Altiero Terranera

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Suono il campanello di un palazzo come tanti altri nel centro di Roma. Mi risponde un uomo dall’accento straniero: “Prenda la scala sulla destra, quella con il corrimano in ferro battuto, terzo piano.

Suono il campanello di un palazzo come tanti altri nel centro di Roma. Mi risponde un uomo dall’accento straniero: “Prenda la scala sulla destra, quella con il corrimano in ferro battuto, terzo piano. Se si perde torni indietro che vengo io a prenderla”.

Nell’androne mi trovo davanti a un labirinto di porte, corridoi e scale, alcune che si infilano in veri e propri cunicoli. Senza indicazioni ne avrei presa una qualsiasi, iniziando uno di quei viaggi in cui il ritorno perde importanza.
Altiero Terranera mi accoglie in un soggiorno semibuio. Si scusa, i suoi occhi non sopportano più la luce. Chiede al cameriere filippino dell’acqua, ha deciso anche per me. Alle pareti le librerie faticano a contenere il suo lavoro scientifico: sessantacinque anni di pubblicazioni, festeggiate quest’anno dall’università di Bologna con una cerimonia dove il professore non c’era. “Mi sto spegnendo – mi dice – come una formica in un barattolo”. Accenna un sorriso doloroso:

“Quando ero un bambino ero molto solo. Chiesi a mia madre un cane o un gatto, ma lei disse che per il cane le mancava il tempo e un gatto di sicuro le avrebbe rovinato i divani. Mi fece una promessa: se i miei voti fossero stati i migliori della scuola avrebbe potuto regalarmi una formica”.

E ci riuscì.
“Per più di un anno non uscii mai di casa. Ero in prima elementare e già conoscevo a memoria il sussidiario, non solo il mio, ma anche quelli delle altre classi. Alla fine della seconda feci l’esame di quinta”.

Un risultato eccezionale.
“Anche il premio fu eccezionale: mia madre finalmente mi regalò una formica che misi subito in un barattolo di vetro. Passavo ore e ore ad osservarla. Le diedi un nome: Mina. I primi giorni, quando le gettavo un pezzetto di pane, si animava. In poche ore era capace di ricavarne due o tre briciole, spezzandolo con le sue piccole mascelle. Ma a poco a poco diventò apatica, non si mosse più. Dopo dieci giorni, la trovai rannicchiata su sé stessa, senza vita”.

Un momento buio per lei.
“Per un lungo periodo faticai a mangiare. Se mia madre mi preparava un panino al prosciutto, le briciole sparse sul tavolo mi ricordavano Mina. Scoppiavo a piangere, ero inconsolabile”.

La salvò lo studio.
“Volevo capire perché Mina era morta. Andai in biblioteca e ricopiai parola per parola un libro di cinquecento pagine dedicato alle formiche dei paesi mediterranei”.

E qui capì il suo errore.
“Sì, non avrei potuto allevare una sola formica: le formiche vivevano in colonie. Un esemplare unico, per quanto mi fossi preso cura di lei, sarebbe morto in breve tempo, come Mina. A dieci anni anni mi trovai a pensare che la parte, qui la singola formica, assume significato solo all’interno del tutto”.

Un primo abbozzo di una delle sue teorie fondamentali.
“Avevo bisogno di provare sul campo le mie ipotesi. Andai dal parroco e gli dissi che avrei voluto partecipare alle funzioni come chierichetto. In realtà, quello che mi interessava davvero erano le processioni, tutte quante, da quelle dei funerali a quelle del santo patrono. Ogni volta ero in prima fila a far dondolare l’urna dell’incenso”.

A modo suo, spargeva feromoni.
“Come fanno le formiche esploratrici quando aprono la strada. Le altre seguono, come i fedeli seguivano me. Sono riuscito ad individuare anche dei modelli di comportamento: tra i fedeli correva un brusio cacofonico, ritmi diversi, lontani dall’armonia. Facevano lo stesso le formiche? Purtroppo all’epoca non avevo ancora i mezzi e la preparazione per verificarlo”.

Tentò comunque un grande esperimento.
“Fu durante la Pasqua del 1939, avevo undici anni. In chiesa stavamo preparando la rappresentazione sacra della Via Crucis. Mi procurai delle lastre di piombo e le fissai alla base della croce che usavamo per la processione, ricoprii poi il tutto con un panno consumato legato con delle corde. Feci lo stesso in ogni estremità, per bilanciare il carico”.

Cosa voleva dimostrare?
“Le formiche riescono a sollevare tre volte il loro peso. Il signor Cozzolino, il macellaio che interpretava Cristo, non ce la fece. Alla terza stazione della Via Crucis cadde e non si rialzò. Si ruppe un femore e tre costole. Conclusi che gli insetti possiedono una dignità diversa, superiore”.

Nel suo saggio del 1962, “Tutte in fila”, quello che l’ha fatta conoscere anche a un pubblico di non addetti ai lavori, ha parlato di come, ogni volta,  le formiche riescano a iniziare da capo, qualunque cosa sia accaduta al loro formicaio.
“Un grande insegnamento, la loro forza intrinseca. Le formiche sono state un esempio, per me, fin da quando al mare costruivo elaborati castelli di sabbia, con torri merlate e ponti levatoi. Quando ne avevo finito uno  e gli altri bambini se ne impadronivano per distruggerlo, su quelle stesse rovine io subito ricominciavo a costruirne un altro. Mi sentivo felice. Era quello che cercavo, il momento in cui non c’era più nulla e io potevo avere un nuovo inizio”.

Lei è stato vittima di un grande esposizione mediatica per l’incidente avvenuto due anni fa
“Più che incidente la chiamerei una provocazione. L’intera mia vita, il mio percorso di studi, ha rischiato di venir distrutto. Parlavano di me tutti i giornali e i talk show. Mi riferirono anche delle pagine dei social che rivendicavano i diritti inalienabili delle cicale: lo sconvolgimento della morale comune”.

Vuole parlarne?
“Rodolfo Grassi Bertoni era venuto il giorno prima a casa mia. Non lo vedevo da quando mi aveva portato via mia moglie, nel giorno del nostro matrimonio”.

Una donna dalla carnagione scura, con un punto vita incredibilmente sottile e una testa importante.
“Il mio canone di bellezza assoluta”.

Ma non era ancora sua moglie.
“Quando una donna sale sull’altare, anche se il celebrante non ha ancora unito i due sposi, è già diventata una moglie”.

E lui era il testimone
“Testimone di lei”.

So che è dura ricordare
“Avevo sbagliato a frequentarlo, fin dall’inizio. Era sempre stato un superficiale. Fin dai primi anni dell’università lo preparavo a tutti gli esami, qualche volta mi presentai persino al posto suo. Gli scrissi anche la tesi di laurea. In cambio avevo libero accesso al suo ambiente, alla sua casa e ai suoi amici. Non ne approfittavo molto, avevo già la mia cattedra. Ma quando ero con lui non potevo tirare fuori il portafoglio che Rodolfo aveva già pagato per tutti”.

Era anche il front man di una band di un certo successo
“E tentò di coinvolgermi, mi diceva che tutto il mio affannarmi sui libri non serviva a niente. Meglio cantare”.

E poi dal matrimonio, sessant’anni fa, non ha avuto più sue notizie.
“Sapevo che un giorno si sarebbe ripresentato. Mi ha raccontato il resto della sua vita, quella che non conoscevo. Non c’erano più le case, i conti in Svizzera, le partecipazioni azionarie. E non c’era più mia moglie: l’aveva lasciata sola con tre figli da qualche parte nello Schleswig-Holstein, negli anni settanta. A fare l’operaia, lei che era stata una regina”.

L’amico di un tempo chiedeva aiuto.
“Sì, e gli ho detto che era troppo tardi”.

L’hanno trovato il giorno dopo di fronte al portone di casa sua.
“Il freddo gli aveva congelato sul viso un sorriso beffardo. Nelle sue mani trovarono una lettera che mi accusava: non avevo voluto dividere con lui quello che avevo accumulato. Si è divertito alle mie spalle, fino all’ultimo”.

Un’esperienza che l’ha portata all’ultima fase del suo pensiero.
“Quando siamo giovani vediamo a distanza l’orizzonte ma siamo sicuri che non è la fine, che c’è sempre qualcosa al di là, nuovi substrati terrosi da esplorare, scorte di cibo che ci assicureranno la vita nei lunghi inverni. Ma quando il fisico si indebolisce, e ci dobbiamo fare da parte per non essere travolti dall’operosità di quelli che sono nati dopo di noi, non ci resta che credere”.

Immaginazione o fede?
“Fede nel mio karma. Nel mio cammino verso la perfezione un giorno vedrò di nuovo la luce attraverso gli occhi di una formica”.

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