Quella sera di novembre, al tavolo della cena mia madre si sedette molto lentamente, lasciando il bastone a portata di mano, appoggiato allo schienale della sedia.
Si vedeva dagli occhi che non aveva granché fame.
Mentre cullavo la mia bambina, mio padre armeggiava in cucina, assente, col viso ristretto e la pelle infeltrita, come un maglione capitato per errore in un lavaggio con centrifuga.
Mise sul piatto la mozzarella e l’insalata e lo portò alla donna che un giorno di cinquant’anni prima era capitata a teatro al posto accanto al suo, e l’aveva stregato col suo accento irlandese.
Mia madre guardò il piatto disinteressata ma con un cenno della testa lo ringraziò. Con le mani insicure affondò il coltello nella palla di latte. Non uscì neanche una goccia, era un banale fiordilatte comprato alla Carrefour all’ora di chiusura. Una mozzarella stanca e asciutta, priva del siero che fa la differenza.
“Mozzarella, Sergio” gli disse. Lui la guardò con la testa storta. “Eccola, Mary, te l’ho messa nel piatto”. Lei scuoteva la faccia. “Mozzarella, please, mozzarella”. Forse non le piace quella mozzarella. Un lampo attraversò la mente di mio padre, ma forse intende dire qualcos’altro? Mio fratello Antonio, seduto accanto a lei, ascoltava il dialogo con la bocca mezza spalancata. Con lo sguardo ricontrollò il piatto. La mozzarella c’era. Forse mamma intende dire qualcos’altro. Si voltò verso la vecchia angoliera che cinquant’anni prima lei aveva voluto far portare dall’Irlanda. Nella vetrina, i bicchieri da sherry e il servizio da thè per gli ospiti, che ormai non usava più nessuno. Sul ripiano, l’olio, il sale, il pepe. Il pepe! Forse vuole il pepe. Le è sempre piaciuto mangiare la mozzarella col pepe, chissà perché. Antonio s’allungò e mostrò il pepe a mio padre. “Ma non è che vole il pepe?” disse a bassa voce. Lui tirò su le spalle, col solo movimento delle labbra gli disse “Prova”. Risposta esatta. Lei con un cenno ringraziò mio fratello. Piano piano girò il tappo e lasciò cadere la pioggerella nera sulla fetta di mozzarella fredda, distesa sulla ceramica bianca.
Mio padre telefonò al mio terzo fratello, Liam, il maggiore. “A Lì, devi veni’ a casa”. Poi mi venne vicino, m’accarezzò una mano e mi disse: “Chiamo l’ambulanza, ma te non te preoccupà, ‘sta a casa colla piccola”. “E certo”, gli dissi, “Mò mi metto a guarda’ i cartoni alla tv”, e preparai la bambina per uscire.
Il pepe sulla mozzarella era una delle tante strane abitudini che aveva mia madre, un’irlandese dalla scorza dura, trapiantata negli anni sessanta a Roma per amore. Innamorata della sua dolce metà, ma anche della dolce vita.
Aveva scelto di vivere a Casalpalocco, un quartiere della periferia romana con molti giardini e pochi negozi, perché le ricordava il verde d’Irlanda. Ma soprattutto perché è vicino ad Ostia, e a lei piaceva il mare. Non che in Irlanda mancasse il mare, certo, è che il mare senza sole “is not the same”, diceva.
Ricordo che negli anni settanta quando arrivavano le domeniche di maggio, o forse anche d’ Aprile, che tanto per lei era già piena estate, ci caricava in macchina insieme al pollo arrosto e chiedeva a papà di portarci alla spiaggia libera di Ostia, “Ai cancelli, please”. Noi tre pigiati nel sedile dietro, sulla via Cristoforo Colombo facevamo il countdown fino all’ultimo semaforo, a partire dal quale si iniziava a vedere il mare. Era solo a cinque minuti da casa, ma il mare lo rivedevamo sempre come la prima volta.
Di solito ci fermavamo al terzo cancello. La macchina bisognava parcheggiarla bella lontana ma la donna con la scorza non si spaventava mica. Ci dava una cosa per uno da portare. A me una sediolina di tela a righe arancio e marroni; ad Antonio, l’ombrellino del sole; a Liam, il fratello maggiore, il tavolino pieghevole e a mio padre le sdraio mentre lei teneva il borsone col pranzo e gli asciugamani; poi ci facevamo a piedi il bordo della litoranea carichi di roba ma leggeri nella testa.
Con la protezione totale, bianchi e biondi facevamo bagni e castelli fino a sera; e al ritorno ci fermavamo dal cocomeraro al terzo semaforo della Colombo. “Senti che robba sto cocommero. Quante fette ie faccio, dottò?” “Dammene tre” rispondeva mio padre. Poi tirava fuori il coltellino svizzero, che non so perché se lo portava sempre dietro attaccato a un passante dei pantaloni, e ci preparava il cocomero a quadrati. Sui miei ci levava pure i semi, perché ero la più piccola, diceva.
Ce lo mangiavamo in piedi o seduti sul cofano dell’audi arancione, che scottava sotto alle gambe già rinsecchite dal sole.
Quella sera invece, la Colombo la facemmo tutta d’un fiato nella Yaris grigia e non ricordo d’aver pensato al mare. Non ricordo in quanto tempo arrivammo a Ostia, all’Ospedale Grassi, ricordo che seguivamo l’ambulanza a tutta birra, perché mia madre, dopo aver detto “Mozzarella, please”, non aveva detto più nulla e respirava male.
Da più di dieci anni la donna con la scorza combatteva col tumore, ne aveva già sconfitti tre, ma questa volta, come ogni volta, sembrava diverso.
Il giorno seguente il medico di guardia chiamò mio padre. “Mi dispiace, metastasi al cervello.” E’ per questo che non parla?” “Si, è per questo”. “Che possiamo fare?” “Solo aspettare”. “Quanto?” “E’ questione di poco”. “Quanto?” “Pochi giorni” “Quanti?” “Non glielo so dire, due , tre, dieci. Ma cambia poco, purtroppo”.
“Cambia poco, ma cambia”, disse mio padre affrettando il passo sul corridoio per tornare da lei.
Passammo le due settimane seguenti facendo i turni al Grassi. Non la lasciavamo mai da sola, perché come mio padre ci aveva sempre insegnato, la famiia è ‘na cosa sola. Ci muovevamo come un piccolo branco di dispersi, sostenendoci l’un l’altro lungo la corsia, cercando parole di conforto tra la sala dei dottori e i carrelli delle infermiere, cercando un pelo di speranza in un uovo glabro.
Sul letto nella stanza 10 mia madre se ne stava senza parlare, attaccata a mille fili. C’era anche una specie di pinza attaccata al dito indice. Le infermiere ci avevano istruito a chiamarle ogni volta che suonava l’aggeggio collegato alla pinza. Nel mio primo turno chiesi all’infermiera di spiegarmi cos’era. “Misura la saturazione”, mi disse. Io la guardai senza sforzarmi di assumere un’espressione intelligente. “Se sona,” proseguì, “vor dì che la signora va’n’ ipossia. In parole povere, ce sta poco ossigeno ner sangue.”
Ogni volta che il macchinario suonava mi sentivo anch’io un po’ in ipossia. Ma già dopo qualche giorno ci facemmo un po’ tutti l’abitudine; suonava talmente spesso che le infermiere non venivano neanche più.
Non saprei dire quanto fosse cosciente, i medici dicevano che lo era, che poteva vederci e sentirci, solo che non poteva parlarci. Questa era la prova più dura per me. I condannati a morte hanno sempre diritto alle ultime parole; lei no, e io questo non lo volevo credere possibile.
Ogni giorno mi portavo qualcosa sperando che aiutasse a risvegliarle la parola. Portai il computer con le foto della bambina, lei sembrava sorridere da una angolo solo della bocca, ma non disse nulla. Portai carta e penna per cercare di farla scrivere, ma scosse la testa, o almeno così mi sembrò. Le lessi pagine del libro che aveva lasciato mezzo aperto sulla poltrona di casa, ma niente. Le infilai Beethoven nell’orecchio ma lei chiudeva gli occhi anziché aprire la bocca.
Fortissimamente rivolevo, ancora più della sua salute, sentire i suoi pensieri. Volevo che mi dicesse che mi voleva bene e che era fiera di me. Il fatto è che le dolcezze non erano state mai il suo forte, lei che era stata educata nell’Irlanda cattolica e severa degli anni trenta. Lei che col suo taglio alla maschietto, le unghie corte e le gonne lunghe aveva girato il mondo, conosceva tante cose, metteva il pepe dappertutto, ma lo zucchero no, non nelle parole, non nelle movenze, nemmeno nel thè delle cinque.
Mi martellavo le tempie col pensiero che in quei momenti m’avrebbe detto qualcosa di dolce, dato un consiglio, o rivelato un segreto. Ma lei rimase lì, adagiata come la mozzarella sul piatto, muta e senza siero.