Cara Cappuccetto Rosso, sono anni che ti aspetto e comincio a pensare che non verrai. Mi sento sola in questo grande edificio che da fuori sembra un albergo. In realtà è qualcosa di diverso. Ci sono orari precisi, televisori che si accendono e si spengono, suorine che scodinzolano. Qualche volta si vedono anche dei camici bianchi o delle tonache nere ed il clima allora si fa più concitato. Vuol dire che qualcuno di noi si è avvicinato o ha tagliato il traguardo. Qui l’atmosfera è ferma, in attesa, ma il più delle volte non succede niente. Il niente è come una grande bolla di aria calda, dentro cui mi lascio cullare, insieme a sfocate nuvole di ricordi. In qualcuna ci vedo mio figlio piccolo, che col suo completino verde corre verso di me con le braccine aperte. Mi sembra quasi di potergli infilare le dita tra i riccioli castani, come un tempo…poi la nuvola svanisce e resta solo il tepore, del niente. Cara bambina, se “ci sarà una volta “ in cui, senza perderti per le strade della città, riuscirai ad arrivare sin qui, porterai col tuo cappuccio, un tocco di rosso che non sia quello dei prelievi del martedì. La tua vocina squillante interromperà la colonna sonora di tosse e scatarra menti, che le nostre bocche rimandano alle orecchie. E se ci saranno dolci nel tuo cestino e riusciremo a ingurgitarli, la glicemia schizzerà in alto urlando di piacere. Dico se riusciremo, perché siamo guardati a vista. Di lupi qui ce ne sono tanti, travestiti da umani e potresti non riconoscerli subito: medici, infermieri e parenti in visita obbligata. L’indirizzo non lo ricordo, ma puoi sempre trovarlo su internet, anche le fiabe ormai sono nella rete, come i pesci. Così ho sentito dire. La mia stanza è la numero 9, al primo piano e il nome della Casa di riposo è -Ville verde-. Ma di verde qui c’è solo la scritta a neon sul cancello d’ingresso.
Milena
Non se l’aspetta più, ma sono arrivata. Per l’indirizzo mi sono fatta aiutare da un bambino molto sveglio con cui sono in contatto, perché mi legge tutte le sere. Ora mi arrangerò da sola: sono abituata a muovermi per sentieri e boschi sconosciuti. Mi sono infilata tra le sbarre della recinzione in un punto in cui mancava una stecca. Ho nascosto il cappuccio nel cesto per non dare nell’occhio e mi sono avviata verso la scalinata d’entrata. Ora sono davanti alla porta a vetri e aspetto che ci sia un po’ di movimento per passare inosservata. Userò le colonne dell’atrio per nascondermi, se fosse necessario, come facevo con le querce. Devo guardarmi da tutti quei lupi travestiti e poi agire senza esitazione. Attendo a lungo e poi finalmente c’è un momento di scompiglio: squilli di campanelli, lucette verdi e rosse. Che starà succedendo? Ne approfitto e mi intrufolo in un corridoio laterale. Sento una voce che grida qualcosa dietro di me e allora comincio a correre. La voce m’insegue insieme a passi frettolosi. Mi trovo davanti uno strano carretto con due ripiani, pieni di bottiglie e di barattoli. Mi nascondo sul ripiano più basso. Sono piccola e tutte quelle cose di vetro mi aiutano a non essere vista. Le voci e i passi cessano e me ne sto lì in silenzio, affogata di odori che mi pizzicano il naso. Niente a che vedere con quello del muschio e dei funghi. Il carretto si muove e dietro c’è una stoffa bianca e delle scarpe nere. Sarà un lupo travestito. Ho il cuore in gola. Sento che entriamo in una stanzetta buia che sembra salire verso l’alto. Sento dire primo piano. Ci siamo. Ho imparato a leggere i numeri fino a 10. Vedo passare delle porte, poi il carretto si ferma. Sopra la porta c’è il numero 9. Entriamo, la camera è semibuia. Ci sono tante persone intorno ad un letto. Me ne resto accovacciata tra barattoli, bottiglie e ciotole di metallo, cercando di non muovermi e di non respirare. “Ha avuto un’ischemia. Povera signora Milena. Chissà se passerà la nottata. Bisogna avvisare il figlio”. “Non c’è fretta, vive in Brasile ed è grasso che cola se verrà ai funerali”.
E’ lei. Striscio tra i barattoli come un lombrico e mi sdraio sotto al letto. Attendo che i lupi travestiti si allontanino per uscire dal mio nascondiglio. Alzo le coperte e mi accoccolo lì vicino. Le prendo una mano. E’ ossuta e pelosa e le unghie sono lunghe e appuntite. Scosto allora le cortine e vedo una mascherina di gomma con un tubo che le copre il viso. Due lunghe orecchie sbucano ai lati della testa. Gli occhi sono grandi e sgranati. Mi guardano. Poi si strappa i tubi e con un balzo è sopra di me. La bocca aperta con i denti aguzzi. Posso vedere la lingua rossa e carnosa. Poi è buio e non vedo più niente.