Ma quel rumore aumentava di minuto in minuto. Che cosa avrei potuto fare?
Esso era un rumore sordo e soffocato e intermittente,
e in tutto simile a quello che produrrebbe
un orologio avvoltolato nella bambagia.
E.A. Poe, Il cuore rivelatore
Per questo abbiamo fermato di proposito l’orologio:
perché a Uncino fosse risparmiata la terribile rivelazione.
E’ da parte nostra un segno di rispetto per lui.
Almeno verso la fine.
J.M. Barrie, Peter Pan
E’ stata mia sorella di ritorno a Roma a portarmelo una sera in casa. E’ accaduto la settimana successiva a Pasqua, io ero ancora malato per una brutta influenza che mi ero preso qualche giorno prima e che aveva mandato in malora le mie vacanze.
Con le maniere spicce che la contraddistinguono lo aveva posato sul tavolo tenendolo per le orecchie e si era messa a sedere sul divano.
– Io non posso tenerlo – ha detto subito.
– Ma nemmeno io posso tenerlo!
– Non fare storie tanto lo sappiamo come va a finire. A te piacerà.
– Ma io, nelle mie condizioni…
– Mica stai morendo, scusa? Sarai certamente in grado.
– Ma è una bestia enorme!
– Dillo a me! Mi hanno affibbiato questa gran scocciatura!
– E come lo hai portato? In treno?
– E come l’ho portato? L’ho ficcato in valigia, guarda…lasciamo perdere!
– Ma poteva…
– Si, si, poteva, poteva. Ma è arrivato sano e salvo, e ora è qui!
– E lo molli a me?
– Io non posso tenerlo in casa, è fuori discussione. E’ una responsabilità averlo a portata di mano e poi non saprei come fare per questa Estate.
E si è accesa una sigaretta.
Mi sono avvicinato al tavolo per guardare meglio. Se ne stava dritto e immobile. Poteva essere alto almeno quaranta centimetri. Le sue orecchie sembravano un po’ storte per come mia sorella lo portava in giro. Le zampe davanti erano protese verso di me e quelle di dietro nascoste sotto al sederino paffuto e alla coda a batuffolo. Aveva questa espressione sorpresa e felice.
Si trattava di un coniglio. Un enorme coniglio di cioccolata.
L’ho preso con cautela e l’ho levato dal tavolo del soggiorno per portarlo in cucina. L’ho messo vicino a degli strofinacci che la signora delle pulizie mi aveva stirato e impilato sul tavolo. Sulla plastica che lo avvolgeva erano rimasti appiccicati alcuni riccioli dell’imbottitura del cesto pasquale da cui probabilmente era stato prelevato per farne dono a mia sorella.
Mi sono sorpreso a pensare che di sicuro nel cesto stava molto meglio che posato su un tavolo con accanto degli strofinacci stirati.
Dopo essere stato malamente trasportato in valigia da mia sorella, poi.
Il fiocco rosso che aveva al collo e il piccolo campanellino di zucchero ne tradivano le origini eleganti.
E adesso doveva invece accontentarsi di un tavolo in cucina.
Quel coniglio mi metteva un po’ di soggezione.
Ho spento la luce e sono tornato in soggiorno. Mia sorella già mi stava aggiornando con i suoi racconti da reduce dalle festività in Puglia: quantità inenarrabili di cibo, quantità inenarrabili di chiacchiere, quantità inenarrabili di parentame variopinto e interessato alla tua vita privata.
Ne era uscita viva e con un coniglio di cioccolata, ed era già tanto da chiedere al mondo.
Passiamo la serata a guardare la tv, io senza cena a causa dell’influenza intestinale dei giorni precedenti che scoraggiava caldamente l’introduzione di nuovo cibo e mia sorella senza cena perché portava ancora sul corpo i segni di una settimana di nutrimento pugliese.
Due ore dopo, dopo averla riaccompagnata alla porta, rientro in cucina per bere un po’ d’acqua. Ovviamente mi era passato di mente che avevo un coniglio di cioccolata sul tavolo e non appena ho acceso la luce mi è preso un colpo. Era sempre lì, vicino agli strofinacci stirati. Mentre bevevo il mio bicchiere d’acqua prima di andare a dormire mi pareva che la sua espressione gioiosa di qualche ora prima si fosse trasformata in qualcosa di più severo. Evidentemente il signore non gradiva l’accomodation a due stelle. L’ho ripreso per le orecchie e l’ho sdraiato sul tavolo. Così impari a lamentarti, ho pensato.
Il mattino dopo però già mi faceva pena, tutto riverso sul tavolo così.
Per giunta quando ho fatto per sollevarlo ho sentito il dito affondare dolcemente. Si stava squagliando.
La plastica trasparente in cui era avvolto si stava appiccicando al suo corpo umido per il gran caldo che si era creato nella confezione. Bisognava liberarlo.
Ho preso un paio di forbici e ho tagliato con cura la plastica facendo attenzione a non colpirlo. Poi, piano piano, l’ho spogliato di quell’asfissiante sudario. L’ho rimesso dritto.
Gli occhi sembravano tristi, pareva spaventato. Come avevo potuto lasciarlo riverso sul tavolo in quelle condizioni? Dopo essere stato strappato al suo elegante cestino? Dopo il viaggio in valigia? Dopo aver sopportato la compagnia di mia sorella, poi, che, diciamocelo, può essere piuttosto seccante a volte?
L’ho rimesso dritto con estrema cura e l’ho guardato con tutta la compostezza necessaria a farmi voler bene di nuovo. Non avrei mai voluto ferirlo, speravo lo capisse.
Ero lì rigido e compunto come il maggiordomo di Downton Abbey, sperando che Sua Grazia mostrasse comprensione, quando le zampette davanti si sono staccate di netto dal torso e si sono spiaccicate sul tavolo. Si erano squagliate ed erano cadute giù.
Per un attimo mi sono fatto prendere dal panico, poi una botta di adrenalina deve avermi guidato attraverso lo shock, pilotando il mio corpo. Dopotutto avevo visto undici serie di Grey’s Anathomy.
Raccogliere con cautela l’arto tagliato, riporlo in un contenitore sterile, accertarsi della gravità delle ferite, valutare la possibilità di suturare l’arto in base allo stato dei bordi della sezione. Dieci minuti dopo il coniglio era sdraiato su un vassoio di plastica con i suoi tristi moncherini puntati verso il cielo, le sue zampette monche erano state posate in una ciotola di coccio turchese e io mi stavo leccando avidamente le dita.
In effetti si trattava di un’ottima cioccolata al latte.
Era evidente che non potevo lasciarlo sul tavolo. Un’altra giornata di esposizione ad elementi esterni e il danno sul corpo sarebbe stato irreversibile. Il suo volto era imperlato di piccole goccioline chiare. Il cioccolato stava sudando. Bisognava agire in fretta.
Ho liberato un ripiano del frigorifero spostando tutto quello che c’era a cominciare da degli ignobili ovetti di cioccolata che avevo comprato al discount e che comunque non avrei potuto mangiare per via della dieta. C’erano diverse altre cose in frigo che non potevo mangiare per via della dieta tipo quello speck del Trentino che avevo comprato all’alimentari all’angolo, o quel gorgonzola al mascarpone che andava mangiato con la confettura di cipolle che mi avevano regalato, e soprattutto la crema di carciofi da spalmare sulle salsicce che mi ero fatto portare dalla Toscana.
Tutta una serie di grassi saturi che il medico mi aveva vietato e che tuttavia erano arrivati in qualche modo nel mio frigo e per cui prima o poi avrei dovuto studiare una soluzione. Ma ora avevo un problema più grosso: un coniglio di cioccolata di quaranta centimetri che stava soffrendo per causa mia.
Ho fatto più posto possibile e l’ho infilato per intero sul ripiano di mezzo. La ciotola con le sue zampette l’ho messa sul ripiano di sopra. Mi pareva macabro che se le tenesse accanto così, come qualcosa di morto. Ho chiuso lo sportello, ho tirato un grosso sospiro e sono corso in ufficio.
Dopo un’intera giornata di lavoro ci sono due cose che un uomo desidera più di tutto rientrando a casa: un caffè e della cioccolata. Anzi più di tutto della cioccolata. Ma anche non dopo un’intera giornata di lavoro. Sempre praticamente.
Mi sono chiuso la porta alle spalle e mi sono fiondato verso il frigorifero. Avevo già le papille gustative sintonizzate sull’ovetto di cioccolato. In pratica se in quel momento avessi addentato un topinambur avrebbe comunque avuto il sapore del cioccolato. In quei momenti di vorace astinenza la mia bocca si produce in disturbi di apprendimento e ritardi cognitivi e in pratica sente solo il sapore del cibo prediletto.
Apro il frigo per buttare la mano a ravanare tra gli ovetti (che comunque -ci tengo ad aggiungere- io mangio con misura, per via della dieta) e mi ritrovo il cadavere del coniglio sotto gli occhi.
Le perline di burro che sudavano sulla sua pelle marrone al mattino si erano cristallizzate in tanti aloni biancastri che conferivano alla salma un aspetto malsano.
Prima che potessi soffermarmi a notare come i suoi occhietti si fossero lentamente chiusi a causa della risolidificazione in frigo del suo visetto squagliato, un potente aroma di cacao ha raggiunto le mie narici.
Gli ovetti, ho pensato.
No. Non potevano essere gli ovetti.
Dovevo mangiarne almeno sette per appagare il mio desiderio di cioccolato. La quantità di cacao al loro interno era così scarsa e così di bassa qualità che parevano fatti di polistirolo.
Non potevano essere gli ovetti.
Era il corpo del coniglio che, come quello di un santo martire, emanava un delicato afrore cioccolatoso che aveva già raggiunto l’emisfero destro e sinistro del mio cervello e aveva stimolato un’eccessiva salivazione. Io desideravo quel corpo, io volevo cibarmene.
Non volendo infliggere ulteriori sofferenze all’animale, ho preso la ciotola con le zampette e ho chiuso la porta del frigo. Poi mi sono allontanato con la preda in mano e, voltando le spalle al frigo con dentro il coniglio, ne ho mangiato avidamente le braccia.
Che delizia, che piacere supremo, che paradisiaca estasi dei sensi! Sua Maestà il coniglio di cioccolata aveva benedetto la mia casa, a me il privilegio delle sue carni, a me l’onore di cotanta abbondanza! Visioni di coniglietti di cioccolata che si inseguivano per i prati attraversavano il mio cervello. La terra, il cosmo, le stelle, tutto si tingeva di cioccolato e ne emanava il peccaminoso profumo. Mi si stavano piegando le ginocchia per il potente piacere che devastava il mio corpo e lo trafiggeva come un dardo. Mi sono dovuto sedere e portare una mano al petto.
Come sempre, dopo ogni orgasmo sopraggiunge il rifiuto. Pare che il periodo risolutivo successivo alla fase di massimo piacere renda il maschio refrattario a nuovi stimoli. Mi sono guardato le mani sporche di cioccolata e ho provato orrore per me stesso. Come avevo potuto. Come avevo potuto arrivare a tanto. Mi privavo da mesi –con moderazione- di ogni delizia del palato, agosto era alle porte, una vacanza con amici e amici di amici a Creta era all’orizzonte e io ero lì ad aggiungere centimetri alla mia pancia divorando innocenti zampette di cioccolata.
Sono corso in camera da letto e mi sono sfilato la cravatta, poi la camicia e infine quelle sexy magliettine intime che ti insaccano come un prosciutto per guardarmi allo specchio grande.
Eccola lì. La mia pancia. Avida creatura con la consistenza di un materasso ad acqua, capace di condizionare i mie pensieri al punto da trasformare una paciosa e solitaria serata sul divano in un baccanale di Nutella e crackers, Nutella e burro d’arachidi, Nutella e granella di nocciole, Nutella e dita, Nutella e basta direttamente dal barattolo alla faccia.
Ho provato vergogna per me stesso. Non avrei mai potuto scattarmi un selfie con gli addominali in mostra e metterlo su Instagram.
Mi tornarono in mente le foto che una volta un fotografo mi aveva fatto in spiaggia durante una vacanza a Formentera. Lì per lì mi era parsa un’idea grandiosa, poi quando sono andato nel pomeriggio a ritirarle sono rimasto senza fiato: un tricheco spiaggiato sarebbe stato più sexy di me. Ho litigato con il fotografo senza che ci fosse una ragione specifica e gli ho intimato di cancellare tutto. Da allora vivo con il terrore che si vendichi e non metto più piede a Formentera.
Dovevo farla finita con la cioccolata.
Sono ritornato in cucina e ho aperto il frigo intenzionato a buttare il cadavere del coniglio direttamente nella spazzatura. Non appena ho spalancato la porta però ho avuto una sorpresa.
Il corpo del coniglio non c’era più! Il ripiano era completamente vuoto. Non c’era nemmeno il vassoio.
Era risorto!
Ho fatto un passo indietro non sapendo che fare. Chiamare mia sorella? Chiamare il portiere del condominio e chiedere di un coniglietto fuggiasco? Avvisare il mondo del miracolo nel mio frigo? Che un coniglio ferito e mutilato aveva sconfitto la morte ed era con il Padre Suo che è nel Regno dei conigli di cioccolata?
Le domande si affollavano nella mia testa ma il mistero era praticamente già risolto. Il vassoio con il coniglio era posato sul mio tavolo.
Non solo il coniglio era sul tavolo, ma era anche stato orrendamente mutilato nelle parti basse. Il suo culetto morbidoso era stato asportato a morsi e un brandello di codina puffosa giaceva vicino alla sua testa.
La sagoma dei suoi arti mancanti già si stagliava miracolosamente sul fondo del piatto.
Era opera mia. Nel pieno della voluttà causata dal primo morso alle sue zampette monche dovevo aver tirato fuori dal frigo anche il resto e dovevo essermi servito con generosità.
Mi era già accaduto altre volte: la sera guardavo la tv e decidevo di concedermi un cioccolatino per poi scoprire che me li ero già concessi tutti la sera prima, pur non serbandone memoria.
Deve essere un effetto collaterale dell’abuso di cioccolata.
Ora basta. Ora basta. Era ora di comportarsi da adulti e ammetterlo con se stessi: io avevo un problema. E non si trattava di un problema circoscritto ai coniglietti di cioccolata, ma abbracciava anche le millefoglie al cocco che vendevano alla pasticceria di fronte a casa, i cioccolatini al Rum del tabaccaio all’angolo, i bignè al pistacchio della pasticceria sul viale principale e, se vogliamo dirla tutta, anche i tramezzini al gelato con glassa al caramello della gelateria a quattro fermate di metro da casa mia.
Il raggio d’azione dei miei crimini si era pericolosamente esteso. Stavo perdendo il controllo della situazione.
Ho preso il vassoio con i miseri resti del povero coniglio e l’ho infilato di nuovo nel frigo. Adesso non potevo pensarci, adesso non avevo le forze per pensarci, domani, dopotutto domani sarebbe stato un altro giorno e avrei trovato il modo di liberarmi del cadavere.
Mi sono messo a letto. E senza cena! Avevo fatto fin troppi danni e non potevo correre il rischio di vergognose panze paffute in bella vista al mare.
Ho spento la luce e mi sono concentrato per dormire.
Il coniglio invece era lì, gelido, nel frigo.
Certo ne avevo mangiato tanto. Ma come potevo essere stato così sconsiderato?
Non ci pensavo che tutta quella cioccolata faceva male?
E poi mi lamentavo di non perdere mai nemmeno un grammo.
E se il giorno dopo fosse venuta mia sorella? Mi avrebbe chiesto del coniglio e vedendo quanto già ne avevo mangiato mi avrebbe rifilato la solita storia sul colesterolo e sui grassi saturi e sui livelli di trigliceridi e sul rischio infarto per gli over 40.
Non avrei potuto sopportarlo.
Ma tanto domani lo avrei buttato. Ecco potevo dirle questo: ho buttato il coniglio in un estremo gesto di responsabilità. Io ho cura del mio corpo. Io non introduco grassi idrogenati. Eat clean and live clean. Un corpo magro ti rende una persona migliore e via discorrendo.
Ma io ero lì e lui sdraiato nel frigo. E mentre ero lì a decidere il suo barbaro destino un piccolo pulsare si faceva strada nel mio cervello.
Avevo avuto un acufene un tempo e non ero nuovo a fischi e pulsazioni nelle orecchie. Credi di sentire un rumore ma è tutto nel tuo cervello, è un difetto uditivo, è una frequenza che non senti più, non è reale, non è davvero lì.
Ma questo battito felpato si faceva strada nella mia testa, tra i miei pensieri. Era lì, sempre più forte eppure discreto, come un lieve bussare ad una porta, come un martelletto vellutato che batte su una corda di un pianoforte. Mi riempiva le orecchie, la testa, la stanza: era il cuore del coniglio. Il suo cuore che si stava lentamente congelando nel frigorifero ed emetteva gli ultimi macabri rintocchi.
Mi sono messo seduto nel letto. Era lui. Lo sentivo attraverso la parete.
Mi sono alzato al buio e sono uscito dalla camera da letto. Nel corridoio il rimbombo di quel pulsare era ancora più nitido, nella cucina già sembrava un tam tam tribale, quando ho aperto la porta del frigo era un beatbox di cioccolata che scandiva un ritmo sincopato e rabbioso. Il suo cuore! Il suo cuore avrebbe svegliato tutto il condominio, tutti sarebbero scesi a bussare, tutti mi avrebbero visto con quei brandelli di cioccolata per le mani. Avrei letto il disgusto sulle loro facce, sarei stato additato nel quartiere, finito sui giornali, il fotografo di Formentera mi avrebbe riconosciuto e avrebbe postato sui social le vergognose foto con mia pancia che tremolava come un budino di panna cotta.
Dovevo farlo smettere.
Non mi restava che ucciderlo. Ho preso quel corpo monco e l’ho posato sul tagliere che avevo trascinato sul tavolo e poi, alla sola luce del frigo aperto, ho finito il mio lavoro: ho sminuzzato quel bel musetto, dissezionato il suo torace, pestato le sue orecchie. Sentivo il crack del cioccolato congelato attutire il lugubre battito di quel cuoricino paffuto.
Non ci è voluto poi molto. Dopo dieci minuti il lavoro era fatto. Il suo cuoricino coccoloso aveva smesso di suonare.
Ho preso il tagliere e ho rovesciato tutto nella spazzatura. L’indomani l’avrei portata al cassonetto. L’indomani sarebbe tutto finito.
Ho richiuso il secchio e mi sono seduto per terra. Avevo le mani sporche e delle briciole di cioccolato erano finite sul pavimento. Avrei pulito. Avrei dovuto pulire bene.
Me ne stavo lì a prendere fiato dopo l’ondata di furia con cui lo avevo fatto a pezzi, quando ho sentito un orrendo ticchettare. Prima lieve, poi decisamente più nitido. Ho guardato sul tagliere. Era vuoto. Eppure il suono era lì, era ancora lui.
Ho aperto il secchio della spazzatura ed era lui, maledetto! Il suo cuoricino di coniglio pasquale bastardo continuava a battere! Non aveva nessuna intenzione di smettere, non me ne sarei mai liberato!
Ho cominciato a rovistare nella spazzatura, ed ecco un pezzo di cioccolato, ed eccone un altro pezzo e un altro ancora. E quel battere insistente.
Ho preso tutti i pezzi che trovavo e ho cominciato a divorarli. Li avrei ammazzati con i miei succhi gastrici, li avrei bruciati nel mio intestino. Ho ritrovato un pezzo di musetto sporco di sugo di polpette del giorno prima e l’ho mangiato, un pezzo di orecchia ricoperto di sughetto di salsiccia vecchio di due giorni e l’ho buttata giù, un occhietto smorto unto di Brie con cui avevo guarnito dei tramezzini qualche tempo prima e ho divorato anche quello.
Ci ho messo più di un’ora a ritrovare tutte le briciole nel secchione e a buttarle giù ma alla fine dopo quell’orgia cannibale tutta la mia faccia era coperta di cioccolato ed ero sfinito. Devo essermi addormentato.
Mi ha svegliato il suono del telefono. Era mia sorella. Sarebbe passata per un caffè prima del lavoro e voleva assaggiare un pezzo di quel coniglio. Dopotutto se l’era pure trascinato a Roma dalla Puglia, mi ha detto.
Ho chiuso la chiamata completamente terrorizzato.
Attorno a me briciole di cioccolato ovunque, il tagliere imbrattato, la mia faccia macchiata, il secchio della spazzatura scoperchiato, il frigorifero spalancato come una bara vuota.
Mi sono alzato e ho iniziato a pulire tutto, a passare lo straccio, a raccogliere le briciole.
Poi ho messo sul fuoco un pentolino per la cottura a bagnomaria, ci ho buttato dentro gli ovetti di cioccolato da due soldi che avevo comprato, poi un’intera stecca alle nocciole che mi avevano portato da Torino, e una stecca di quello di Modica che avrei voluto tenere per altre occasioni ma pazienza, e alla fine un’intera confezione di lingottini al fondente che tenevo per quando tornavo stremato dalla palestra.
Mia sorella ha suonato alla porta e l’intera casa profumava di cioccolato fuso.
– Ma che hai fatto, lo hai squagliato?
– Non è stata un’ottima idea?
– Ma pure le nocciole c’erano?
– Le ho aggiunte, è una ricetta che ho visto …
– Ho capito, ma ora come ce lo mangiamo?
– Con questi waffles.
– E da dove spuntano? Non eri a dieta?
– Li avevo comprati prima di iniziare la dieta, non è che li mangio, sai …
– Ti dirò, credevo che fosse cioccolata più scarsa invece … ha un buon sapore!
– Sul serio?
– Non ne mangi?
– Sono a dieta! E poi per come sono stato con l’influenza intestinale, lasciamo perdere.
– Ma cos’è questo?
– Questo cosa?
– Lo senti?
– Cosa?
– Questo ticchettio.
– Quale ticchettio?
– Questo che si sente! Ma cos’è una sveglia? Ma non ti da fastidio così forte?
– Io non sento nulla!
Nel preciso momento in cui mia sorella ha realizzato che il ticchettio veniva dalla mia pancia mi sono dovuto alzare e correre in bagno, percorrendo il corridoio a lunghe falcate. Ho fatto appena in tempo.
Il maledetto coniglio era giunto a destinazione e stava per risorgere ancora a nuova vita.