Il mignolo di David Foster Wallace

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Ho vissuto imprigionato. A sera trovavo un po’ di spazio in un angoletto, sbattuto o strofinato. Di notte se fredda mi rintanavo più che potevo, di notte se calda cercavo di far scuotere il mio padrone dai legacci di lino.

Ho vissuto imprigionato. A sera trovavo un po’ di spazio in un angoletto, sbattuto o strofinato. Di notte se fredda mi rintanavo più che potevo, di notte se calda cercavo di far scuotere il mio padrone dai legacci di lino. Da quaggiù era quasi impossibile che la mia voce potesse giungergli. Quando ero al collasso gridavo. Io mi sentivo, ed era in quel momento del massimo acuto che causavo il prurito. Allora qualcosa succedeva: il mio padrone mi scopriva: aah! Non utilizzavo sempre questo stratagemma per paura che qualcuno dei miei fratelli fosse infasti-dito dalla mia striduleria, e per timore che il padrone da lassù, accorgendosi di me, potesse epurarmi dalla sua decina.
Gattonai con lui per la prima volta quarantacinque anni fa. Lui ancora non parlava, io si. Dopo qualche mese iniziammo a camminare. Lui si appoggiava molto a me, quasi ci feci il callo. Poi crebbi e la corazza della mia persona si irrobustì fino a non sentire quasi nulla. Saltellava di continuo su una gamba sola, per fortuna che saltellasse con la sinistra. Fino alla scuola primaria filò tutto abbastanza liscio, il problema si pose all’ingresso dell’High School. Si mise in testa un casco da football americano e prese tante di quelle botte che io non potevo esserne escluso. Quando decise di abbandonare il football, sperai che si iscrivesse a lezione di arpa birmana, ma optò per il tennis. Qui iniziò il periodo più duro della mia vita. Si scoprì un talento e questo non poteva che essere motivo di grossa sofferenza per me e i miei fratelli, in particolare per me. Il giovane tennista per menare il rovescio aveva sviluppato uno strano movimento, che io definii “la mossa del granchio la cui chela mincula”. La strana postura consisteva nel girare il suo piede destro verso l’interno con un movimento a ventaglio della caviglia che culminava con un perno roteante terminante sul mignolo. Giunti al preciso istante in cui colpiva la pallina spiccava in volo con un leggero saltello che faceva leva su di me: il suo mignolo! Do-lo-re: sillabare per me era l’unico modo per mascherare la sofferenza, lo annunciavo un attimo dopo il piede perno e un attimo prima del saltello: era un tuffo nel do-lo-re. Le due pause che separavano le tre sillabe erano sospensione, la fuga esorcizzatrice, la mia libertà in quella prigione del game set match. Desideravo che gli avversari gli tirassero il dritto incrociato o il rovescio lungo linea. Qualche volta capitava, ma lui cercava di giocare sul suo rovescio, e portava l’avversario a giocargli quel colpo e giocava a me quel tiro. “Arbitro interrompi l’incontro per pioggia: è il massacro di un innocente, per favore, e se non piove annuncia un uragano imminente, qui ne va della mia vita, callo di cane”.
E se penso allo sponsor. Per quanto fossero pump, io ero al buio e sudavo in quei calzari gomma fuori e spugna dentro. Maledetto sponsor, maledetto destino di ultimo avamposto del piede perno con appoggio sull’esterno. Fossi stato interno, avrei trascorso una gioventù più spensierata, senza attese sì, ma più spensierata. Per fortuna che nei ritagli di tempo si dedicasse alla lettura, ma erano purtroppo solo ritagli. Erano ritagli in cui era solito distendere le gambe. Io, in quella distensione, mi addormentavo beato e pieno di ossigeno. Questi ritagli iniziarono a divenire sempre più frequenti e a ventuno anni decise di abbandonare il tennis e di iniziare l’attività di scrittore a tempo pieno. Furono anni calmi, placidi, dormienti. Non mi misi in testa di condividere i suoi panorami visivi e mentali. Mi preoccupavo solo di non essere sbattuto qui e lì. Infatti, a cadenza non periodica, cioè quando capitava, si alzava di scatto e in una frenesia inaspettata s’infilava le sue pump gomma fuori spugna dentro e gli dava di brutto per una decina di chilometri facendomi correre su ogni superficie che si presentava sui suoi passi di atleta dedito al jogging.
“Ma scrivi e stop, abbasso lo sport e i cultori dello sport”. Fosse stato mingherlino, poteva pure passare, ma il peso dello scrittore corridore era troppo per un povero mignolo qual ero. Digrignavo i denti alle pendici della mia povera unghietta e non passava do-lo-re: sillabe a me. Ne inventai di nuove: at-ten-to al-la cac-ca, che tu pos-sa fer-mar-ti al pri-mo bar u-ti-le, vi-va il ma-re quin-di an-dia-mo a far-ci un ba-gno nel-l’ o-ce-a-no: chilometri di sillabe.
Poi venne il tempo de Lo scherzo infinito. Fu un verso di Shakespeare a cambiarmi per sempre la vita. Prendendo spunto da questo verso si dedicò alla stesura di un romanzo fiume. Non ho mai avuto la possibilità di leggerlo, ma per come ha iniziato a viaggiare comodamente seduto e per gli spostamenti che ha percorso in tutto il mondo, tutti noi, parti molli e parti dure, falangi, falangine e falangette capimmo che quel romanzo fece scalpore e divenne un caso internazionale, tale da essere considerato dall’opinione pubblica un capolavoro il suo lavoro e un capolavoro di scrittore colui che lo ha scritto, cioè quello colui per cui per come e perché gli sono attaccato al piede, per essere precisi, io la parte terminale del suo metatarso: il suo mignolo.
Poi un giorno in una libreria dell’Oregon sentii dire a uno studente che si stava allontanando con suo amico dopo essersi fatti autografare il libro da lui: “che darei per essere il mignolo di David F. W.”. Fu in quel preciso istante che la mia vita mutò: dimenticai le sofferenze patite, i torti, le storte, le appropriazioni indebite di calzini che si incollavano sotto di me, le vesciche, i colpi di forbicina sforbicianti, i pediluvii mancati (se ci penso le i diventano tre). Ma fa niente, dimenticai tutto. Pensai che se un giovane in carne ossa volesse incarnarsi nel mignolo di Dave, cioè in me, voleva dire che non avevo vissuto un’esistenza inutile, potevo anch’io al par suo sentirmi una persona, pardon, una parte del corpo di una persona di successo: genio lui genio le sue parti. Vi-va la vi-ta. Ora non sillabavo più. Gridavo tutto d’un fiato: viva la vita.
Ma proprio sul più bello mi ritrovai penzolante nel patio di casa e lui che non parla, non scrive, non sorride, non gesticola, non muove un mignolo, cioè io, cioè noi, cioè tutti. Le oscillazioni del corpo si stavano affievolendo, sentii un calore venirmi incontro con tutta la sua furia di fiamma. Fuoco in gola, fino ai piedi, fino a me. Percepii una presenza. Era lei, sua moglie. Iniziai a gridare in falsetto, quella la voce che mi usciva: “salvami, tagliami, io sono ancora vivo, salvami, tagliami” e lo dissi fin quando non lo distesero orizzontale su morbidi cuscini. Poi chiusero tutto.
Io sono ancora qui, sono sopravvissuto, non pensavo potessi sopravvivere a lui. Barlumi di vita sono ancora in lui, intermittenti, ma ci sono. Infatti è stato lui a dettarmi questa storia.
Per sempre mignolo, Dave.

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