Fui io il vero assassino del mio vicino di casa, ma un po’ per una serie di fortunate coincidenze e un bel po’ per incompetenza della polizia non venni mai sospettato come tale. Anzi la polizia, nella figura di un commissario piccolo di statura, quando mi arrischiai, ma soprattutto mi divertii, nel dire che avevo visto bene in faccia il killer con tutte le mani insanguinate scappare via, mi credette senza batter ciglio. La cosa più spassosa, tuttavia, la feci qualche settimana dopo, quando mi convocarono per un riconoscimento.
Ad accogliermi nella stanza c’era lo stesso piccolo commissario, e davanti a me, oltre lo specchio, sette loschi tipacci allineati, ognuno di loro con un numero davanti al petto.
– Li guardi con attenzione e mi dica se tra questi c’è l’uomo che ha visto uscire con le mani insanguinate dall’appartamento del suo vicino – mi disse il piccolo commissario, a fianco a me.
Prenderlo per i fondelli fu, un’altra volta, un piacere indescrivibile.
– È lui il colpevole! Il numero quattro! – gli risposi di getto, puntando l’indice verso l’uomo. In realtà, l’indice lo stavo puntando sulla mia faccia riflessa sul vetro. Poggiai addirittura il polpastrello sulla lastra e mi picchiettai più volte la fronte, ripetendo rabbioso:
– È lui il colpevole commissario! Lo vede? Ce l’ha proprio davanti agli occhi! È impossibile che non lo veda! Lo vede? È lui il verme bastardo!
Ma il piccolo commissario naturalmente non vide un bel niente, o meglio, vide quello che era più logico vedere. E mentre io, con estrema difficoltà facevo di tutto per non ridere, lui, tronfio, ordinava ad un agente vicino la porta di mandare via tutti, tranne quel povero cristo che gli avevo appena indicato.