova a bere con meno fretta. E’ il 2016, in qualche piazza a Rione Trastevere, a Roma.
I pensieri diventano un liquido denso, tutto perde forma e si scioglie; in un vortice di voci ovattate e lontane, tutto è sovrastato soltanto da un crescente rombo oleoso di mille motori.

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