Si è appena chiusa a New York, all’International Center of Photography, la mostra Capa in Color, un’esposizione di fotografia di un artista conosciuto per il bianco e nero. Robert Capa moriva quarant’anni fa, il 25 maggio 1964. Ma ci avrebbe riservato ancora una sorpresa.
Il lungo viaggio, intrapreso a cento anni dalla nascita e a sessanta da una morte avvenuta in prima linea in Indocina, scattando la sua ultima fotografia, continua a offrire prospettive inedite di usi e costumi, set e conflitti, fotografati da Robert Capa, fin dal 1941. Anche a colori.
Capa, che lavorava per catturare il “momento decisivo”, divenne famoso per la fotografia, in bianco e nero, del miliziano repubblicano spagnolo ucciso da un proiettile che apparve sulla copertina di Life del 12 luglio 1937, ancora oggi in discussione per la sua veridicità (nella suo libro Slight Out of Focus lo stesso Capa scriveva: «Visto che scrivere la verità è ovviamente tanto difficile, nell’interesse della verità stessa mi sono permesso ogni tanti tanto di andare appena oltre, altre volte di fermarmi appena al di qua»).
Conosciamo Capa per il bianco e nero, e, dunque, ritrovarlo a New York, a colori, ci ha fatto scoprire una produzione sicuramente meno nota, “l’altra faccia”, per così dire, di questo artista.
In effetti, tante volte, a metà carriera, Capa aveva discusso con Cartier-Bresson sull’opportunità di adeguarsi ai progressi della fotografia, utilizzando pellicole a colori. Dopo la guerra, soprattutto, i grandi magazine richiedevano sempre più spesso foto a colori (e le pagavano anche meglio) e, per mantenere in attivo la loro agenzia Magnum, era indispensabile conformarsi alle nuove esigenze. L’utilizzo di pellicole a colori richiedeva nuove conoscenze e abilità e, nel 1938, Capa prese in considerazione, per la prima volta, la pellicola a colori, mentre era in Cina. Dal fronte scrisse a un amico di New York per farsi spedire 12 rullini di Kodachrome e le istruzioni su come usarli. Di quei primi esperimenti sono sopravvissuti solo quattro scatti, pubblicati sul numero del 17 ottobre 1938 di Life, ma, dal 1941, Capa iniziò a utilizzare regolarmente la pellicola a colori, producendo circa 4.200 lucidi a colori, conservati negli archivi dell’International Center of Photography. Un lavoro rimasto quasi totalmente dimenticato ma che è stato parzialmente (125 foto) presentato nella citata mostra di New York.
Il periodo “a colori” più florido corrisponde agli anni in cui non era al fronte e seguiva le celebrities di Hollywood sui set cinematografici, si occupava degli eventi di moda a Parigi e Roma o si recava nelle località sciistiche in Austria e Svizzera. Nel 1947, viaggiò in Unione Sovietica con John Steinbeck (qui Capa produsse uno dei suoi migliori reportage a colori) e poi in Israele tra il 1949 e il 1950.
L’amico e futuro premio Nobel per la letteratura, scriveva di lui, al momento del commiato: «Mi sembra che Capa abbia provato oltre ogni dubbio che la macchina fotografica non deve essere un freddo mezzo meccanico. Come la penna, sarà buona quanto l’uomo che la usa… L’emozione che contengono (le sue foto) non veniva fuori per caso. Poteva fotografare la tristezza, l’allegria o il crepacuore. Poteva fotografare il pensiero». Il dubbio se utilizzare la pellicola a colori o rimanere al bianco e nero aveva ossessionato per decenni i grandi foto-reporter (l’amico e collega Cartier-Bresson, che considerava il colore “indigesto”, aveva distrutto quasi tutti i suoi negativi a colori ma non, fortunatamente, quelli di Capa. L’eredità di questo grande artista sarebbe, dunque, rimasta).
Chi era, allora, questo foto-reporter, noto come uno dei fondatori dell’agenzia fotografica Magnum, insieme a Henri Cartier-Bresson, David Seymour e George Rodger, e capace di reinventarsi a ogni nuova occasione?Diciamo subito che Robert Capa non si chiamava Robert Capa ma Endre Ernő Friedmann, l’uomo dell’azzardo, del caso e della fatalità di arrivare nell’istante esatto grazie a coraggio, insolenza, fortuna, temporeggiamento e anche molto umorismo. Era l’ungherese con l’impermeabile Burberry’s che scattava, in bianco e nero, immagini cariche di sofferenza e dolore sui campi di guerra o nei luoghi devastati dai conflitti, trasmettendo fino a noi quelle terribili sensazioni che si possono provare e condividere solo in teatri simili. Era l’uomo con un nome inventato da lui e dalla compagna Gerda Taro, altra fotografa di guerra morta sul fronte spagnolo, una fusione fra il regista Frank Capra e Robert Tylor, amante di Greta Garbo.
Per tornare al Capa in bianco e nero che tutti conosciamo, va ricordato che questo genio della fotografia ci ha lasciato importante testimonianza di cinque dei maggiori conflitti mondiali: la Guerra civile spagnola (1936-1939), la Guerra sino-giapponese (che seguì nel 1938), la Seconda Guerra Mondiale (tra il 1941 e il 1945), la Guerra arabo-israeliana (nel 1948) e la Prima guerra d’Indocina (nel 1954). Egli documentò, inoltre, il corso della seconda guerra mondiale in Italia, lo sbarco degli alleati in Normandia e la liberazione di Parigi.
Prima di New York, molte grandi esposizioni mondiali si erano concentrate su questo lato chiaro-scuro dell’artista. Fino al 6 gennaio scorso, anche Roma aveva ospitato questo grande artista, al Museo Palazzo Braschi, nell’esibizione Robert Capa in Italia 1943-1944: immagini in bianco e nero che testimoniano la sua attività in Italia come foto-reporter di guerra tra il luglio 1943 e il febbraio 1944. Capa seguì, infatti, gli avvenimenti bellici nel nostro Paese dallo sbarco in Sicilia fino ad Anzio e i 78 scatti esposti immortalavano soldati e civili nella loro quotidianità. Vi abbiamo ritrovato, personalmente, la resa di Palermo, il funerale delle giovani vittime delle Quattro Giornate di Napoli, la gente che fugge dalle montagne dove infuriano i combattimenti vicino a Montecassino, il benvenuto alle truppe americane. Una parte della nostra storia da esplorare, conoscere e, sicuramente, da non dimenticare.
Le foto di Capa sono quelle che restituiscono non la guerra, ma ciò che John Steinbeck chiamava «l’emozione della guerra», le opere di un artista che credeva che «se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino» e che, proprio per questo, si avvicinava in prima persona, a suo rischio e pericolo.
Tuttavia, quest’uomo che non si sarebbe mai ripreso dalla morte della sua Gerda, riteneva che ogni foto che immortali la morte e il dolore, alla fine, non faccia altro che allontanarcene e lo aveva ben compreso quando decise di non fotografare i campi di concentramento: «Ogni nuovo fotogramma di orrore serviva solo a diminuire l’effetto totale della tragedia». In un certo senso, quasi preavvertiva e presagiva la fine della fotografia per eccesso di realismo… Lo vediamo oggi, quando sulla stampa sono affiancate immagini di morte e altre più ludiche, dove le prime, poste allo stesso rango delle seconde, perdono quasi di rilievo e importanza.
Il 25 maggio 1954, quarant’anni fa, a soli quarant’anni, scompariva, sul campo (al seguito di una squadra di truppe francesi, incaricata di evacuare e distruggere due fortini a sud est di Hanoi, nella Prima Guerra d’Indocina), uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi, padre del fotogiornalismo, autore di oltre 70mila foto. Un patrimonio immenso, di grandissimo valore storico e culturale, oggi custodito all’International Center of Photography di New York.
Un patrimonio, dunque, di tutti i colori, compreso il bianco e nero.