Il campanello suonò con una certa insistente arroganza, Miccia, che pensava ai cazzi suoi, fissando con occhi annoiati il quadro di Gustav Leblanc appeso alla parete, spense il mozzicone di sigaretta nel posacenere poggiato sul divano di pelle beige dei fratelli Avilès, tolse i piedi dal tavolino di cristallo Sebastian Grabowski e con tutta calma andò ad aprire la porta.
“Din din din din din” disse Muffin sulla soglia facendo tintinnare un sacchetto di carta bianco come fosse pieno di campanelle.
“Entra” disse Miccia con un sorriso.
L’amico entrò, gettò il sacchetto di carta sul tavolo di abete rosso disegnato personalmente da Nikolaj Severs, si tolse il giacchetto mimetico e buttandolo a terra chiese:
“Andati i tuoi?”
Miccia annuì “non tornano prima di domani”
“Da paura” fece Muffin tirandosi su i jeans che gli erano calati. Miccia non poté fare a meno di notare quel gesto. L’amico credeva che il soprannome gli fosse stato affibbiato perché con le ragazze era dolce come un Muffin. Invece no, tutti, a parte lui, sapevano che dipendeva dal fatto che i sui fianchi e la sua pancia strabordavano dai jeans troppo stretti che lo facevano assomigliare più nella forma che nel sapore al tipico dolcetto inglese.
Miccia l’aveva sempre trovata una cattiveria.
Per lui era più semplice, lo chiamavano Miccia perché aveva un cespuglio di dread corti in testa che lo facevano assomigliare a un rauto appena sparato.
“Allora che hai trovato?” chiese indicando col mento il sacchetto di carta.
“Frate’, questo è il viaggio della tua vita. Sono Peruviani, non si trovano in commercio, roba da sciamani, cose che neanche Castaneda ha mai provato”
Miccia annuì, il Muffin diceva un sacco di cazzate, ma lui lo lasciava fare, quei funghi doveva averli presi dal Pasticchetta, dove prendeva pure quel fumo puzzone che gli spacciavano per Skunk. Probabilmente l’unico viaggio che avrebbero fatto sarebbe stato una corsa al cesso, ma lui davanti a una droga nuova non si era mai tirato indietro.
Si misero seduti sul divano e svuotarono il sacchetto dentro il piatto di porcellana di Guillaume Guerrètte che Miccia aveva preso dalla credenza.
Effettivamente quei funghi erano strani, non erano Magic Trip ne Majestic Dream e neanche assomigliavano ai Nepal Ball, ricordavano invece piccole case dei puffi, con il corpo tozzo e il cappello rosso cosparso di puntini bianchi.
Miccia guardò Muffin “ma a chi l’hai rubati a Gargamella?”
“Ma che te frega? mangia e basta”
Miccia fece spallucce e ne buttò giù due in un colpo solo.
“E che cazzo Muffin, sanno di pecora digerita” aveva esclamato con la faccia rattrappita.
“Che t’aspettavi fragole con la panna?” disse Muffin mettendosene in bocca quattro.
Li finirono tutti quanti, un intero quartiere di puffolandia al sapore di carogna, poi si stravaccarono sul divano e aspettarono.
L’effetto degli allucinogeni non è mai immediato e di norma i due amici rimanevano in silenzio finché la pezza non saliva, quando Muffin cominciava a parlare, voleva dire che per lo meno una mezza padellata era arrivata.
“Quel quadro sembra la sbrattata di un mini-pony” disse serio riferito al Gustav Leblanc davanti a loro, “Secondo me i mini-pony vomitano arcobaleni”
“È un quadro astratto bestia, che ci vuoi capire te, è il preferito di mia madre, levagli tutto ma non toccargli il suo Leblanc, lei ci vede un gallo dentro, un gallo di profilo”
“Tua madre si fa di acidi Miccia, te l’ho già detto”
“No, lei è un’artista, un’intellettuale”
“Si fa di roba forte frate’, mica le pasticche di merda che trovi al Qube, tua madre si cala roba da un centone a botta”
“Ma la smetti? È mia madre!”
“Ho capito, ma dove cazzo lo vede un gallo?” esclamò Muffin con la mano a paletta puntata verso il quadro.
Miccia osservò il Leblanc ed effettivamente era solo un guazzabuglio di colori pennellati a caso, era impossibile tirarne fuori una forma.
Stava per ammettere che forse veramente sua madre si drogava di brutto a sua insaputa, quando il Muffin con aria titubante indicò un punto sul quadro: “però… quello potrebbe pure sembrare un becco”
“Quale?” chiese Miccia strabuzzando gli occhi per mettere a fuoco.
“Là, vedi? È un becco, quello è proprio un becco”
Miccia si alzò a fatica dal divano e si avvicinò di qualche passo al quadro.
“E sì…” disse poi, “è un becco, e allora questo è un occhio” fece, puntando il dito su un altro punto.
In quel momento sentì un gorgoglio, un verso simile al quello che fa il gallo quando passeggia impettito tra le galline.
“La smetti di fare il coglione?” disse Miccia a Muffin voltandosi verso di lui.
L’amico sembrava sinceramente sorpreso, alzò le mani:
“Te lo giuro non sono stato io”
“Sì certo” disse Miccia “è stato il quadro”
Ma mentre diceva così, Muffin spalancando gli occhi indicò la parete alle sue spalle.
Miccia si voltò, “o porco cazzo!” esclamò sbigottito.
Nel quadro c’era, nitido come un ritratto, il profilo di un gallo maestoso, con tanto di cresta multicolor ed espressione fiera.
“è proprio uno stracazzo di gallo di merda” aveva detto Muffin stupefatto raggiungendo il fianco dell’amico.
Miccia annuì ammirato, ma in quell’istante sentirono di nuovo quel verso, quel gorgoglio gallesco, più nitido, più chiaro, poi il gallo si voltò e li guardò.
“Ma vaffancuolo!” urlarono in coro facendo un balzo all’indietro, il Muffin inciampò in una piega del tappeto persiano di Kermash Merhabi e cadendo si aggrappò al braccio di Miccia che finì culo a terra con lui.
Il gallo aveva riflessi nei suoi grandi occhi a specchio i loro volti terrorizzati, e un ghigno diabolico si stava dipingendo sul becco, come se un pennello invisibile ci stesse lavorando.
“Buono bello” aveva accennato Miccia con lo stesso tono che avrebbe usato per calmare un pitbull che gli ringhiava contro.
Ma il gallo scrollò la testa un paio di volte, minaccioso, poi i colori si rimescolarono in un vortice primordiale, il dipinto sembrò implodere su se stesso e in un fragoroso “CHICHIRICHI!” esplose, la pittura schizzò da tutte le parti, imbrattando le pareti, le tende in tessuto svedese di Isidor Norbeg, la collezione di statuette di ceramica di Akira Tezuka, e i due ragazzi, che vennero investiti da un ondata arcobaleno di colori a olio.
Miccia e Muffin si pulirono alla meglio gli occhi dalla pittura e appiccicosi e puzzolenti, guardarono il quadro, la tela era adesso bianca, immacolata, tutto intorno un caos di colori brillanti.
Sul tavolo di abete rosso c’era il gallo.
Miccia provò a muoversi con tutta la cautela che poteva,
“Vieni bel galletto” disse lentamente.
“Ma che vieni, bruciato, mandalo via” fece sottovoce Muffin.
“Ma sei scemo? Se il gallo non torna nel quadro io sono fottuto”
Il gallo zampettava sul tavolo Nikolaj Severs lasciando righe e macchie di colore, fu allora che Miccia tentò uno scatto per afferrarlo, ma inciampò anche lui su quel cazzo di tappeto Kermash Merhabi volando faccia avanti, il gallo balzò via emettendo un suono stridulo come quello di un velociraptor, terrorizzando Muffin che saltò in piedi sul divano Avilès.
Il gallo atterrò sulla mensola abbattendo una per una la collezione Akira Tezuka, lasciando scie di pittura colante.
L’animale era saltato a terra e aveva ripetuto quel verso minaccioso rivolto a Muffin che di tutta risposta aveva afferrato il piatto Guillaume Guerrètte e glielo aveva lanciato come un frisbee, mancandolo e facendolo esplodere contro il vetro della credenza “e che cazzo Muffin!” aveva urlato Miccia, “Fanculo, adesso lo acchiappo” disse in un impeto di coraggio Muffin saltando giù dal divano, ma fatto com’era, aveva centrato in pieno il tavolino di cristallo Sebastian Grabowski che si era frantumato facendolo schiantare a terra in una spettacolare esplosione di vetri che Miccia vide per qualche motivo in slow motion, come fosse al cinema.
Il gallo schivò agilmente la caduta del Muffin e dribblò senza problemi il secondo tentativo di Miccia di afferrarlo, poi con un balzo, aprendo le ali, sfondò la finestra e spiccò il volo, nella notte, lasciandosi dietro una scia di colori.
I due ragazzi, ansimanti a terra, doloranti di contusioni e tagli da cristallo lo guardarono allontanarsi, tra le stelle, impotenti.
“Buoni sti funghi” disse Muffin.
“Ma vaffanculo Muffin” disse Miccia tirandogli uno scappellotto sulla nuca “mamma stavolta mi si incula”.