Chiara Briani è alla sua seconda prova con il romanzo, dopo Voglio potermi arrabbiare. Il primo era soprattutto la descrizione di un caso clinico (in linea con la sua professione di neurologo). Questo secondo titolo, Mrs Grace (Alter Ego 2017), è un caso di fiction pura, tanto che viene pubblicato con un bollino nero e la scritta thriller sulla copertina. La storia è ambientata a New York, dove Chiara Briani ha passato periodi decisivi della sua formazione e della sua vita professionale, e si svolge in luoghi simbolo della città: all’interno di un college, in alberghi lussuosi, in gallerie d’arte e in sobborghi pericolosi. New York finisce per essere una protagonista assoluta, proprio per le sue atmosfere, per i personaggi che la abitano, per la presenza contemporanea della scienza più avanzata e della povertà, dell’alta società e della sua malavita. La vicenda è dura e forte, narrata benissimo e senza sconti. Scoprite con noi le prime pagine della storia di Mrs Grace, che ha settanta anni quando torna dove ha vissuto la sua giovinezza. E torna per vendicarsi.
1
La campana aveva appena smesso di suonare quando Mrs Grace appoggiò il bastone a una delle panchine di Riverside Park e si sedette a guardare. La riva oltre l’Hudson aveva cambiato fisionomia: erano sorte nuove costruzioni e si intravedeva il profilo di un ponte che non ricordava.
La tomba del generale Grant, sebbene maestosa, era invecchiata come lei: l’intonaco si era crepato e la bandiera a stelle e strisce non riusciva a mascherare il degrado del tempo. Molte abitazioni non c’erano più, alcune avevano cambiato tinteggiatura, un intero palazzo era stato abbattuto e il negozio di alimentari era diventato un supermercato a cinque piani. Papyrus, la libreria del vecchio John, coi libri rari e le cartoline sbiadite, era stata soppiantata da un asettico locale sushi da asporto.
Le sole cose rimaste uguali erano gli alberi, gli scoiattoli e le scale antincendio.
Guardava fisso di fronte a sé, Mrs Grace Smith, con la curiosità e il timore di chi cerca di ricostruire un puzzle senza sapere se troverà tutte le tessere.
La chiesa c’era, il monumento a Grant pure, il fiume e gli scoiattoli anche.
Solo dopo dieci minuti si fece coraggio e provò a voltarsi, lentamente, a sinistra.
Vacillò, quando lo vide.
In una città in cui tutto cambia più velocemente delle foglie che cadono, il lampione all’angolo della 122ma strada era ancora lì.
Vicino, un raccoglitore di rifiuti. Per terra, un preservativo usato e una lattina vuota di birra.
Addosso a quel lampione, cinquant’anni prima, la vita di Grace era cambiata.
Facendo leva sul bastone si alzò piano e, con passo incerto, iniziò a camminare schivata dagli appassionati di jogging che affollavano il parco. Raggiunto il lampione, si fermò a osservarlo. Era color verde scuro, forse dipinto di recente, ma già tappezzato di offerte di camere per gli studenti del periodo estivo.
Mrs Grace gli girò intorno più volte, in senso orario e antiorario, quindi allungò la mano e, riluttante, lo toccò, mentre il battito accelerava. Rivendicazione mista a rabbia, questo sentiva dentro di sé.
Non ci fosse stato quel palo, forse non si sarebbe conclusa così la festa al college nel giugno di quel lontano 1967. Sentiva ancora l’alito ubriaco di Bruce, il freddo del metallo sulla schiena, la consistenza vischiosa dello sperma lungo l’inguine, il disgusto e l’urlo rimasto in gola.
A settant’anni, dopo cinquanta di silenzio, Grace era tornata a quel lampione.
2
La suite dell’hotel a cinque stelle si affacciava su Central Park.
Quella vista le donava serenità: c’erano i bambini, le famiglie che facevano picnic, i venditori di hot dog, i giocatori di baseball, il lago e soprattutto il verde, quella macchia di colore rettangolare che squarciava Manhattan come uno strappo in mezzo ai grattacieli.
Dalla valigia estrasse la cartellina di pelle a sof etto in cui teneva parte del suo diario e ritagli di vecchi giornali. Sfilò una pagina piegata in quattro del “New York Times” del giugno 1967. L’inchiostro era sbiadito, ma il titolo della colonna in decima pagina si leggeva ancora nitido: Rape in Columbia University. Nel testo comparivano le sue iniziali, G.S., e un solo nome: José Serrano. In calce una foto della festa di fine anno e poche righe di cronaca:
“Ignote le cause della violenza, ignoto pure il colpevole”.
Grace si sedette al tavolino della suite, prese un foglio di carta intestata dell’albergo e scrisse, con grafia tremante ma chiara:
“Dopo molti anni sono tornata e mi farebbe piacere incontrarla. Cari saluti”.
Sulla busta, in stampatello: José Serrano, 521 East, 125th Street, New York.
Poi lasciò la camera, uscì dall’hotel e raggiunse l’ufficio postale in Columbus Avenue. Comprò il francobollo e, nell’imbucare la lettera, ebbe la percezione fisica di innescare una svolta. Come quando si carica la pistola nell’atto prima di sparare e l’energia potenziale ferma nel grilletto dona una sensazione di onnipotenza.
Con questo sentimento indefinibile, Grace si incamminò verso il Lincoln Center, che accoglieva molti turisti e tanti ricordi. La fontana spruzzava schizzi d’acqua rotondi regalando un sottofondo sonoro che, a occhi chiusi, ricordava i ruscelli del Maine.
I personaggi di Chagall nella vetrata della Metropolitan Opera sembravano guardarla: Grace si sentiva osservata. Loro erano immodificati come ogni opera d’arte e, chissà per quale motivo, Grace fantasticò che fossero depositari del suo segreto.
Nonostante il bastone, camminò molto riconquistando spazi, perdonando luoghi che non avevano colpe, affrontando lo smog e il vento, osservando i grattacieli trasparenti e grigi, i mendicanti e i senzatetto, amando per strada – come una donna che si concede – la città cui ancora, dopo moltissimi anni, sentiva di appartenere.
Il tramonto la colse a Times Square quando le luci iniziavano a impadronirsi della città e i riflessi a rincorrere il cielo, senza arrivarci. La stanchezza, la concentrazione di persone e i bagliori dei neon lampeggianti le trasmisero però una sensazione di malessere. Entrò nel teatro più vicino, comprò il biglietto senza nemmeno guardare lo spettacolo in programma e si sedette in poltrona, esausta. All’inizio seguì attentamente la trama, rise alle battute assieme al pubblico, poi a poco a poco si lasciò avvolgere dalla musica, chiuse gli occhi e sognò la spiaggia di Long Island, la gita domenicale negli anni del college, il sole, l’orizzonte, Karen che la prendeva in giro, Bruce che flirtava con Tracy ma che, di nascosto, si girava lanciandole un bacio, la riva, l’acqua fredda e poi l’onda che le aveva bagnato il costume.
Si svegliò al suono degli applausi, quando le luci erano già accese e lo spettacolo era terminato. Lasciò il teatro e uscì nel caleidoscopio vivente di Times Square, dove i colori sfacciati facevano di quella città insonne un carnevale ubriaco.
(…)