Trine Dyrholm

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Siamo in un bel giardino al Lido di Venezia, è mattina e da oltre il cancello arrivano attutiti i rumori della strada: le prime avvisaglie dei controlli tanto annunciati che pure non sono riusciti a scalfire l’atmosfera sospesa del Festival.

Siamo in un bel giardino al Lido di Venezia, è mattina e da oltre il cancello arrivano attutiti i rumori della strada: le prime avvisaglie dei controlli tanto annunciati che pure non sono riusciti a scalfire l’atmosfera sospesa del Festival. Anzi sembra, per ironia, che la minaccia abbia contribuito all’estetica dei luoghi e le nuove protezioni attorno al Palazzo del cinema : giochi d’acqua, alberi, comode sedute, danno l’illusione di un mondo fatato. E non è forse l’illusione uno dei grandi doni del cinema?
Stamani la sezione Orizzonti del Festival ha aperto con un film meraviglioso: Nico, 88 e la sua sublime protagonista Trine Dyrholm  avanza ora sul prato incontro ai giornalisti. Ha un portamento regale e, insieme, affabile. Alta, capelli biondi corti attorno al viso squadrato, pantalone e casacca neri con morbida cravatta bianca. Inevitabile per i giornalisti cercare nella sua figura maestosa tracce del personaggio che ha incarnato sullo schermo: la mitica Nico (1938—1988), nome d’arte di Christa Päffgen musa di Warhol, cantante dei Velvet Underground e donna dalla bellezza leggendaria che, però, negli ultimi anni della sua vita, quelli di cui il film racconta, cambia radicalmente: e da solista gira l’Europa con una band di disperati. E’ grassa, violenta, antipatica,  ma sembra aver trovato finalmente se stessa e il nostro cuore di spettatori batte per lei.
Chi temeva il solito film sull’artista maledetto è costretto a ricredersi.
A prima vista, somiglianze non ci sono: ciò che nell’attrice danese è garbo ed eleganza, nella donna sullo schermo è autolesionismo e provocazione.
Ciò che in Trine Dyrholm è misura e controllo, in Nico è ferocia sguaiata.
Sono lontane come la notte dal giorno, e il sole dalla luna.
I giornalisti si avvicinano con i loro poveri mezzi, microfoni e mancanza di tempo imposta dai ritmi del festival, e, quasi per curiosità personale più che per obbligo di mestiere, cercano in lei un indizio che permetta di capire come sia riuscita a trasformarsi nel suo personaggio: un graffio, una ciocca scomposta di capelli, un mozzicone delle infinite sigarette che Nico fuma sul palco, durante le tournée con  cui percorre l’Europa ancora divisa dal muro: Norimberga, Praga, il litorale laziale, il vago lucore che l’eroina lascia negli occhi, ma non c’è niente.
Lo sguardo azzurro di Trine risplende sereno nella luce del Lido come i suoi orecchini d’oro e brillanti.
“Come è stato interpretare un personaggio così forte?” le chiedono.
Lei sospira, con un sorriso delicato.
“E’ stata una sfida…”
La voce profonda, meravigliosa, nel suo inglese di scandinava, manda brividi giù per la schiena. La stessa voce di Nico sullo schermo. Noi avevamo già visto questa bella signora, ci era capitato di incontrarla a Roma e a Venezia per altri film (In un mondo migliore, All you need is love) ma in quelle occasioni era stata un sorriso caldo, un’apparizione luminosa alle spalle della sua regista Susanne Bier. Non ci aspettavamo una voce così potente e fa uno strano effetto.
E’ questo dunque l’indizio: l’anello che unisce attrice e personaggio?
“Nico” spiega Trine “era una donna dura, molto complicata, piena di contraddizioni. Ho cercato di arrivare a lei attraverso la musica. Interpretare le sue canzoni è stata, per me, la chiave.”
Già a 14 anni Trine Dyrholm era conosciuta in Danimarca come cantante ed è lei nel film a cantare. Ha ascoltato i concerti di Nico, li ha studiati e poi ha lavorato in studio per creare la sua versione di quei testi.
“Da ragazza ho anche partecipato ad Eurovisioni” dice senza vanto “ma non ero certo una pop star.”
Il giornalista, pieno di ammirazione, le chiede di dargli una prova e di cantare ora per lui.
Trine, nella sua compostezza scandinava, lo guarda sorpresa: cantare così sul prato, mentre qualcuno dal giardino vicino passa il tosaerba e non c’è verso di fermarlo? Ma alla fine accetta, solo una strofa e quando la sua voce possente si leva nel giardino ogni altro rumore attorno scompare.
L’operatore è dovuto salire su una sedia per catturare la sua voce.
Sembriamo  tutti  più piccoli, sovrastati dalla sua maestosa presenza.
E allora lei pragmaticamente, umilmente si domanda se non sia meglio liberarsi delle splendide scarpe dorate dal tacco vertiginoso, tra l’altro piuttosto scomodo perché affonda nella terra fresca.
Le sfila via con discrezione e indossa ballerine nere con ricami in un colore più chiaro. Ed è ancora maestosa. L’unico problema è l’orlo dei pantaloni troppo lunghi e per spostarsi bisognerà tenerlo un poco sollevato come le damigelle di un tempo, non certo come Nico  che, alla fine, non si curava affatto dei suoi abiti né dei suoi gesti.
Arrivano nuovi giornalisti e nuove domande si susseguono nel tentativo di carpirle il segreto della sua trasformazione.
“Ho ascoltato le sue interviste, ho studiato il suo modo di camminare, la sua voce. E’ stata la sua musica ad offrirmi la chiave: una musica diversa, originale a cui in molti si sono ispirati. La musica che Nico ha creato quando ha smesso di essere un’icona, quando, per assurdo, è stata dimenticata.”
Sono risposte ragionevoli, ma sembrano non bastare.
“Quale pensa sia stato il momento di rottura, di cambiamento  per Nico?”
Lei rimane in silenzio qualche istante a pensare.
“Credo sia stato quando le hanno tolto l’affidamento del figlio.”
Ari, come Nico lo chiamava, avuto da Alain Delon e da lui mai riconosciuto, ma allevato dai nonni paterni.
“A quel punto qualcosa è successo dentro di lei. Credo che tutta la sua vita abbia cercato di riprenderlo. Per questo nell’ultimo periodo riesce a disintossicarsi dall’eroina: voleva recuperare il tempo perduto e riaverlo con lei. E’ un tema molto presente nella sua musica, se pensa ad esempio a My only child.”
Se qualcuno, cedendo all’antipatia che Nico talvolta suscita, avanza qualche critica,  Trine la difende.
“Certo, non è stata quella che chiamiamo “una buona madre” spiega “ma la questione è complessa, c’è comunque dell’amore in questa storia. Siamo abituati a vedere uomini che per i loro impegni abbandonano i figli senza soffrirne, ma se lo fa una donna sembra diverso.”
Lo sguardo di Trine, mentre ripercorre il lungo viaggio di ricerca sul suo personaggio, si perde lontano.
“C’era un lato in lei molto oscuro in cui ho cercato di entrare per capire contro cosa lottasse. C’erano tante battaglie dentro di lei e tanto buio.
E’ così che io lavoro: cerco delle crepe, delle fessure che mi permettano di avere accesso al mondo interiore di un personaggio. La malinconia di Nico, il suo buio mi hanno offerto un varco e spero che anche il pubblico riesca a vederla al di là delle sue difese, della freddezza dietro di cui si proteggeva.”
La sua voce si abbassa come per una sorta di pietà. Il suo viaggio l’ha portata a toccare il cuore del personaggio, ed è un cuore che va protetto perché non è facile andarci vicino.
Immersa nel ricordo di Nico, Trine sembra al riparo da tutto, anche dalle zanzare che cominciano ad assalire gambe e braccia dei giornalisti.
“Era una figlia della guerra” continua “ Era nata a Colonia, aveva vissuto a Berlino sotto le bombe. Spesso non si tiene conto della colpa che una generazione di tedeschi si è portata dentro.
E’ una storia di identità: una donna bellissima che soffriva di esserlo. Ha lottato tutta la vita con se stessa. Erano battaglie da cui non sapeva come uscire. Aveva fatto molti errori, la sua vita era un gran casino.”
Il senso di colpa e l’origine tedesca vengono affrontati nel film con ironia feroce e insieme struggente. Ad esempio nell’intervista in cui Nico, al giornalista di Manchester lusingato dal fatto che lei abbia scelto di vivere nella sua città, spiega candidamente che Manchester le ricordava le rovine di Berlino alla fine della guerra o il passaggio stupendo in cui Nico parla della ricerca di un suono indefinibile: il suono della sconfitta.
“Tra le tante interviste che ho ascoltato una in particolare mi ha colpito” sta dicendo Trine  “Alla domanda se abbia rimpianti lei risponde secca, brutale come era nel suo stile: l’unico rimpianto è di essere nata donna.
Credo che per tutta la vita non si sia sentita bene nei suoi panni, la bellezza le impediva di ottenere il rispetto che meritava e a cui aspirava come artista. La sue provocazioni erano delle difese.
She was not a pleaser.  Non faceva nulla per piacere alla gente.”
“E c’è stata una scena particolarmente dura da girare?”
E’ la domanda di rito, anche i giornalisti cercano di trovare in lei una crepa, per entrare nel  suo lavoro di attrice.
“Alcune scene con Ari… cantare le sue canzoni perché non volevo imitarla, volevo trovare la mia versione di lei…”
Continua a pensare e poi ridendo, con infinita leggerezza, dice: “No… la scena più difficile  è stata quella in cui ho dovuto ingozzarmi di spaghetti. E’ stata mia l’idea di mangiare a quel modo e me ne sono pentita…. Perché farlo una volta va bene, ma  mangiare così tutto il giorno è stata dura.”
Ora è arrivata anche la regista: Susanna Nicchiarelli, una bellezza diversa:  capigliatura rossa e le spalle piene di lentiggini. Terranno insieme una piccola conferenza, si siedono una accanto all’altra e si intuisce il divertimento, il tocco leggero tra loro. “Con Susanna” dice Trine “ci siamo incontrate a Copenaghen, mi aveva mandato il copione e poi abbiamo deciso di incontrarci per una chiacchierata. Abbiamo trascorso una giornata deliziosa, ho sentito subito un’affinità, e, alla fine, mi sono detta: questa è un’avventura che non mi voglio perdere.”
Di nuovo riparte l’assalto delle domande per capire come due artiste così luminose siano riuscite ad entrare nel cuore nero di Nico. Sebbene le donne, tra le giornaliste, sembrino capirlo di più, possono capire Nico e il suo dolore, e anche il sollievo di essere brutte, sgradevoli e finalmente libere di vivere come si vuole, di dedicarsi a ciò che si ama.
La regista racconta della sua lunga ricerca, ha incontrato molte persone che sono state vicine a Nico in quegli ultimi due anni della sua vita, dall’86 all’ 88, di cui il film parla. Racconta di aver incontrato a Parigi suo figlio Ari. Di averci parlato a lungo e di aver trovato in lui la stessa ironia della madre.
L’ironia che pervade il film e che permette di accostarsi alla storia senza sbavature  o sentimentalismi.
“Mi sentivo un po’ stupida ad essere lì con lui e a fargli certe domande. Gli ho chiesto: Ari, pensi che tua madre soffrisse quando tu tentavi il suicidio? E subito dopo pensavo: ma come posso essere così stupida, a chiedergli queste cose?
Poi la regista si lancia in un lungo affettuoso elogio di Trine. E’ stata lei, dice, a frenare, a imporre sempre alla recitazione un tono asciutto.
Racconta dei tanti premi vinti dall’attrice in Danimarca, di Brecht che ha portato a teatro, non solo recita in inglese, ma anche in tedesco, ed è anche regista: ha girato degli episodi di una serie televisiva.
Trine sorride, si schermisce: “E’ stato un anno molto intenso e adesso ho bisogno di un po’ di riposo”
Tra gli attori del film qualcuno ha voluto incontrare le persone reali che avrebbero portato sullo schermo: l’impresario, i componenti della band, il figlio. Trine non ha voluto incontrare nessuno.
“Per il lavoro di sceneggiatura è importante conoscere le fonti reali, e per ogni attore è diverso. A me piace usare la realtà per creare personaggi universali, come lo è la nostra Nico. Credo che troppa realtà finisca per soffocare, l’eccesso di conoscenza limita la capacità creativa”
Parla del suo lavoro con serietà e infinito piacere. Il suo mestiere è per lei, si capisce, un’immensa passione.
“Io faccio le mie ricerche: ascolto interviste, guardo i concerti, osservo i gesti, poi metto tutto assieme e cerco di ricostruire il mondo interiore. Da lì creo la mia personale versione del personaggio.  Qualcuno dirà: la vera Nico non parlava così, non si muoveva così. Ma non importa. Prima delle riprese sono molto scrupolosa, ma una volta che si inizia a girare…” chiude gli occhi, solleva le mani aperte in aria e sorride “tutto diventa pura incoscienza.”
“Cosa ha lasciato in lei questa donna? Vivere una storia così dolorosa cosa le ha lasciato?” incalza qualcuno.
“Cosa mi ha lasciato…” ripete lei nel suo affabile aplomb.
Vorrebbero sentirle dire che è stato duro uscirne, che il personaggio ancora la tormenta, ci sono attori che vengono devastati dai loro ruoli.
La risposta alla domanda potrebbe dirci cosa unisce l’attrice al personaggio oltre alle apparenti differenze.
Trine ci pensa.
“Mi resterà l’enorme energia che mi hanno trasmesso i suoi concerti.” dice alla fine. “Ho preso da lei una grande forza. Non la conoscevo prima di questo film, e non posso dire di sapere neanche adesso chi sia, ho solo provato ad immaginarla.
L’immaginazione è uno strumento meraviglioso.
Mi piace immaginare. E’ quello che faccio da anni.”
Nel suo sorriso c’è una vena di ironia. Il tempo delle interviste è finito e sorridendo, come è arrivata, si allontana  sul prato.
L’ultima immagine che abbiamo di lei è in piedi in sala, dopo la proiezione ufficiale, accerchiata dal pubblico, sommersa dagli applausi. E mentre sorride commossa, diversa dalla donna che è stata sullo schermo fino a pochi minuti prima, d’un tratto capiamo quale legame le unisca: è la forza di chi ama ciò che fa, di chi ha trovato finalmente la sua strada.

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