La mia professoressa d’italiano spaccava il minuto. Alle 8 era già seduta alla cattedra e faceva scorrere il dito lungo la lista dei nomi, un po’ per controllare che fossimo tutti presenti, un po’ per decidere su chi si sarebbero abbattute le sue interrogazioni. Se quel giorno non avevi studiato, ti metteva 1 e io ho sempre pensato che lo facesse per farti sperimentare l’isolamento di essere l’unico ignorante certificato del giorno. Vestiva in maniera decisamente inadeguata per la sua corporatura, così come dimostravano quelle magliette troppo corte e attillate che le cingevano il seno abbondante e calante, abbinate a lunghi gonnelloni a pieghe dai colori cupi. Dalle tempie partivano lunghi ciuffi argentati che, incurante, lasciava crescere, ma che lisciava con soddisfazione al di sopra dei suoi occhiali appuntiti, mentre inquisiva la tua preparazione sull’Inferno di Dante. Aveva decretato la mia incapacità di scrittrice e mi invitava, puntualmente, a lavorare su altre mie doti poiché non sarei mai riuscita a districare il flusso contorto dei miei pensieri. Per anni, dopo la fine del liceo, era immancabile rievocare episodi esemplificativi del timore che la sua figura generava e che era direttamente collegato a quei momenti sadici noti anche come la correzione dei compiti. La correzione era un evento solenne che avveniva mediamente ogni mese e mezzo e che aveva una funzione che oltrepassava spudoratamente l’obiettivo della correzione formale e contenutistica, tramutandosi in una succulenta occasione di pubblica umiliazione. A me toccò il giorno che sbagliai l’uso dell’aggettivo “cruento”. Quel giorno, a parere mio, una conversazione tra Catilina e Cicerone, doveva aver assunto un tono un tantino esagerato e mi era parso affascinante andare oltre la semplice violenza verbale, definendola “cruenta”. Giammai. Con le parole non si poteva sperimentare, figuriamoci se nella mia sfacciataggine adolescenziale potevo permettermi di “osare”. “Di Mieli, alla cattedra”, dissero quelle dita picchettando soddisfatte. Quel giorno ero la prescelta. Il rituale era semplice nella sua esecuzione: aprire il dizionario, posizionarsi al centro dell’aula e declamare il vero ed unico significato della parola incriminata ad alta voce. “Un errore dichiarato è uno sbaglio superato”, aggiungevano un paio di labbra rugose sogghignando. La classe puntualmente rideva, ma chiunque da un momento all’altro poteva tramutarsi da vittima a carnefice in pochi minuti. Finii col convincermi. Per anni mi ero sentita in colpa anche a scrivere una mail. Come ogni venerdì mi ero recata all’Istituto Campi Elisi dove da qualche mese mia nonna era stata ricoverata. Mi trovavo nella sala comune. Era una stanza bianca e squadrata, che la luce dei neon rendeva di un lucido fastidioso. Me ne stavo al centro, sorseggiavo un cappuccino tremendo preso al distributore, seduta su una sedia bianca, con i gomiti poggiati su un tavolo, anche questo totalmente bianco. Il mio sguardo era fuori fuoco. Seguivo distrattamente i camici, rigorosamente bianchi, dei medici e delle infermiere. Mentre il mio sguarda vagava imprecisato, le mie pupille furono attratte da una delle tante capigliature antiche che popolavano la stanza. Lunghi fili argentati partivano dalle tempie finendo a punta d’inchiostro sulle orecchie, dando alla vecchina, che aveva fermato la mia attenzione, un aspetto da elfo. C’era qualcosa di profondamente familiare in quella piccola figura ricurva che tremava parecchio. Buttai il cappuccino artificiale che sorseggiavo e mi avvicinai. La riconobbi. Le sue dita, che a lungo ci avevano terrorizzato, picchettavano ancora sul tavolo, ma ora si erano attaccate alle ossa della mano. Seduta su quella poltrona bianco latte sembrava una regina destituita, che conservava tutta la sua autorevolezza ma che aveva perso, di fatto, il suo potere. Gli infermieri l’avevano posizionata vicino la vetrata, affinché prendesse un po’ di luce. Nell’osservarla mi ero avvicinata a lei e mi stupivo di come ancora non mi avesse riconosciuto, dato che il suo corpo era in parte rivolto verso la sala. Le mie labbra avevano iniziato ad abbozzare un sorriso. La cosa mi spiazzava un po’. Non pensavo di poter provare empatia per quell’essere. Mi stava addirittura venendo voglia di raccontarle di me, di tutti gli obiettivi raggiunti in quegli anni e che, forse, l’avrebbero sorpresa ma lasciai spegnere tutti quegli entusiasmi pochi attimi dopo, quando mi resi conto dei suoi occhi velati, che rimanevano socchiusi nel tentativo inutile di aprirsi anche se la mia presenza si era fatta più vicina. Decisi di sedermi davanti a lei. Voci di vecchietti e di tivù, troppo alte riempirono quei primi secondi del nostro ricongiungimento. “Adele, sei tu?” la sua voce tremava come sul punto di piangere. Senza pensarci le presi le mani e in quella stretta mi assalì una profonda sensazione di abbandono. “Mi dispiace, mi dispiace”, disse, poi prese fiato. Far uscire le parole in sequenza sembrava una pratica dimenticata per lei. Le servivano lunghi respiri per andare avanti. Riprese a parlare: “Perdonami. Ho usato parole dure. Se l’ho fatto è stato solo per evitare che commettessi il mio stesso errore.” La sua dialettica era ancora impeccabile. Si fermò esausta. Poi le sue mani lasciarono la mia presa. Cercavo di ricomporre l’immagine originale che avevo di quella donnina: quel suo personaggio a tratti grottesco, nel suo metro e cinquanta e i suoi chili di troppo che inutilmente ogni giorno in classe cercava di contenere nei suoi abiti antiquati. La vita che evaporava via dal suo corpo le dava ora il pallore di uno spirito ed era la prima volta che vedevo uno spirito chiedere perdono. Tornò assente e rassegnata. Un brivido di onnipotenza mi percorse la schiena. Mi alzai delicatamente, caso mai desiderasse dirmi qualcos’altro ma questo non avvenne. Mentre camminavo verso il grande giardino che circondava la casa di riposo, iniziai a chiedermi se anche la sua vita privata fosse stata una continua affermazione di autorità, esattamente come aveva fatto con noi studenti. E chissà dove era Adele ora. Il venerdì dopo mi trovavo di nuovo nella stanza comune. Il candore delle pareti rendeva tutto così sospeso. Pensai che fosse un’ottima prigione in cui finire i propri giorni. Iniziai a cercare la professoressa Cutrufelli con lo sguardo ma non riuscivo a scorgerla tra tutti quei vecchietti. Bloccai la prima infermiera che mi passò davanti e chiesi di lei. “La signora è sua parente?” “Ci conoscevamo da molto tempo, diciamo”. “Condoglianze allora. La signora purtroppo è deceduta nella notte. So che i funerali si terranno domani mattina alle 8 nella cappella dell’Istituto. Mi raccomando, sia puntuale.” L’invito alla puntualità mi lasciò un po’ sorpresa, ma sapevo che la prof ne sarebbe stata felice. La mattina dopo spaccai il minuto. Entrai nella cappella, dove pochi altri vecchi stavano seduti sui banchi. Di quella che poteva essere Adele, nessuna traccia. La chiesetta era illuminata pochissimo e da fuori filtrava una luce debole, tanto più che la giornata fuori era nuvolosa. Sentivo l’eco dei miei passi mentre mi dirigevo verso la bara ancora aperta. Le diedi un ultimo sguardo: il suo viso era tornato severo come un tempo e quasi mi sentii confortata ad aver ritrovato il personaggio che conoscevo. Nel trovarla ancora così mi sentii quasi fortunata. Nessuno sapeva che da giorni avevo un regalo per lei. Lo presi dalla borsa, verificando di essere al sicuro da sguardi indiscreti, e lo disposi tra le sue mani di marmo. Avrebbe avuto tutta l’eternità per leggere una copia del mio primo libro.