Articolo originariamente uscito su MAG O il 21 gennaio 2015, a pochi giorni dal compleanno di Muhammad Ali che adesso se n’è andato a vincere incontri in Paradiso.
Venite, ascoltate, leggete. Voglio raccontarvi di un uomo che è stato anche un campione. Ma soprattutto un uomo. Un grande uomo.
Parlo di Muhammad Ali, al secolo Cassius Marcellus Clay jr, o semplicemente, The Greatest.
La sua carriera sportiva è nota. A diciotto anni vince la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma ’60, categoria mediomassimi e passa professionista. A ventidue, batte Sonny Liston per il mondiale dei massimi. Se avessi più tempo, vi parlerei di quanto cattivo fosse l’Orso Liston, il pugile della Mafia italo-americana la cui vita è stata accompagnata da una musica strumentale, e vissuta in quella parte della città che la luce del giorno molesta. Galeotto, forse drogato, Liston sta a Tyson come il Krakatoa a un foruncolo, e ancora oggi quando Terminator va a nanna, controlla che sotto il letto non ci sia Liston. E confuterei quella stupida insinuazione della combine.
Dopo Liston, sono stati messi in riga una decina di grandi pugili, alcuni se nati in epoche diverse sicuramente campioni del mondo, e poi ci sono stati Foreman e Frazier.
Anche su Foreman, se avessi più tempo, avrei molto da dire. Sulla sua inaudita potenza, e di come Ali lo prendeva in giro, perché lento. Le sue mani non potevano colpire quello che i suoi occhi non potevano vedere. E Foreman era lento, lento come una mummia, le mummie dei film anni cinquanta. E Ali imitava la mummia e chiedeva chi ne potesse avere paura. Mentre lui era così veloce che l’altra sera aveva spento la luce e prima che fosse buio era già nel letto. E poi la grande messa in scena di Kinshasa, con oltre settanta mila persone che gridavano Ali bomaye, Ali uccidilo. E sui tre stupendi incontri con Frazier? Quel Frazier troppo brutto per essere campione, troppo stupido per essere campione, mentre un campione doveva essere bello e intelligente come lui? Frazier, il primo ad atterrarlo? Frazier, che fu anche uno dei pochi ad aiutarlo? Non basterebbero cento pagine, per raccontarvi della loro rivalità e di quel thriller a Manila, dove Frazier e Ali furono entrambi sul punto di morire.
Ma non è del pugile che vi parlerò oggi. La favola che voglio raccontarvi, forse nasce da una menzogna, o forse no, ma non importa, perché tutto ciò che è seguito è vero, e ci sono morti, imbrogli, e belle cose.
Venite.
Venite a Luoisville, Kentucky, 1960, una pagina strappata da un racconto di Faulkner. Il giovane Ali, che allora si chiamava Clay, è tornato da Roma e porta al collo la medaglia d’oro, orgoglioso e felice. Entra in un bar e chiede da bere, ma il cameriere si rifiuta di servirlo perché nigger. Ali esce infuriato dal bar e getta la medaglia nel fiume.
In molti sostengono che sia una leggenda. Che Ali l’abbia semplicemente persa. E questa favola sembra concludersi con la restituzione della medaglia ad Atlanta ’96, l’olimpiade del centenario, quando Alì, tremolante di Parkinson, è l’ultimo tedoforo. Ma la storia non finisce ad Atlanta, e prima e dopo c’è tanta roba.
Vera o no che fosse, la storia è simbolo e metafora di un’America razzista, un’America come un brodo primordiale in cui si agitavano primitive forme di associazioni per i diritti e la salvaguardia delle minoranze. Come la Nation of Islam, i Musulmani neri d’America. Che sotto la guida del molto (poco) onorevole Elijah Muhmmad, sostenevano l’idea che gli afroamericani dovessero riabbracciare la fede islamica perduta, e a sostegno di una superiorità della razza nera, raccontavano il mito eugenetico dello scienziato Yakub dalla testa grande. Hanno persino un’apocalisse, che può essere riassunta così: tra un po’ arriverà una nave spaziale di antichi uomini africani che distruggerà l’America facendola bruciare per trecento anni.
Ali vi entrò molto presto, ispirato dagli ideali di riscatto sociale. Data la grandezza del personaggio, ebbe l’onore di ricevere un nome e cognome nuovo, a differenza di altri, il cui cognome sarebbe stato una semplice X. Come Malcom, con cui, Ali, stringerà amicizia. Per certi versi, i due sono anche simili. Due uomini che attribuiscono il successo personale alla volontà e alla costanza della ripetizione. Ma ben presto Malcom capirà che dietro le belle frasi, dietro la demagogia di una ribellione alla schiavitù imposta dall’uomo bianco, la Nation of Islam nasconde più di uno scheletro. Il capo spirituale, come tutti i santoni, è solo un bluff. Vieta la promiscuità delle razze ma lui va a letto con donne bianche. Parla di povertà e colleziona automobili. Fa affari con uomini bianchi mentre proibisce ai suoi adepti di farlo. Malcom, che da ragazzo ha vissuto per la strada e si è fatto le ossa tra delinquenti, ne fiuta la puzza e se ne allontana. Il molto onorevole Elijah non l’accetta, e lo fa ammazzare. Ali inizialmente sta dalla parte del santone, taglia i contatti con l’amico, ma quando egli viene assassinato, se ne pente. Ali pensa di lasciare la Nation of Islam, ma ha paura, e poi sa che se vuole fare qualcosa per la sua gente, la setta rappresenta forse l’unica speranza.
Nel frattempo la guerra del Vietnam è nel periodo più sanguinoso e chiede sempre più carne da macello. Ali come sacerdote di una religione, è esentato dalla leva, ma fa un baccano del diavolo, dice che nessun vietcong l’ha mai chiamato negro, che è una sporca guerra, e ogni volta che lo dice ci sono più telecamere che al discorso del Presidente. Il congresso decide che non gli si può dare possibilità di parlare e gli revocano il titolo, lo dichiarano renitente, e lo condannano a trentasette mesi di carcere. Come uomo e pugile sembra finito. Tutti lo abbandonano. Ma lui ritorna. Come pugile, con le sfide contro Frazier e Foreman, e come uomo. Raccoglie gente intorno a lui, aiuta chi glielo chiede e chi ne ha davvero bisogno. Rimane nel giro della Nation of Islam, ma solo come specchietto per le allodole, nei fatti se ne discosta. La prova di un suo non reale razzismo verso l’uomo bianco è che nel suo staff, oltre al bravo e buono Angelo Dundee, italianissimo e suo allenatore, ci sono sempre stati bianchi.
Appesi i guantoni al chiodo, la sua popolarità non scema. Nell’ ’82 Ali è Roma, e mentre visita la città con Gianni Minà, Giovanni Paolo II in partenza per Londra, dove lo attende la Regina, rimanda il volo e decide di incontrarlo. Minà resterà fuori, e nessuno saprà mai cosa si son detti.
Nell’ ‘84 gli diagnosticano il Parkinson. I primi sintomi si erano avuti già negli ultimi anni di carriera. È un colpo durissimo, che lo atterra e avrebbe messo knock-out chiunque, ma non The Greatest. Ali afferma: ho avuto così tanto dalla vita che se Dio mi toglie tutto, sarò sempre in debito. E Alì non resta al tappeto. Si rialza, e continua a cercare il dialogo tra i neri e bianchi, tra l’Islam e le altre religioni. E nel ’91, quando tutti i negoziati per far tornare i marines catturati in Iraq saltano, Ali vola a Bagdad, incontra Saddam, e riporta ventidue soldati in patria. Situazione analoga si verifica nel 2001. Dopo l’11 settembre. Le tensioni tra musulmani e occidentali rischiano di far collassare gli Stati Uniti e Bush gli chiede se può fare un giro per i vari stati e predicare la pace. Ali accetta, ma non per Bush, specifica che lo fa per evitare che i suoi fratelli vengano ammazzati; e gira l’America facendo leggere alle sue figlie biglietti scritti da lui che inneggiano alla pace. Nel 2002 è ambasciatore dell’ONU in Afghanistan. Infine, tra la vittoria di un Oscar per il documentario When we were kings, la candidatura al Nobel per la Pace e qualche Medaglia d’Onore, recide ogni legame con la Nation of Islam, rimanendo comunque di fede musulmana.
Negli ultimi anni la malattia ha guadagnato il centro del ring, e costretto la farfalla in un angolo; la sua lingua, una volta veloce e pungente più dei pugni, ora è muta; non si regge più in piedi, ed è notizia di questi giorni che è ricoverato in ospedale.
Saperlo in ospedale, nei giorni del suo settantatreesimo compleanno, lui che è nato il 17 gennaio del 1942, mi rattrista molto. Bello come un eroe greco, un metro e novantuno per cento chili di muscoli perfettamente allenati, da adolescente ne ammiravo le superbe qualità atletiche e l’immensa eleganza boxistica di una boxe che nessuno prima di lui ha mai fatto e nessuno farà mai dopo, e mi esaltavo per la goliardia con cui dava spettacolo, la finta e calcolata irriverenza e arroganza con cui affrontava e demoliva gli avversari prima ancora di salire sul ring. Volevo essere come lui. E volevo sapere tutto di lui. E mi informavo. E anche quando leggevo libri che non c’entravano nulla con la boxe, quelli di Norman Mailer o James Ellroy per fare due esempi, il suo nome spuntava, e se ne parlava sempre con grandissimo rispetto per il pugile e per l’uomo. Un uomo che mi ha insegnato che vedere a cinquant’anni il mondo come se ne avessi ancora venti, voleva dire aver sprecato trent’anni di vita; che c’è qualcosa di molto meglio che prendere a pugni qualcuno; e che non c’è nulla di male a finire a terra, la vergogna è non voler rialzarsi.
Lo so. Sembra un’agiografia. In realtà conosco bene i lati oscuri di Ali, e chiedere a Floyd Patterson per ragguagli. Ma Ali, citando Amleto, era un uomo, ecco, in tutto e per tutto. Solo un uomo, come dice Frank (Henry Fonda) in C’era una volta il west, una razza antica, conclude Armonica (Charles Bronson) nello stesso film.
Sapete come è diventato pugile? Aveva dodici anni. Era un ragazzino alto e magro per la sua età, gracile, e scopre che gli hanno rubato la bicicletta. Scoppia a piangere e denuncia il furto allo sceriffo. L’uomo gli sorride, ma gli dice che non la troveranno mai, però c’è una palestra di boxe in città, può imparare così a difendersi da solo. Senza quella bici, forse oggi non starei scrivendo questo pezzo.
E chissà, io ci credo ancora che all’ultima ripresa, quando oramai tutti lo danno per sconfitto, esce dalle corde e jab-jab-jab sinistro, come un serpente che scatta, all’avversario la vista si annebbia per la rapidità dei colpi e Alì tira un diretto destro portato dall’alto, l’avversario barcolla, montante sinistro di Ali, gancio destro Ali, e anche il Parkinson crolla al tappeto, come una statua che si sgretola, e Ali, dall’alto, non sporca la vittoria con un inutile colpo finale.
Auguri, auguri Champ.