L’ospedale puzzava di candeggina, spalmata ogni sera su centinaia di metri di linoleum verde. Candeggina mista a patate lesse, urina, pannoloni usati e altre fragranze organiche. Occasionale sentore di morto. Ero parcheggiato in quel letto di terapia coronarica da due settimane, dopo i tre stroke. I tre big bang. Relativamente vecchio, relativamente giovane. C’era chi diceva che lavoravo troppo. Che fumavo troppo. Dipendente da telefono, mail, messaggistica istantanea: una partitura frenetica priva di pause. Così quella, di pausa obbligata, mi aveva profondamente spiazzato. Avevo acquisito le routine ospedaliere in un paio di giorni. Finite le novità, il tempo aveva iniziato a dilatarsi e ne soffrivo. Temevo di superare il punto di ebollizione. Conoscevo i turni, le facce, i ruoli, i sapori, gli occhi, tutte le scomodità del luogo. Una noia mortale. A volte una TV accesa o i discorsi stanchi degli infermieri decoravano quell’aria maleodorante. Rarissime risate. L’insonnia, poi, era diventata un problema. Il brusio elettrico dei macchinari cui eravamo attaccati, io e gli altri poveri cristi, di notte diventava insopportabile, non riuscivo a ignorarlo. Anche quella sera non dormivo, pur avendo già ingurgitato le pillole della buonanotte. Decisi di alzarmi, ero inquieto e volevo fumare. Ci misi del tempo per districare tutti i fili che mi connettevano ai terminali, attento a non scollegare nulla. Dopotutto, volevo mantenermi vivo. Mi affacciai arrancando nel corridoio. Dovevo evitare gli infermieri, mi avrebbero ricondotto a letto senza sentire ragioni. Presi più rapido che potevo il corridoio opposto alla medicheria, sostenendomi con il carrello dei macchinari e con l’asta della fleboclisi. Dietro di me uno strascico di cavi elettrici e tubi in pvc. Chiamai l’ascensore e scesi come le sere precedenti al seminterrato. Di notte nessuno si affacciava laggiù, il piano era destinato ai magazzini e alle cucine. Avevo avuto la segnalazione da un portantino, lo stesso che per pochi euro mi aveva procurato un pacchetto di sigarette che tenevo nascosto sotto al cuscino. Fumai in fretta, affacciato sul ballatoio di una porta di servizio, mentre viaggiavo nella mente tra ricordi e fantasie. Rientrando, dimenticai che un tubo del sistema idraulico fluttuava sospeso proprio dietro la porta, a meno di due metri di altezza. Lo presi in pieno tra tempia e nuca, perdendo i sensi un paio di secondi dopo.
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Mi trovavo adagiato su un letto. Sulla parete alle mie spalle, che rimiravo da sotto a sopra, un affresco barocco simulava in trompe l’oeil una cornucopia piena di cibo, su sfondo bucolico. Una luce fioca illuminava un’enorme stanza, sagome scure di vecchi scaffali; lo spazio si articolava in pianta irregolare, quasi venisse fuori da un vezzo o da un errore di un disegnatore disattento. Una donna, seduta a gambe incrociate accanto a me, mi fissava intensamente. Mi chiedevo dove fossi. Chi fossi. Ricordavo il mio nome, soltanto quello; fui pervaso da un’angoscia profonda. Non potei far altro che agganciarmi a lei, era così invitante. Dagli occhi, esplosione di riflessi cangianti, distillava erotismo. Sulle guance paffute le ricadevano simmetriche due ciocche di capelli color rame, striate di bianco; la pelle perfettamente vellutata, tra l’ocra e il giallo. Formosa al punto giusto, emetteva senza muoversi sonorità mutevoli che non riuscivo ad associare a immagini note. Un respiro abitato da presenze indefinibili. Mi attraeva visceralmente; fisso sui suoi occhi, iniziai a smarrirmi in fantasie su di lei. Percepii un profumo che mi sembrava di riconoscere ma che, come i suoni, non riuscivo a sublimare in idea. Mi prese la mano e affondai nelle sue carni. Colpito da quella mollezza improbabile, ritrassi istintivamente la mano per annusarla: profumava di patate lesse. Quell’aroma mi eccitava. Percepii un fremito al basso ventre, poi una notevole turgidità. “Mi chiamo Alberto. Tu?”. Avrei potuto uscirmene meglio. “Io sono colei che tu pensi io sia”. “Prego?”. “Io sono colei che io voglio tu sia”. Mi sorrideva, in attesa. La baciai sulle labbra. Erano oleose, compatte, sapevano di guanciale. Annusai d’impulso una ciocca dei capelli bianco-rame. Come le labbra, quell’odore sembrava suggerirmi una fragranza carnea, untuosamente voluttuosa. “Ma tu…”, “Dai… dai…”. “… Chi sei?”. “Chi vuoi che io sia?”. D’improvviso il cervello produsse il suo output: Solania, nomen omen, epifania del gusto! Mi tolse il pigiama, gli slip, notai una difformità evidente in ciò che ricordavo avrei trovato lì sotto. Al posto del pene c’era un porcino. Un fungo, specie Boletus edulis. Lo scroto era composto da due piccoli caciocavalli, in parte rivestiti da fette di altri formaggi, difformi per tipo e stagionatura. Effluvi erborinati. Di dimensioni medie, il porcino faceva comunque la sua figura: gambo carnoso e solido, cappello emisferico teso fino a scoppiare. Iniziammo a scaldarci, lei accarezzò il porcino per un po’, lo baciò, ci guardammo, mi lasciò entrare. Cuocemmo insieme sul letto. Solania mi accolse molle nelle sue tuberosità, muovendosi ritmicamente sopra di me. Le labbra e i capelli iniziarono a sfrigolare divenendo croccanti. I riflessi bianchi si dissolsero mentre il rame, crogiolando, virò verso il marrone. Solania si scaldava, si sfaldava, io bollivo e cercavo con le mani di rimodellarla perché cuocendo e godendo si rammolliva sempre di più. Dalla sua fronte, gocce di grasso piovevano sui miei capelli, che si arricciavano in fretta prima di bruciarsi. Intorno ai 160° Celsius iniziammo a friggere di piacere. Noi, gli odori le consistenze e gli aromi, fondemmo in una ricetta magistrale. Ci assaporammo, a piccoli morsi. Iniziai dalle spalle, lei dalle guance. Eravamo deliziosi, cotti a puntino. Mangiandoci raggiungemmo un orgasmo annichilente. Con quello che restava di me, parte del tronco, la testa e mezzo arto inferiore, venni inondandola di fonduta in un tripudio sensoriale unico. Giurammo che non avremmo mai smesso di guardarci. Poi ci mangiammo gli occhi e ci divorammo ciecamente, divenendo una cosa sola.
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Aprii gli occhi. Di nuovo in stanza, qualcuno doveva avermi ricondotto lì. La puzza di candeggina era nauseante. Quell’odore acre si mischiava a fragranze alimentari stantie, pollo e verdure lesse, che mi riportavano nei ricordi alla mensa scolastica. Entrò il primario con la diagnosi: trauma cranico con evidente lesione ecchimotica in assenza di lacerazioni cutanee. Ero stato trovato riverso a terra da un inserviente delle pulizie alle cinque del mattino, piano seminterrato. Tentai di ricucire lo strappo mnemonico della notte precedente. Conservavo una sensazione di ghiotto benessere, immagini fantasiose di un amplesso gastronomico, un ponte succulento sopra la noia cronica dell’ospedale. Il primario borbottò qualche altra cosa, con il contegno paternalistico e baronale che gli si addiceva, mentre gli specializzandi sgomitavano e sbrodolavano per accalappiarne l’attenzione. Due minuti dopo erano già al letto successivo. Ripiombai nella noia che rischiava di farmi impazzire. A cena finsi di non avere papille gustative, dovevo in qualche modo nutrirmi. Scalpitavo, come ogni sera, per fumare; tornai furtivamente al seminterrato. Raggiunto il ballatoio, notai il tubo e aggiunsi una tessera al mosaico dei ricordi che cercavo di ricomporre. La mia mente vagò tra le volute bluastre del fumo di sigaretta, interrotte dagli sbuffi cinerei che espiravo dagli alveoli. Non capivo se stavo fantasticando o ricordando. Colto da un impulso irrefrenabile, colpii deliberatamente il tubo con la nuca, perdendo di nuovo i sensi.
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Venni accolto in trionfo. Dodici donne ricoperte di piume, glabre nei seni, nel pube e nel perineo, accennarono un sorriso arcaico, prosperose e in attesa di un mio movimento. Mi trovavo in un’esedra di dimensioni monumentali, delimitata da trentasei colonne, alte circa dieci metri. Capitelli completamente decorati da frutta e verdura in foglie, commestibili e mastodontiche. Le donne mi condussero attraverso una porta lignea, entrai dal lato più corto in una sala di forma rettangolare, lunga una trentina di metri. Sulla parete di fondo scorsi un’altra porta, identica alla prima tranne che per alcune decorazioni viventi: mele rosse, verdi, agrumi, piccole bacche. Al centro della sala si ergeva un talamo a baldacchino, sorretto da otto uomini nudi, privi della bocca e dei genitali. Alla mia vista si inginocchiarono, per permettermi di salire senza sforzi. Respirai a fondo. Le narici si riempirono di sentori di bosco e di frutta, matura al punto giusto. Percorrendo solennemente i quindici passi che mi separavano dal talamo, mi denudai con fare regale. Il mio pene era bifido. Da una radice comune si separavano due membri, profondamente differenti tra loro. Un pene era un piccolo volatile, un pappagallo sgargiante dal becco smussato che ripeteva insolentemente frasi gergali di accoppiamento. Il secondo era composto da quattro fusti di sedano sormontati da mezzo limone privo della scorza. Alle mie spalle soffiavano, ritmici e caldi, i respiri delle dodici donne. Salii sul talamo, fiero della mia duplice virilità, soffermando lo sguardo sulle spalle contratte e madide di sudore dei portatori. Mi adagiai sul materasso, scivoloso e umido, di un traslucido rosa pallido; credo fosse petto di tacchino. Le donne piumate si disposero equidistanti in circolo intorno al talamo. Udii un rumore profondo, le ante della porta con i pomi iniziarono lentamente a schiudersi. Ne uscì Lei, prodigiosamente. Sembrava provenire da un bestiario alto-medievale: testa di uccello rapace, capelli verde scuro, due ciliegie al posto degli occhi, riflessi purpurei. Bocca e non becco, carnosa e tremendamente umana, come il resto del corpo tranne i piedi, palmati. Un ciuffo di piume policrome, sul fondo della schiena, esaltava la scultorea rotondità dei glutei e la setosità della pelle. Il profumo di bosco si arricchì di essenze di mirto e limone. Mi raggiunse sul talamo. I portatori si alzarono sincronicamente in piedi, le donne iniziarono a danzare e salmodiare in cerchio, mentre il talamo veniva ruotato di 90 gradi al termine di ogni canto. Iniziò Lei, spremendo morbidamente il limone sui sedani, che sezionò poi longitudinalmente fino alla base. Il pappagallo ripeteva parole oscene. Ci consumammo di un piacere spalmato, farcito, imbiondito e spumato. Essudammo gusto da ogni poro. A fine cottura venimmo insieme, nuovamente fusi, su quel letto di carne. Chiudemmo gli occhi, stremati.
Li riaprii per guardarla ancora ma vidi Lui, oltre la porta dalla quale ero entrato. Il tubo. Danzava inondato di luce artificiale, tra drappi di cotone bianco e sguardi altezzosi. Decisi allora di restare oltre il tubo. Oltre le linee ospedaliere, oltre ogni cura medica. Ordinai di chiudere la porta. E feci bene perché mi trasformai in un sac à poche ripieno di panna e crema chantilly, vedendo una nuova Lei farsi strada nel piacere.