Il pacco arrivò una mattina, all’alba, e dentro c’erano pure gli stivaletti altezza polpaccio in simil pelle, la fascia per capelli elastica dorata e ovviamente – in pendant – la preziosa cintura dei superpoteri. Vanda li indossò e si guardò allo specchio con orgoglio. I pantaloncini azzurri con le stelline cangianti le fasciavano perfettamente il didietro molliccio, il corsetto rosso in poliestere le strizzava il busto e le sparava i seni ad altezza mento. Si sentiva finalmente pronta per affrontare in maniera più che brillante le ventiquattro ore successive, con indosso il costume di Wonder Woman. L’aveva ordinato su un sito on line a sessanta euro e cinquanta centesimi, più otto euro di spese di spedizione. Made in Japan. Non un costume qualsiasi certo, perché la vita di tutti i giorni non è certo un allegro e scanzonato carnevale, ma una mise con una carica di super poteri nascosti nella cintura e accessibile a chiunque sia in possesso della carta d’identità non scaduta che certifichi il sesso “effe”. Di questa novità ne aveva parlato anche il telegiornale della sera, con un servizio infilato tra un reportage sui fumi devastanti delle bombe atomiche e un’intervista ad un luminare della dentiera ad impulsi elettrici. Se ne era occupato anche il settimanale femminile “Come tu ti vuoi” che aveva dedicato ampio spazio a quella che era considerata una rivoluzione per le donne, in particolare per quelle impegnate 24 su 24 tra datori di lavoro maschilisti, mariti indifferenti, figli maleducati, suocere impiccione e/o amiche petulanti.
Vanda era una di queste donne e anche se non era un’amante delle “giapponeserie”, era molto incuriosita da quell’invenzione. A convincerla ad acquistare quel magico costume un’amica, che era stata informata da una cugina che aveva una conoscente, che l’aveva testato personalmente. Funziona, è certo, diceva. D’altronde, era scritto su “Come tu ti vuoi”, che non è certo il tipo di giornale che spara cavolate.
Vanda incominciò a fantasticare su come, grazie a quel ritrovato, la sua vita sarebbe cambiata. Ogni sua giornata era infatti l’esatta fotocopia del giorno prima e seguiva, dalle sette del mattino alle undici di sera più o meno lo stesso schema ossia: alzati, saluto a marito con muso lungo, prepara colazione, vesti bambina, porta bambina a scuola, vai in ufficio, porta bambina a danza/pallavolo e/o inglese, sfreccia al supermercato, prepara torta, litiga con bambina che ti dice “scema”. E ancora: prepara cena, accogli marito musone che si piazza davanti alla tivù, metti a letto bambina con cui litighi perché non si lava i denti e ti dice “stupida”. Pulisci cucina. E ancora: fai lavatrice, stira. Bacio a marito che sta già dormendo da un bel po’ con la bocca aperta e con la testa spalmata sullo schienale del divano. E infine: crolla esausta a letto, per risvegliarti il giorno dopo che sembri un panda, con quel rimmel colato attorno agli occhi, e la cellulite che si è fatta ancor più spessa sul sedere perché sì, effettivamente, fai poco moto.
Quell’invenzione, la tuta di Wonder Woman con la cintura magica, avrebbe di sicuro rivoluzionato l’esistenza di Vanda, che indossava sempre pantaloni stinti, magliette larghe e mocassini. Che si sentiva inadeguata. Se non altro, mettendosi quella tuta da supereroina si sarebbe guadagnata il rispetto di sua figlia. Se non altro, il marito l’avrebbe guardata in maniera diversa o perlomeno l’avrebbe forse preferita ai programmi televisivi, o forse no. Perché di solito, agli uomini, non piacciono le super–donne, pensò. Provò comunque a fare un tentativo. Gli roteò davanti, secondo istruzioni allegate, per dargli il bacio del buongiorno con le sembianze “wonder”. Lui, la squadrò impietosamente dall’alto in basso e sbuffò.
Mah, il solito “cazzone”.
La bambina, quando la vide conciata con pantaloncini scintillanti e corpetto fosforescente, cacciò un grido di spavento. Wonder Wanda, a velocità della luce, sbrigò le pratiche dell’ufficio portandole di nascosto al gabinetto, cambiando sembianze da “super” a “ordinaria” ogni volta che aveva a che fare con qualche collega. Fece la spesa di una settimana in un decimo di secondo, preparò una torta gigantesca in un batter d’occhio e trovò anche il tempo per andare dal parrucchiere. Passò tre ore in palestra ad allenarsi ed ebbe i risultati che di solito un comune mortale ottiene in un mese. Guardò un film romantico, facendo girare il dvd a velocità triplicata, e pianse tre volte tanto dalla commozione. Andò a prendere la bambina a scuola che, superato il trauma della mattinata, la guardò incantata e le disse “stupenda, super–mamma”. Portò la bimba a danza e nel frattempo andò a fare shopping. In poco meno di un’ora riuscì a provare qualche centinaio tra vestiti/camicette/gonne e/o guepière e a sentirsi di nuovo femminile e bella, super bella.
E mentre sbrigava altre faccende a velocità supersonica si accorse della presenza di un altro essere che come lei era dotato di superpoteri. Le stava volteggiando da un po’ sopra la testa fresca di acconciatura. Capelli impomatati, tutina azzurra aderente e mantello rosso. Eh sì, quello era proprio Superman.
Il supereroe maschio con un balzo le si parò davanti e mostrò smaccatamente i suoi muscoli scolpiti. Lei gli rispose sculettando un po’, sbattendo le ciglia e sfoggiando un sorriso ebete. Fu subito super attrazione. Incollate le bocche in un bacio a risucchio, avvinghiati i corpi in un abbraccio infuocato, i due sfrecciarono uniti fino alla luna, dove, sotto il manto nero dello spazio e alla luce di miliardi di stelle, consumarono il più veloce, e stranamente anche il più appagante, dei rapporti sessuali. Non solo. Lui la sommerse da una pioggia di margherite, da sfogliare per il “m’ama non m’ama”, così tante che sulla terra pensarono che il fiore si fosse di colpo auto–estinto. Cucinò per lei tutte le pietanze più succulente del mondo e le accompagnò con una bottiglia di delizioso nettare di “ambrosia” docg e riserva. E la ascoltò, tantissimo, mentre lei, guardandolo teneramente negli occhi, gli parlava del punto erba, delle conseguenze del morbillo sulla crescita e della penosa fine della protagonista della fiction “Quel che fu, fu”, morta di cimurro perché aveva baciato in bocca il cane. Superman, a sua volta, le raccontò dei suoi ricordi d’infanzia sul pianeta Krypton, di come fosse faticoso – ogni giorno – sobbarcarsi le pene dell’universo intero e le confidò che pure lui, ogni tanto, come un uomo qualunque, guardava la partita alla tivù e ci si addormentava davanti.
Vanda provò per Superman profonda tenerezza e lo riempì di baci, tant’è che col rossetto gli macchiò sbadatamente il costume, proprio sotto il collo. Si trascinò dietro quella sensazione, mista a soddisfazione, fino a sera. Preparò la cena, stirò le mutande e fece lavare i denti alla figlia che ora la guardava adorante, anche se vestiva i panni di una mamma normale. Cercò di mantenere lo stesso atteggiamento con il marito che però, come al solito, non la degnò di uno sguardo e si relegò in salotto. Fissandolo, mentre stava russando della grossa, pensò al pomeriggio super eccitante passato in compagnia del super uomo dei suoi sogni. Il suo senso di inadeguatezza svanì e sul suo volto si fece strada un sorrisetto di rivalsa.
Lo schema della giornata tipo di Vanda/Wonder Wanda cambiò radicalmente. Alzati. Saluto a marito con, alle spalle, simulazione di calcio in culo. Rimmel e rossetto. Vesti bambina che dice “Wow, mamma!” e portala a scuola. Infila biancheria sexy e vestito aderente. Sesso con Superman. Vai in ufficio trenta nanosecondi. Estetista. Sbaciucchiamento con Superman. Recupera bambina e portala a pallavolo. Passeggiata con Superman. Prepara cena, cuci, stira e fai lavatrice, mentre ci scopi sopra con Superman. Accogli marito guardandolo con pietà e vai a letto felice e già carica di energie per il giorno dopo, quando ti sveglierai sì col rimmel colato, ma con la certezza assoluta di essere la donna più bella del mondo, perché te l’ha detto Superman. Vanda non stava più nella pelle dalla felicità e si impegnò giorno dopo giorno ad affinare le sue tecniche di rotazione e di velocità per passare più tempo possibile con lui.
Finché non ricevette una telefonata. Era la sua amica, quella che aveva la cugina che aveva una conoscente che aveva testato personalmente il costume. Quella che aveva detto: funziona, è certo. Ma che poi aveva aggiunto un “mica tanto”, inascoltato. Come “mica tanto”, chiese sbalordita Vanda. Che cosa vuol dire? Vuol dire che quelli della rivista gossip “Come tu ti vuoi”, che in linea di massima non spara mai cavolate, ne aveva invece pubblicata una, e veramente grossa perché la tuta coi superpoteri era un bluff. Appurato. Ma com’è possibile? Io con indosso quella ho fatto miracoli e ne farò ancora, insistette convinta.
Si mise davanti allo specchio e provò a volteggiare su se stessa per acquistare le sembianze di Wonder Woman, ma non le riuscì. Riprovò ancora una volta, ma cadde rovinosamente a terra, imprigionata dal suo solito aspetto senza superpoteri, mentre ad intermittenza intravedeva riflesso il bagliore della cintura che lentamente si affievoliva insieme all’immagine dei pantaloncini, del corpetto push up e della fascetta dorata. Era finita.
Vanda si alzò e sconsolata raggiunse la lavanderia. Nostalgicamente guardò la lavatrice, pensando ai bei momenti passati sopra avvinghiata a quel supereroe che non avrebbe mai più rivisto se non nei film. Rassegnata, caricò il cesto con la roba sporca, aggiunse il detersivo, avviò il lavaggio. E notò che su quel pianale dove nei giorni precedenti aveva appoggiato il suo sedere, là ora c’era un cartellino, di quelli che penzolano dai vestiti nuovi. Costume Superman, c’era scritto. Made in Japan. Disponibile solo per coloro che sono in possesso di carta di identità di sesso “emme”. Sessanta euro e cinquanta centesimi, più otto euro di spese di spedizione. In poliestere. Sulla porta, ad osservarla con aria compiaciuta, lui, il marito, con indosso quel costume macchiato di rossetto, giusto sotto il collo. Vanda gli sorrise con malizia e pensò che quella sarebbe stata una meravigliosa giornata. La prima, di tante giornate meravigliose.