Non riceviamo breve la vita, ma la rendiamo

di

Data

l destino, pensò Giulia, non l’avrebbe sorpresa come faceva con tanti, a marcire e sbadigliare. L’avrebbe trovata viva. Viva come si sentiva in quel momento, davanti all’ingresso del parco, investita dalla luce piena e dorata del sole che si avviava al tramonto. Libera.

l destino, pensò Giulia, non l’avrebbe sorpresa come faceva con tanti, a marcire e sbadigliare. L’avrebbe trovata viva. Viva come si sentiva in quel momento, davanti all’ingresso del parco, investita dalla luce piena e dorata del sole che si avviava al tramonto. Libera. Si sedette sul muretto e lasciò cadere a terra lo zaino pesante, carico di libri. All’uscita di scuola era andata da Federica, a studiare per l’interrogazione di latino programmata per il giorno dopo. A casa non l’aspettavano prima di sera. Aveva detto ai suoi che la madre dell’amica l’avrebbe riaccompagnata dopo cena. E invece s’era sbrigata in fretta, aveva tradotto Seneca senza quasi aprire il dizionario, aveva raccolto le sue cose e s’era incamminata a passo svelto verso la Caffarella, lasciando Federica al ripasso delle declinazioni. Perché su una cosa il filosofo aveva ragione: la vita è breve, e non c’è tempo da perdere. E a lei, di vita, sembrava di averne persa fin troppa, intrappolata in un tunnel senza ossigeno, ogni giorno uguale all’altro, un labirinto di noia senza via d’uscita.
Gli altri arrivarono all’appuntamento poco dopo a bordo della Renault 5 GT turbo del Pantera, la musica house che martellava a tutto volume. Francesca scese per prima. Indossava jeans aderenti, un top viola che le lasciava scoperto l’addome teso e abbronzato, e una giacca di pelle nera. Si accese una Chestelfield e gettò a terra il pacchetto vuoto dopo averlo accartocciato. Il Pantera uscì dall’auto, aprì il portabagagli e ne tirò fuori una sacca da palestra, si avvicinò a Francesca e le sfilò l’accendino dalla tasca posteriore dei jeans per accendersi una sigaretta. Era tarchiato e robusto, con le pupille sempre dilatate e gli occhi cerchiati di rosso, i capelli lunghi e unti, color lucido da scarpe.
Quando le si avvicinarono a Giulia sembrò di vederli avanzare al ralenti, come in un film di Tarantino. Sentì di colpo la distanza che li separava da loro, così sicuri, decisi, impetuosi. Il giorno prima, all’uscita di scuola, Francesca aveva dato appuntamento al Pantera per il pomeriggio successivo, e trovando Giulia accanto a sé l’aveva invitata a unirsi a loro, con la massima naturalezza, benché quell’evento fosse senza precedenti. Giulia aveva accettato senza esitare, come se per tutta la vita non avesse aspettato altro. E dal quel momento non aveva avuto altro pensiero, aveva vissuto le ore successive nell’attesa di quell’appuntamento.
Giulia sentì il battito del cuore accelerare, scese dal muretto, prese lo zaino e restò impalata cercando qualcosa di brillante da dire, senza che le venisse in mente nulla.
“Te lo sei portata il dizionario, sì?” chiese Francesca con voce piatta, lanciando un’occhiata allo zaino gonfio da scoppiare.
Giulia si grattò la nuca e tentò un sorriso che somigliò piuttosto a una smorfia.
“Brava, brava, non si sa mai” continuò Francesca, seria.
“Mbe’? Che cazzo stamo a aspettà?” chiese il Pantera.
Francesca lo fulminò con uno sguardo sprezzante. L’ultima a unirsi al gruppo fu Alina, i grandi occhi strabici strabuzzati dietro le lenti spesse come fondi di bottiglia, gli occhi di un animale accecato dai fari di un’auto, di notte, in mezzo alla strada.
“Adesso possiamo andare”, disse Francesca. Si incamminò a passo deciso e gli altri la seguirono.
Imboccarono il sentiero che scende vicino al Casale Tarani, lastricato di cocci e rifiuti accumulati negli anni, che ormai facevano tutt’uno con la terra battuta. Il sole scaldava appena e faceva brillare debolmente il verde dei prati, punteggiati di boschetti e ruderi. Man mano che si inoltravano nel parco, i palazzoni dell’Appio Latino sparivano alle loro spalle, mentre davanti a loro si aprivano gli avvallamenti e le radure, coi boschetti di aceri, lecci, e roverelle che si stendevano fino al fondovalle. Il parco era deserto, e nel silenzio della sera si sentivano solo il crepitio degli alberi agitati dal vento, il rumore attutito dei passi sul terreno tufaceo e il richiamo acuto di qualche fagiano. Il sentiero svoltò improvvisamente a sinistra e proseguì, tra filari di gelsi e noci, fino a un anfratto più isolato. Qui, tra canne, salici e giunchi, sulle sponde di uno stagno, si ergeva il piccolo ninfeo.
“Qui va bene” disse Francesca.
Il gruppetto si fermò. Il Pantera posò a terra la sacca. I tre si sedettero in circolo sull’erba e Giulia li imitò. Francesca tirò fuori dallo zainetto le cartine e il fumo, preparò un filtro con l’ala esterna del pacchetto di sigarette e cominciò a rullare una canna. Le dita lunghe e sottili, con le unghie laccate rosso sangue, si muovevano agili, con movimenti precisi e sensuali che esercitavano un potere ipnotico su chi guardava. Giulia, che non aveva mai fumato hashish in vita sua, osservava rapita quella cerimonia, e le tornò in mente la fascinazione con cui da piccola, quando durante le vacanze aveva fatto la chierichetta nella chiesa del paese, aveva osservato da vicino il rito del vino sull’altare. S’era talmente emozionata, allora, che al momento di versare l’acqua nel calice aveva fatto cadere il tappo di cristallo dell’ampolla nel sangue di Cristo e per la vergogna sarebbe scappata a nascondersi nei campi. Le venne da pensare che Francesca sarebbe stata perfetta sull’altare, così bella e radiosa, con quelle mani affusolate, che a Dio sarebbero piaciute certamente di più di quelle mani da vecchio di Don Luigi, che all’età sua continuava ancora a servire messa.
Francesca era una creatura superiore. Tra lei e le altre c’era la differenza che passa tra una supernova e un grappolo di miseri pianeti, formati da materia ordinaria, che brillano di luce riflessa. Lei splendeva come un globo di plasma vivo, era energia pura. Quando scuoteva i suoi capelli biondo oro, che le arrivavano fino ai reni, quando se li scostava dalla fronte con quel gesto sicuro della mano, sapevi che stava richiamando a sé l’attenzione dell’universo. E soprattutto sapevi che l’universo avrebbe risposto a quel richiamo. Lei poteva conquistare chiunque senza aver bisogno di impegnarsi. Anzi, proprio perché si mostrava così indifferente all’approvazione altrui sviluppava un magnetismo che attirava le persone. La sua fama aveva rapidamente travalicato i confini della prima F per espandersi all’intero liceo.
Essendo stata bocciata due volte al ginnasio, aveva due anni in più delle sue compagne. I suoi erano separati e non c’erano quasi mai, e queste due condizioni le consentivano di godere di una libertà che altre potevano solo sognare. Frequentava ragazzi più grandi, che la venivano a prendere all’uscita di scuola con macchine sportive. Andava a ballare in discoteca, non il pomeriggio, come le ragazzine, ma di sera. Si narrava persino di un leggendario rave nel mezzo delle campagne romagnole, dove pare si fosse calata di brutto, per essere riportata a casa due giorni dopo, ancora in coma. Si diceva, poi, che Francesca fosse stata a letto con Vasco alla fine di un concerto. Lei non aveva mai confermato né smentito quella storia, ma quando in macchina qualcuno metteva Occhi blu prendeva quell’aria turbata e sognante che ti veniva da pensare che Vasco l’avesse scritta proprio per lei, quella canzone, per i suoi begli occhi del colore del mare profondo. Quella leggenda, alimentata dalla sua ambiguità, la investiva di un potere soprannaturale.
La canna cominciò a girare e, quando Francesca gliela passò, Giulia sentì una vampata di imbarazzo salirle fino alle orecchie. Se la portò alle labbra, tirò come avevano fatto gli altri e cercò di soffiare fuori il fumo più disinvoltamente possibile.
“Ma non hai aspirato!” la riprese Francesca. “Riprova, ma fai come ho fatto io. Devi aspirà bene”, disse tirando di nuovo e sbuffando fuori il fumo dalle narici come un puledro in un’alba gelida.
Giulia aspirò di nuovo, stavolta facendo scendere il fumo nei polmoni e trattenendolo il più possibile.
“Oh, mica te ce devi strozzà”, commentò il Pantera acido.
Quando ebbe buttato fuori il fumo e colto uno sguardo di approvazione da parte di Francesca, Giulia si rilassò e passò la canna a Alina. Alina aspirò e cominciò subito a tossire.
“E passa ‘sta canna, che nun sei capace manco a fumà!”, fece il Pantera strappandogliela di mano.
“Alina, Alina…qua bisogna che impari a sta’ al mondo” disse Francesca scuotendo la testa con ostentato rammarico. “Pantera, tocca fa’ qualcosa”
“E certo, te devi da’ na svejata. E se nun te la dai da sola te la dovemo dà noi. Mica pe artro. Pe datte ‘na mano, bella de’ zio”. Pronunciò le ultime parole prendendole il mento tra le dita e scuotendole il viso. Quindi si alzò, si avvicinò alla sacca da palestra, la aprì e ne tirò fuori una corda.
A quella storia Giulia non c’aveva mai creduto davvero, ma glien’era rimasta come un’eco in testa, un’inquietudine sottile che la riprendeva ogni volta che in classe incrociava lo sguardo di Alina, vuoto e stolido come quello di un pesce rosso in una boccia.
Certe voci circolavano nei bagni della palestra, in giardino a ricreazione, ma quando Giulia arrivava tutti cambiavano argomento, e di quei discorsi scabrosi rimaneva solo una vaga eco, come l’odore di cordite che resta ad aleggiare nell’aria dopo uno sparo, quando l’arma è già stata fatta sparire.
Alina aveva diciassette anni e il cervello di una bambina di otto. Abitava vicino alla stazione Tuscolana, in una casetta abusiva dentro un fazzoletto di terra cinto da un muro tutto crepato e coperto dai rovi, con una lamiera al posto del cancello. Giulia ce l’aveva vista entrare per caso un giorno che si trovava a passare da quelle parti, e sulle prime non era riuscita a credere che qualcuno di sua conoscenza potesse vivere davvero in un posto così. Di Alina si sapeva poco. Suo fratello spacciava, mentre di sua madre e suo padre si diceva fossero due pazzi alcolizzati, che la massacravano di botte ogni volta che gli girava.
E Giulia qualche volta, nell’intimità dello spogliatoio, li aveva intravisti quei lividi, grossi come il palmo di una mano e scuri scuri, del colore delle banane troppo mature, che spiccavano sulla pelle scolorita e cianotica di Alina come segni di una necrosi incipiente. Alina non amava spogliarsi davanti alle altre, ma Francesca glielo aveva imposto come regola. E allora te la trovavi piazzata davanti con quelle gambe grosse, il torso largo e le tette cadenti come quelle di una cinquantenne. Cercavi di distogliere lo sguardo, ma un magnetismo oscuro ti riportava sempre a quella pelle chiazzata di rosso, punteggiata di ematomi, a quelle gambe rasate male, a quel ciuffo di peli ispidi tra le cosce, a quel che di mostruoso e animalesco c’era in lei e la rendeva unica, in un modo ripugnante e perverso.
Una volta, mentre Francesca e le altre erano impegnate a scambiarsi confidenze sul weekend appena trascorso, Alina era riuscita a ripararsi in un angolo più defilato dello spogliatoio e si stava affrettando maldestramente a cambiarsi, avvolta dalla cinta in giù in un asciugamano sudicio. Tutt’a un tratto nella stanza era calato il silenzio. Francesca aveva interrotto bruscamente la conversazione, aveva attraversato lo spogliatoio e, raggiunta Alina, le aveva strappato di dosso l’asciugamano, lasciandola in mutande.
“Alina!” l’aveva rimproverata Francesca. “Non devi nasconderti! Devi lasciare che tutte ammirino il tuo corpo. Non ti devi vergognare. Non lo vedi quanto sei bella?” E così dicendo l’aveva afferrata per i capelli secchi e arruffati e l’aveva trascinata in mezzo alla stanza, davanti allo specchio, costringendola a guardarsi. Quella aveva strabuzzato gli occhi con l’aria di una vacca portata al macello. Aveva guardato lo specchio come fanno i neonati, senza dar segno di riconoscere la propria immagine riflessa.
Francesca con una mano le aveva strizzato un seno. “Guardati. Non ti piaci? Ce l’avessi io un corpo come il tuo…”.
Le altre perlopiù avevano sghignazzato, qualcuna aveva continuato a cambiarsi facendo finta di niente, qualcun’altra era sgattaiolata via disgustata. Giulia era rimasta a guardare l’intera scena senza riuscire a staccare lo sguardo, paralizzata da una gelida eccitazione.
Da quel giorno aveva cominciato a pensare che forse in quelle voci c’era qualcosa di vero. Alina era un vittima predestinata, e la sua passività avrebbe attirato la violenza di ogni predatore naturale.
Francesca intanto aveva afferrato Alina per una spalla e l’aveva guidata vicino a un acero dal fusto lungo e sottile. Quella si era fatta trascinare con la passività di una bambola meccanica, senza opporre resistenza, e aveva lasciato che Francesca la sistemasse con le spalle contro il tronco, come i bambini quando gli adulti li addossano al muro per misurargli l’altezza. Pantera le aveva raggiunte con la corda, l’aveva passata intorno al corpo di Alina, legandola per la vita e per il busto al fusto dell’albero e assicurandosi che anche le braccia fossero bene immobilizzate. Poi aveva estratto dalla sacca uno straccio, una bottiglietta d’acqua e un rotolo di nastro adesivo. Imbevuto lo straccio d’acqua si rivolse a Alina: “Apri la bocca, dai”. E poiché quella esitava l’aveva afferrata per i capelli e schiaffeggiata: “Che fai, la stronza? Apri ‘sta cazzo di bocca!”.
Alina a quel punto aveva obbedito e Pantera le aveva ficcato lo straccio in bocca, aveva strappato un pezzo di nastro adesivo e glielo aveva attaccato in faccia per assicurarsi che lo straccio restasse all’interno della bocca.
A Giulia ronzavano le orecchie. Era rimasta seduta al suo posto, stordita, a seguire la scena, senza sapere che fare.
Francesca nel frattempo si era avvicinata al gruppo e si era sfilata la cinta. Una bella cinta in pelle nera, coi cuori dorati di metallo. Si era piazzata davanti a Alina e la fissava.
“Tu lo sai perché, vero?” le chiese.
Quella scosse la testa, emettendo un suono soffocato.
“Perché sei squallida, sei sudicia, perché sei una ritardata e fai schifo!” gridò Francesca, e così dicendo la colpì con una cintata sul ventre, con una rabbiosità che Giulia non le aveva mai conosciuto prima. Alina si contorse e mandò un lamento acuto.
“E perché in questo modo – proseguì Francesca in tono più calmo – noi ti purifichiamo, e ti rendiamo una persona migliore, più forte”. Dopo quel primo colpo ne sferrò un secondo, poi un terzo, poi ancora un altro. Colpiva con gesti ampi ed eleganti, con un’energia feroce, quasi volesse strappare i vestiti e la pelle stessa alla sua vittima. I gemiti di Alina erano disperati, gutturali, come quelli di un maiale al macello, stordito dalla scossa elettrica, che senta la punta del coltello affondargli nella gola.
Quando ritenne di aver finito Francesca passò la cinta al Pantera. A quel punto dalla gola di Alina si levava un piagnucolio continuo e sommesso, senza interruzione. La sua testa, che fino a quel momento era stata eretta, e che la ragazza aveva voltato disperatamente da una parte e dall’altra in risposta ad ogni colpo che veniva vibrato contro di lei, ora era reclinata da un lato, come quella, pensò Giulia, del Christus patiens di Cimabue che avevano studiato la settimana prima a storia dell’arte.
Il Pantera ci mise ancora più cattiveria, tanto che a Giulia venne da chiedersi cosa gli avesse fatto di così terribile quella poveretta. Il viso del carnefice era contratto in una smorfia da stupratore, mentre colpiva dall’alto verso in basso, in diagonale, senza risparmiare energie, assicurandosi di investire tutta la superficie del corpo, anche quella che era rimasta illesa dai colpi sferrati fino a quel momento.
“Una superficialità vagabonda e incostante e scontenta di sé” pensò Giulia, senza ricordare da dove le venissero quelle parole.
Fu a quel punto che Francesca la chiamò.
“Vai, tocca a te”, la esortò.
Giulia impallidì. Sentiva lo stomaco in subbuglio e il cuore che le pulsava in gola. Aprì la bocca senza emettere alcun suono.
Francesca la incalzò: “Allora? Che pensi che il lavoro lo dobbiamo fare tutto noi? Hai la tua occasione di renderti utile”.
Giulia sentì tutti gli sguardi fissi su di sé, compreso quello supplice e speranzoso di Alina, che per la prima volta le sembrò appartenere a un essere dotato di un’intelligenza umana.
Sentì la testa pesante e ottusa, come riempita da una colata di piombo fuso. Voleva alzarsi ma le gambe erano inerti, paralizzate. Avrebbe voluto essere altrove, lontana miglia e miglia da quel posto.
Francesca aveva incrociato le braccia e la fissava con le sopracciglia aggrottate. “Non dirmi che non ce la fai? Che c’è? Ti fa pena? Non hai abbastanza fegato? Allora potevi andartene con le amiche tue a lezione di pianoforte o in giro al centro commerciale”.
Giulia trovò la forza di alzarsi, appoggiandosi sulle mani. Con il battito d’ali di mille uccelli che le riempiva la testa, con gli occhi velati, le gambe molli, camminò fino all’albero. Tese la mano a Francesca senza guardarla negli occhi. Quella le passò la cinta. Giulia se ne arrotolò un pezzo intorno alla mano, come aveva visto fare agli altri, fissò i propri occhi in quelli di Alina, le pupille tonde, fisse e dilatate come quelle di un barbagianni, alzò il braccio fin sopra la propria testa. Esitò. Un corteo di immagini attraversò la sua mente: l’ingresso di scuola affollato al mattino; le volute di fumo che salivano dal gruppetto impenetrabile raccolto intorno a Francesca, formato dalle compagne più disinvolte e sicure di sé; per contro, l’aspetto dimesso, incolore, squallido delle sue amiche, con gli adesivi di Snoopy sull’Invicta, i capelli legati in bambinesche code di cavallo, i maglioni sformati; pensò al loro tempo scandito dai saggi di danza, dalle lezioni di solfeggio, dalle uscite a Cinecittà Due, alla scrivania della sua stanza ingombra di libri, al salotto dei suoi, con le foto incorniciate di lei da piccola, occhiali spessi e lentiggini, e quell’aria imbambolata da cocca di mamma. Un odore nauseante e rassicurante di minestrone si sprigionò da quelle ultime immagini. Era tentata di aggrapparvisi come a una ciambella di salvataggio, ma al tempo stesso voleva liberarsene, cancellarle per sempre dalla sua testa, come un’umiliazione cocente.
Giulia vinse l’esitazione e colpì Alina con quanta forza aveva in corpo. E poi colpì ancora e ancora, gemendo così forte da coprire il lamento della vittima. Colpì selvaggiamente, perdendo il controllo dei propri muscoli, tanto che un rivolo di bava le colò sul mento.
Quando si fermò le sembrò di uscire da uno stato di trance e di respirare per la prima volta da ore. Ma l’aria che le riempì le narici era densa di miasmi rivoltanti, come se da quelle parti fosse straripata una fogna. Un’ondata di nausea la assalì. Si appoggiò con una mano al corpo di Alina, si piegò su se stessa e vomitò. Succhi gastrici giallo limone, acidi, corrosivi, collosi, e pezzi della pasta al forno riscaldata che le era toccata a pranzo da Federica, probabilmente gli avanzi della sera prima.
Francesca si avvicinò a Alina, aggirando la chiazza di vomito. Le strappò il nastro adesivo dal viso e con la punta delle dita le sfilò dalla bocca lo straccio fradicio di bava, gettandolo a terra. Poi sciolse i nodi delle corde uno ad uno e la liberò. Alina non gridò, non disse nulla. Restò intontita davanti all’albero, massaggiandosi le braccia e oscillando lievemente, come un albero rinsecchito scosso da un forte vento. Emetteva un piagnucolio sommesso, simile a un neonato che si lamenti nel sonno, agitato da una piccola colica.
“A Pantè, preparane n’altra” ordinò Francesca con un cenno del capo rivolto allo zainetto dove conservava l’occorrente per fumare. E a Alina, passandole una mano tra i capelli: “Questa è in onore tuo, che sei stata brava. Brava. Hai capito, no? ”.
Giulia si era risollevata e si guardava attorno frastornata. Le tempie le pulsavano violentemente, la gola bruciava, i muscoli del collo, irrigiditi, le dolevano come dopo una notte di sonno scomposto. Incrociò lo sguardo di Alina, da cui la luce umana che per un attimo sembrava avervi sfavillato si era già eclissata di nuovo. Ora c’era solo l’indolenza remissiva della bestiola ferita che si lecca le ferite provocate dall’assalto di un predatore, dopo che il pericolo di vita è passato, mentre attende che la natura dispieghi di suoi prodigiosi effetti curativi.
Gli altri due erano di nuovo seduti in circolo nello stesso punto di prima, il Pantera intento a scaldare un pezzo di hashish appoggiato sul filtro della sigaretta appena aperta per estrarne il tabacco, con la mano concava a riparare la fiamma dell’accendino dal vento che intanto si era levato.
La sera era calata sul parco e le prime stelle brillavano tremule nella fredda bruma violetta sporcata dalle luci della città. Giulia pensò a tutta la strada che avrebbe dovuto fare da sola, in mezzo alla campagna che di lì a venti minuti sarebbe stata immersa nel buio, e fu percorsa da un brivido.
Si avvicinò e raccolse il suo zaino, che le sembrò più pesante di prima.
“Mbe? Che te ne vai?” chiese il Pantera.
Francesca la guardò ironica. “Lascia che vada” disse. “Tanto ormai tornerà sempre”.
Giulia non alzò neppure gli occhi, né cercò le parole per congedarsi. Si voltò e cominciò a camminare lungo il sentiero sconnesso senza guardarsi indietro. Era diventata una di loro? Così come si diventa vampiri dopo essere stati morsi? Era stata lei a lasciarli entrare, a mostrare loro il collo, pensò vergognandosi per l’eccitazione che l’aveva pervasa nell’attesa di quel pomeriggio. Lei era stata chiamata, dopo una vita di attesa era stata chiamata. Ed era accorsa come un cane affamato a cui si offra un bel pezzo di carne, scodinzolando, dimentica di sé e di tutto il resto. Adesso che sarebbe successo? Niente che non dipendesse dalle sue scelte, provò a dirsi con scarsa convinzione. Sentiva ancora echeggiare alle sue spalle il chiacchiericcio dei ragazzi e la risata tagliente di Francesca.
“E’ così: non riceviamo breve la vita, ma tale la rendiamo, e non siamo poveri di essa, ma prodighi” si disse, ricordando solo ora, finalmente, da quale tempo remoto arrivavano le parole che per tutto quel tempo avevano attraversato il fondo dei suoi pensieri come le acque limpide di un fiume sotterraneo.
Le luci del giorno erano quasi estinte del tutto, ma oramai quelle dei palazzi e dei lampioni rischiaravano il breve e ripido tratto di strada che ancora le restava davanti. Giulia lo percorse a passo svelto, mettendoci tutta l’energia che le restava alla fine di quella giornata, pensando che se fosse arrivata alla fine del sentiero, dove la terra battuta sfumava nel marciapiede, dove l’erba lasciava posto all’asfalto, la notte dei campi alla luce elettrica, la barbarie alla civiltà, se ce l’avesse fatta per tempo, prima che il buio e la follia avvolgessero ogni cosa, allora, forse, sarebbe stata salva.

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