Nosferatu, disteso ad occhi chiusi nella bara, pensava alla sua vita. Si sentiva vecchio. Aveva perso l’entusiasmo di un tempo. Alzarsi tutte le notti, alla stessa ora, andare in giro a cercare qualcuno da vampirizzare, affondare i canini sempre e soltanto nel collo della vittima, succhiarne il sangue fino all’ultima goccia, non gli dava più piacere. Gli sembrava quasi un lavoro. E questo lo deprimeva. L’eternità della vita, nel lugubre castello della Transilvania, gli era diventata insopportabile. Forse, gli avrebbe fatto bene cambiare aria. Ma dove andare?
Nella Barbagia.
Lì, Nosferatu sentì, all’improvviso, di dover tornare. Nella terra sarda dei suoi avi, selvaggia e cupa. Lì, avrebbe trovato sangue nutriente capace di rinvigorirlo. Avrebbe riassaporato il gusto per la vita eterna; sorvolato, come un presagio oscuro, le rocce granitiche e i contrafforti montuosi. Lì, avrebbe deposto la bara. Nel castello dei conti Nosferatu.
Ad occhi chiusi,
il vampiro iniziò
il viaggio,
all’indietro,
verso la terra madre.
In lacrime per la delusione, Nosferatu scoprì che il castello avito era stato distrutto. Al suo posto, sorgeva un monastero. Come poteva volere, il destino, che lui depositasse la bara in un luogo pieno di croci? Che vampirizzasse vecchie suore? Nosferatu era il Principe della notte. Non avrebbe mai affondato i canini in quelle suore, anche se gli si fossero offerte con voluttà, cedendo al maligno. Lui bramava sangue di vergini, si disse con un singhiozzo.
La bara, guidata dalla mente del vampiro, virò tristemente verso la Transilvania ma qualcosa attrasse l’attenzione di Nosferatu. Un drago di pietra con ali maestose e denti aguzzi, grondanti sangue.
Nosferatu lo riconobbe subito. Lo stemma del suo casato. Il drago troneggiava sulla porta della squallida foresteria del monastero dentro cui, Nina, una infermiera dagli occhi neri come la notte, stava indossando un camice bianco.
Nosferatu non degnò la donna di uno sguardo lascivo. Non era vergine e neanche giovane.
Quando, però, Nina uscì dalla foresteria per andare a curare una suora, il vampiro sentì i canini allungarsi contro la sua stessa volontà. Non era il collo di quella donna ad attirarlo bensì, stranamente, il suo corpo sodo di femminilità ancestrale.
A mezzanotte, la luna piena si stagliò nel cielo privo di stelle e il vento cominciò a soffiare con lugubre lamento.
Nina dormiva nella foresteria, agitandosi nel sonno.
Nosferatu era lì, in piedi, accanto a lei. Fissava il corpo candido della donna. Finalmente, dopo tanto tempo, sentiva di nuovo il desiderio. Anticipò con la mente il piacere che avrebbe provato affondando i canini nella carne morbida della sua vittima. Li avrebbe spinti dentro fino a lacerare la vena e poi avrebbe succhiato il sangue. Voleva berne fino a sentirsi sazio. Il vampiro riscoprì il piacere di turbare la sua vittima insinuando nelle orecchie il sibilo perturbante del vento.
Nina smaniava.
Nosferatu, eccitato, si piegò su di lei.
“Porco, profanatore di monasteri, coddaproccusu che non sei altro” urlò Nina, svegliatasi all’improvviso.
Nosferatu sorrise mostrando i canini appuntiti. Splendevano nel bagliore della luna. Qualunque donna si sarebbe piegata al fascino irresistibile che emanava dal suo corpo.
Nina, no. Non era una donna qualunque. Con un pugno, troncò i canini di Nosferatu riducendoli a banalissimi denti.
“Venite, sorelle, venite, c’è uno stupratore” urlò, con voce potente da contralto.
Le suore, vecchie com’erano e malandate, entrarono nella foresteria dove dormiva Nina e accesero la luce per vedere meglio cosa accadeva all’infermiera.
Nosferatu alla vista delle croci, che ciascuna delle suore portava al collo, si accasciò per terra, terreo da fare paura.
Nessuna delle suore capì che il povero cristo, disteso per terra, era il terribile Nosferatu, il Principe della notte. Anche Nina, non capì.
Intanto, Nosferatu gemeva da fare pietà. Non beveva sangue fresco da un bel po’ di giorni, era allo stremo.
Nina osservò con attenzione il pallore del suo assalitore e all’improvviso ebbe un’intuizione.
“Questo uomo è anemico” disse Nina, da brava infermiera qual’era.
Nosferatu la guardò con lo sguardo spento dei moribondi.
“Sorelle, presto” disse Nina “portatemi la sacca di sangue che ho messo in frigorifero. Gli farò una trasfusione, poi lo consegneremo alla giustizia”.
Una suora andò a prendere la sacca del sangue, le altre due, in ginocchio accanto a Nosferatu, cercavano di rianimarlo con carità cristiana. Le croci appese ai loro colli penzolavano davanti al viso sempre più terreo di Nosferatu.
Quando la suora tornò, Nina cominciò ad armeggiare per la trasfusione. I suoi gesti erano concitati ma precisi. Non c’era tempo da perdere.
“Maledizione” disse Nina “ non riesco a prendergli una vena nel braccio, devo provare con le vene delle gambe”
Nina, con gesti esperti tolse i pantaloni a Nosferatu, si chinò sull’inguine e infilò l’ago nella vena. Rimase in ginocchio dov’era, dietro alle tre suore intente a rianimare il vampiro.
Non erano neanche trascorsi cinque minuti che qualcosa cominciò a muoversi tra le gambe di Nosferatu.
“Brincula!” disse Nina sorridendo “ il nostro malato comincia a reagire” .
Una suora sobbalzò sentendo l’esclamazione di Nina. Aveva capito che non c’era più nulla da fare per il vampiro.
In effetti, Nosferatu, senza canini appuntiti, con quelle tre croci che continuavano a penzolargli davanti e che, miracolosamente, impedivano al sangue della trasfusione di diffondersi per tutto il corpo, si sentiva un vampiro dimezzato. Morto su e vivo, sotto. Un dubbio martellava la sua mente ormai offuscata. Doveva abbandonarsi passivamente alle morte o chiudere in bellezza?
Nosferatu optò per la seconda ipotesi. Si concentrò su quella parte del corpo, così negletta nella sua vita eterna. Sfoderò tutto il suo potere vampiresco.
Nina vide ergersi il cazzo più virile e maestoso che avesse mai visto.
Provò a resistere, poi, piegata al destino, si lanciò al galoppo sul miracolo che le si levava davanti.