Data

Ido mi mostrò le immagini del Pianeta Azzurro. Era orgoglioso della sua scoperta. In un anno di esplorazione si era spinto fino alla periferia della Via Lattea ed era riuscito a trovare ciò che cercavamo da tempo.

Ido mi mostrò le immagini del Pianeta Azzurro. Era orgoglioso della sua scoperta. In un anno di esplorazione si era spinto fino alla periferia della Via Lattea ed era riuscito a trovare ciò che cercavamo da tempo.
Il nostro mondo stava morendo. Noi stessi stavamo morendo. Di nuovo.
“C’è acqua,” mi disse lasciandosi cadere sulla poltrona di luce. Ormai i brividi dell’Oscurità, il male profondo che ci colpiva ogni due eoni, lo scuotevano come un meteorite nella scia di una cometa. “Ma sono troppo debole per affrontare il viaggio. Stavolta la rinascita toccherà a te.”
“E Odi?” gli chiesi con rammarico. Il solo pensiero di lasciarmi alle spalle le luminose colline della mia terra per chissà quanti anni mi toglieva il respiro. Perché io, che ero il più piccolo, e non Odi, il più grande, il più saggio dei miei fratelli?
“E’ partito ieri. Porterà la nostra immagine verso est. L’ovest sarà compito tuo,” sentenziò Ido, forte del fatto che sulla nostra stella era al fratello di mezzo che spettava il comando.
Decollai l’altro ieri. O forse dopodomani. Anno, oggi, mese, ieri o domani erano solo parole. Le usavamo per indicare eventi diversi fra loro. Nel nostro universo stabilivamo noi cosa fosse prima e cosa dopo.
La prima volta che vidi le nuvole infuocate dai tramonti del Pianeta Azzurro rimasi senza parole. Le montagne che svettavano verso il cielo sembravano trascinare con fatica le aride sabbie alle loro spalle fino al confine estremo delle terre emerse. Di fronte, le dense acque dell’oceano gorgogliavano dei sussurri della vita. Mancava solo una cosa all’imperfezione di quel mondo minore. Mancava la luce. La nostra luce.
Era già passata una settimana da quando ero atterrato fra le dune la prima volta. Ore che valevano secoli. Giorni pari a millenni. Dovevo chiudere quel capitolo e dovevo farlo in fretta. Le forze mi stavano abbandonando e non volevo morire in esilio, solo su un pianeta alieno. Affondai le mani fra i granelli umidi di un’oasi e lasciai che la mia mente desse forma a ciò che conoscevo meglio. Ancora una volta ero costretto a portare a termine quel compito ingrato. L’avevamo già fatto centinaia di volte in passato. O forse in futuro. E solo la prima volta era stato piacevole. Poi, mera routine. Un atto dovuto per la sopravvivenza.
Quando la nostra immagine iniziò a delinearsi sulla superficie della sabbia aprii gli occhi. Era come guardare me stesso o uno dei miei fratelli, distesi sotto la tenue luce della stella più vicina. Era come prendere atto per l’ennesima volta della nostra perfezione.
Feci quell’essere grande. Lo feci gigante. A misura di un luogo primitivo come quello che avrebbe abitato. Raccolsi uno degli ultimi bagliori che avevo dentro e lo soffiai nella sua direzione. Poi caddi in ginocchio. Esausto.
Si scosse. L’essere strinse fra i pugni l’umidità del suo letto di polvere e grugnì. Spalancò le palpebre e cercò nella mia direzione. “Dove sono?” mi chiese.
Non avevo pensato a un nome per il Pianeta Azzurro ma terra era tutto ciò che avevamo intorno e, “Terra,” gli risposi. “La tua casa si chiama Terra.”
L’essere si chiuse in uno sguardo perplesso e si alzò torreggiando su di me e sul mio velivolo. L’avevo fatto delle dimensioni giuste. Sarebbe sopravvissuto. La nostra eredità sarebbe stata conservata. “Da dove vieni?” mi chiese gettando la sua ombra lontano. “E perché sei così piccolo?”
“Elisio,” gli risposi perplesso, puntando l’indice verso est. Era quello il nome della nostra stella, che muore e rinasce grazie alle creazioni. Grazie alle colonie. “E io non sono piccolo, ma come è giusto che sia in un mondo superiore dove viviamo in tre puntando all’unità.” Come mai mi chiedeva qualcosa che avrebbe dovuto sapere? Allarmato, gli diedi le spalle e mi avviai.
“Io sono Uomo,” mi disse a gran voce, battendosi con il palmo sul petto. Mi voltai. Sembrava fiero del nome che aveva scelto per sé stesso. Era suo e nessuno glielo aveva imposto. Il suo primo atto di libertà, però, aveva lo sguardo minaccioso di chi avverte il pericolo. Ripresi a indietreggiare verso il velivolo guardandolo dritto negli occhi. Non mi fidavo. Stavolta non era come con le altre creazioni. Sembrava che qualcosa fosse andato storto.
Uomo si mise in ginocchio e sibilò scoprendo i denti. “E tu come ti chiami? Chi sei? Cosa cerchi nella mia Terra?”
Quelle domande confermarono i miei dubbi. Al momento dell’emersione soffiavamo dentro le creazioni la luce e questa imprimeva nelle loro menti la conoscenza. Di solito, appena sveglie, sapevano già tutto di noi. Sapevano che su Eliso i Padri Estinti avevano lasciato solo nove famiglie, ognuna di tre fratelli. Che la nostra era l’ultima rimasta. Che le altre avevano raggiunto i Padri oltre l’orizzonte di Tracaia, il buco nero ai confini della Galassia. Le creazioni, di solito, sapevano già tutto questo.
Ma stavolta qualcosa era andato storto.
Salii a bordo dell’astronave correndo e mi chiusi il portello alle spalle. Il gigante continuò a gridarmi dietro i suoi quesiti, battendo a terra i pugni e scoprendo i denti. “Come ti chiami? Dimmelo!”
Come faceva a non sapere che su Eliso erano le lettere usate per i nomi a distinguere le famiglie le une dalle altre? Come faceva a non sapere che Odi e Ido erano i miei fratelli più anziani? Gli ultimi rimasti sulla nostra stella?
“Dio,” gli gridai mentre fuggivo. “Mi chiamo Dio!” e virai verso oriente appena in tempo per schivare le sue dita giganti che rastrellavano l’aria tentando di abbattermi.
Qualcosa era andato veramente storto.
E per la prima volta sarebbe stato necessario tornare.

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