Ho trovato una coppia di quadretti a una bancarella dell’usato, già incorniciati e tutto. Su uno c’è una maestra di danza con una bacchetta in mano, accanto a una bambina alla sbarra, sull’altro un pianista in giacca e panciotto e con una bombetta sulla testa. Mi sono sembrati appropriati; li ho comprati.
Prima di appenderli, li ho ripuliti un po’: erano pieni di polvere e avevano un pezzetto di scotch incollato sul retro della tela, a coprire su entrambi lo stesso piccolo foro rotondo. Era inutile, l’ho staccato. Li ho appesi in sala, uno vicino all’altro, sopra la sbarra. In mezzo, la foto di me che interpreto la Carmen, quindici anni fa.
*
Potrei essermi sbagliata, ma credo che la maestra del quadro oggi mi abbia guardata. Stavo spiegando un port de bras alle bambine, quando mi sono sentita come se qualcuno mi stesse osservando: ho alzato lo sguardo e i suoi occhi erano fissi su di me, intenti. Non aveva l’aria proprio benevola, e teneva come al solito la bacchetta stretta nella mano: sembrava come se volesse picchiarmi. A un certo punto ho avuto persino l’impressione che sbattesse le palpebre, ma questo forse l’ho solo immaginato.
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Ero rimasta da sola a scuola, dopo l’ultima lezione. Sfogliavo cataloghi di costumi seduta sul pavimento, quando l’ho sentita:
– Quella Elise è davvero un manico di scopa.
Mi sono voltata di scatto, spaventata. La maestra era lì, in piedi nella cornice del quadro: mi guardava.
– E’ buona abitudine rispondere, se qualcuno ti parla.
Ho aperto la bocca, ma non sono riuscita a trovare niente da dire.
– Hai capito cosa ti ho detto?
– Io… Sì. Elise…
– Quella bambina ha un problema, te ne rendi conto?
– Veramente…
– Dovresti dire alla mamma che non è adatta per la danza, è inutile anche provarci.
– Ma io non…
– Ma tu che? Vai a casa, è tardi, poi la mattina sei stanca.
Insomma, la maestra mi parla. All’inizio è stato un po’ strano parlare con un quadro: ho cercato di capire se ci fosse un congegno, un qualcosa che la faceva muovere e parlare, ma dall’esterno sembra una tela come un’altra. E però si muove e mi parla, e chiama per nome me e tutte le mie allieve: non c’è dubbio che sia una maestra vera e propria, e anche una brava. A volte mi sembra un po’ dura nelle sue critiche, come con la povera Elise, ma l’opinione di un esterno è sempre utile per un’insegnante, soprattutto una giovane come me. Ho da imparare da lei.
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– Ti sei accorta che conoscono la musica a memoria?
Mi sono voltata a guardarla, senza capire; lei ha indicato il lettore cd con la bacchetta, spazientita.
– La musica del grammofono, lì… E’ sempre la stessa.
– Del… Grammofono? – mi è venuto un po’ da ridere, ma ho cercato di trattenermi: la maestra è un po’ suscettibile.
– Sì, mi capisci quando parlo? Dovrebbero abituarsi alle variazioni, a contare con la loro testa. Devi assolutamente chiamare un pianista.
Non ci avevo mai pensato, ma potrebbe anche avere ragione. Le ho promesso che chiamerò un mio vecchio amico pianista; magari ogni tanto troverà il tempo per venire. Intanto la maestra mi ha presentato il suo, il pianista in panciotto dell’altro quadretto: si è alzato dal pianoforte e si è tolto la bombetta in segno di saluto.
Mi è sembrato un signore affabile, ma spero non inizi a parlare anche lui: la maestra mi occupa già abbastanza tempo.
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Edgar, il mio amico pianista, è venuto a suonare a una lezione. Non lo vedevo da diversi anni, dai tempi dell’università: in effetti, non lo ricordavo così affascinante. Ha conquistato anche le mie allieve: all’inizio la musica nuova, con un tempo così diverso da quello a cui sono abituate, le ha confuse, ma poi hanno cominciato a sentirsi delle ballerine vere, e si sono divertite. Ora continuano a chiedermi quando tornerà.
– Te l’avevo detto – mi ha detto la maestra quando siamo rimaste sole. – Dovresti ascoltarmi di più.
– Forse sì, ha ragione.
E’ rimasta per un attimo in silenzio, a guardarmi, poi ha aggiunto:
– Tu naturalmente non te ne sei accorta.
– Di cosa, maestra?
– Sei proprio cieca. Quel ragazzo ha un interesse per te.
Mi sono voltata a guardarla, ridendo: – Ma cosa dice?
– Vedrai… Comunque mi pare un buon partito, dovresti farci un pensiero.
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Edgar è tornato spesso a suonare. L’ultima, è rimasto a farmi compagnia dopo la lezione. Siamo rimasti a chiacchierare a lungo, fino a quando non sono andati tutti via: mi ha raccontato degli anni in cui non ci siamo visti, della sua carriera, meno brillante di quanto sperasse. Mentre gli parlavo di me, della danza, della scuola, mi ha guardata tutto il tempo, sorridendomi appena.
Quando ho alzato lo sguardo verso l’orologio, era quasi mezzanotte.
– Forse è ora di andare a casa – gli ho detto, alzandomi. In quel momento lui mi ha preso la mano, si è avvicinato e mi ha baciata.
Dopo, la maestra mi scrutava con un sorriso soddisfatto: non capisco perché, ma mi è sembrata contenta. Che si stia affezionando a me?
– Certo che però sei stata troppo leggera. Non sta bene che una signorina si conceda così… Davanti a una bambina poi!
– Ma non c’era nessuno.
Lei ha indicato con la testa la bimba nel quadro accanto a lei, con la mano sulla sbarra, che contava a bassa voce, con le guance rosse: – Uno, due, tre, quattro.
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Edgar e io ci frequentiamo. Ci troviamo bene insieme: lui suona alle mie lezioni un paio di volte alla settimana, poi andiamo a cena fuori o restiamo a scuola a chiacchierare. Se diventa tardi, però, gli chiedo di abbassare la voce: a una certa ora la bambina dorme, mi ha detto la maestra, e non vorrei che si svegliasse.
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– La gamba a terra dritta, durante il grand battement!
La maestra ha parlato durante una lezione: nessuna delle bambine pare averci fatto caso, ma io l’ho sentita distintamente. Mi sono voltata e l’ho fulminata con lo sguardo, ma lei mi ha risposto con un sorriso cortese, come se non fosse successo nulla.
Quando gliene ho chiesto conto, mi ha fatto solo notare che dopo avevano le gambe più dritte: – L’importante è il risultato, non credi?
Ero talmente arrabbiata che ho spento la luce e me ne sono andata.
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Ha preso l’abitudine di fare correzioni al posto mio: lo fa mentre sono distratta, o quando sto correggendo un’allieva e non sono attenta alle altre. Le ho chiesto più volte di smetterla, ma mi risponde sempre nella stessa maniera:
– Che male c’è se do qualche suggerimento ogni tanto? Quattro occhi sono meglio di due.
Misteriosamente, le bambine sembrano non distinguere la sua voce dalla mia, perciò non riesco a trovare il modo per ribattere. Tuttavia la cosa mi innervosisce: incrocio il suo sguardo severo durante le lezioni e mi sento come se fossi io, non le bambine, a essere sotto controllate.
*
Le lezioni sono diventate un tormento, non vorrei quasi più andare a scuola.
Quando parlo, la maestra alza la voce per farsi sentire più di me; mentre scelgo la musica, dà indicazioni per un esercizio diverso da quello che ho scelto io. Se spiego, si intromette per correggermi.
Il peggio è che le bambine non sembrano accorgersi di nulla, ma sembrano più portate a seguire le sue indicazioni che le mie.
Come insegnante, mi sento un fallimento.
L’ultima volta, c’era anche Edgar. Dopo la lezione non ha più detto una parola: ha aspettato che spegnessi le luci e chiudessi la porta. Ha parlato solo dopo, mentre mi accompagnava a casa.
– Oggi è successa una cosa.
L’ho guardato, trattenendo il respiro. Lui ha scosso la testa e mi ha sorriso:
– No, lascia stare…
– No… Dimmi.
– Ecco, c’è stato un momento in cui stavo suonando… Credo fosse l’adage, e mi è sembrato che la musica che si sentiva, che le bambine seguivano, non fosse più la mia. Come se non venisse dal mio pianoforte, ma da un’altra parte.
Si è fermato, mi ha guardata e si è passato una mano tra i capelli.
– Sembro un pazzo… Lascia perdere.
Non ho saputo trovare parole per rispondergli: l’ho abbracciato e gli ho accarezzato la testa come se niente fosse, ma mentre lo facevo mi tremavano le mani.
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– Elise, devo proprio dirtelo.
Mi giro di scatto, ma quando capisco cosa sta succedendo è già tardi:
– Non sei fatta per la danza. Sei sgraziata, quando ti guardo non riesco a distinguere un esercizio da un altro.
Vedo gli occhi di Elise, fissi nei miei, riempirsi di lacrime: ho la bocca chiusa, eppure lei pensa che sia io a parlarle.
– Ci sono tante altre attività per quelle come te, ma sinceramente ti do un consiglio, lascia perdere la danza.
In sala cade il silenzio. Per un attimo Elise resta ferma a guardarmi, con le bocca socchiusa e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Poi comincia a singhiozzare e corre fuori dalla sala, dove già le mamme chiacchierano aspettando la fine della lezione.
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– Ma come si è permessa?
– Qualcuno doveva pur dirglielo.
– Nessuno doveva dire niente! Deve smetterla di intromettersi nelle mie lezioni!
La maestra è rimasta a guardarmi indifferente, a braccia conserte, mentre camminavo furiosa per la sala.
– E’ incredibile! Se non fosse per me sareste ancora lì su quel banchetto a prendere polvere! Dovreste ringraziarmi, altro che rovinarmi la carriera!
A quel punto ha sorriso: si è voltata a guardare la bambina, che rideva tenendosi una mano sulla bocca, poi è tornata a guardarmi..
– Carriera? Ma quale carriera? Se non intervengo io quelle bambine sono abbandonate a se stesse… Come per Elise, lo stesso vale per te: non sei in grado di insegnare, non sei portata!
Apro la bocca per risponderle, ma prima che ne abbia il tempo aggiunge:
– Forse dovresti dedicarti solo al tuo pianista, visto che ti piace tanto. Magari stare a casa, fare un figlio o due…
Non ho più potuto sopportarlo: le ho lanciato una scarpa da punta e il quadretto è caduto a terra.
In quel momento, ho sentito la voce del suo pianista per la prima volta: con voce aspra, profonda, mi ha rimproverata di essere infantile, di non saper affrontare la realtà.
– E anche il tuo fidanzato, alla fine… Non è un caso se nessuno lo chiama a suonare. Solo una come te potrebbe trovarlo bravo!
Gli ho lanciato l’altra scarpa e anche lui si è schiantato sul pavimento.
Finalmente, in sala c’era silenzio. Mi sono avvicinata: il vetro del quadro della maestra era in frantumi sul parquet; quello del pianista aveva una lunga crepa al centro, che gli tagliava la faccia in due, ma sembrava resistere. Li ho raccolti e li ho lanciati in fondo al ripostiglio, poi ho preso scopa e paletta e ho spazzato via i pezzi di vetro dal pavimento.
*
Ho passato il fine settimana in casa da sola, sollevata ma senza forze. Poi il lunedì mi sono alzata e sono andata ad aprire la scuola, pronta a ricominciare.
Sulla porta, già aperta, ho trovato il mio pianista con le braccia incrociate, che mi aspettava.
– Potevi dirmelo che non ti piaceva come suono.
– Ma che dici… – poi ho sentito una musica nuova, mai sentita, provenire dall’interno. L’ho superato e sono entrata, quasi senza respirare. Per un attimo sono rimasta ferma, in piedi, davanti alla porta socchiusa della sala. Poi ho preso coraggio e mi sono avvicinata a guardare: la maestra era in piedi, alta, antica, con la sua bacchetta in mano, e faceva lezione alle mie allieve, più belle e brave che mai. Tra loro, grande come le altre, c’era la sua bambina. Al pianoforte, il suo pianista, con tanto di panciotto e bombetta. Quando ha sollevato la testa dal pianoforte, alla fine di una diagonale, ho visto che aveva un lungo segno rosso al centro del viso, che gli tagliava la faccia in due. Per un attimo, mi è sembrato che mi abbia vista, attraverso la fessura della porta, e che mi abbia quasi sorriso.
Mi sono allontanata dalla porta piano, per non farmi sentire.
– Ma chi sono? – mi ha chiesto il mio pianista, ma gli ho fatto segno di tacere e di seguirmi.
Ci siamo infilati nel ripostiglio stipato di roba.
Oltre le scope e i secchi per pulire, pile di tappetini e i tutù dei saggi appesi al soffitto e impilati per terra, su una panca arrugginita accostata alla parete sul fondo, ho trovato la me di quindici anni fa, che danzava la Carmen e mi sorrideva dalla foto. Subito sotto, i due quadretti con i vetri infranti: lo sfondo, la sbarra, il pianoforte erano lì, ma loro non c’erano più.
Li ho tenuti stretti tra le mani per un attimo, poi li ho lasciati cadere a terra. Mi girava la testa.
In quel momento, ho visto un’ombra muoversi sul muro.
Edgar e io ci siamo voltati insieme.
Sulla porta, alta ed elegante nel suo abito nero, c’era la maestra; dietro di lei, il suo pianista, che si è tolto la bombetta in segno di saluto e ci ha sorriso, in un modo che gli ha contratto il viso in una maschera cattiva.
Passando senza difficoltà attraverso la roba accumulata nel ripostiglio, la maestra si è avvicinata a noi, un passo alla volta.
– Ma cosa significa? Perché?
Ho provato a parlarle, a farle domande, ma la mia voce era flebile, sempre di più, e avevo l’impressione, mentre la guardavo, di diventare più piccola. La guardavo sempre più dal basso, come quando da bambina guardavo i grandi.
Alla fine, ero così piccola che una pila di tappetini mi superava e mi ostruiva la vista.
Ho fatto un passo indietro e sono scivolata in un mare di schegge di vetro: ero seduta, piccola com’ero, dentro la cornice del quadro.
*
– Certo che la bacchetta è uno strumento davvero antiquato – dico.
– Ma veramente vuoi usare un grammofono? – chiede Edgar.
La maestra solleva la bacchetta come per minacciarci, ma non si volta verso di noi.
Guardo la figura che ha sostituito la mia Carmen sul muro sopra la sbarra: la foto sbiadita, in bianco e nero, di una ballerina in una posa da Odette ma antica, come si poteva ballare il Lago dei Cigni cent’anni fa.
– Certo che è un po’ vecchia questa foto – osservo.
– Proprio di un’altra epoca – aggiunge Edgar: non possiamo più vederci adesso, ma è così bello sentire la sua voce provenire dall’altra cornice.
– Non fa proprio una bella impressione, un’insegnante così vecchia.
La maestra posa con calma la bacchetta accanto al grammofono. Apre un cassetto, afferra qualcosa, lo richiude.
Si volta verso di noi. Sorride: – Ora mi avete stancato.
Si avvicina un passo alla volta, strappando dei pezzetti di scotch con i denti e tenendoli stretti con due dita. Si ferma davanti al quadro del mio pianista, lo volta, incolla il pezzo di scotch sul retro della tela e lo rimette al suo posto. Lui tace, mentre la maestra allunga una mano verso di me.
Mi solleva, mi volta con un movimento brusco e io scivolo e sbatto contro la cornice:
– Beh, ma stai attenta!
Poi incolla il pezzo di scotch anche sulla mia tela e all’improvviso tutto è in silenzio. Vedo la maestra muovere le labbra mentre si allontana, ma non capisco cosa dice. Provo a parlare, ma non riesco più a sentire la mia voce. Provo a urlare, a battere sul vetro, a saltare: mi sembra di impazzire, a stare da sola in questo vuoto. Mi dibatto, strepito, cerco di farmi notare.
Poi, un po’ alla volta, inizio ad abituarmi. Forse questo mondo calmo, ovattato, non è poi così male.
Mi sento tranquilla, in pace come mai prima. Non mi muoverei quasi più.
Appoggio la mano sulla sbarra e resto ferma così, immersa nel silenzio.